Copertina
Autore Gianni Rocca
Titolo Caro revisionista ti scrivo...
EdizioneEditori Riuniti, Roma, 1998, Primo piano , Isbn 978-88-359-4583-3
LettoreRenato di Stefano, 1999
Classe storia contemporanea , storia contemporanea d'Italia , guerra-pace , storia: Europa , paesi: Russia
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Indice


  9  Lettera aperta
 11  1914: il grande crimine
     della borghesia
 15  L'imprevedibile vittoria di Lenin
 21  E la Russia di Lenin resta sola
 25  1915: la sconfitta dell'Italia
     parlamentare
 34  La borghesia italiana sceglie
     il fascismo
 39  1929: guerra ai kulaki e crisi
     del capitalismo
 48  1933: con Hitler il fascismo dilaga
     in Europa
 53  L'aggressione italiana all'Etiopia
 58  Il terrore staliniano
 65  Il dramma spagnolo
 71  Monaco: la resa delle democrazie
 76  1939: la guerra di Hitler
 81  1941: aggredendo l'Urss, Hitler fa
     rinascere il comunismo
 87  Stalingrado: per Hitler l'inizio
     della fine
 93  1940: l'Italia in guerra a fianco di
     Hitler
 98  1943: crolla il fascismo
105  La vergogna dell'8 settembre e
     l'inizio della Resistenza
115  Palmiro Togliatti e il «partito
     nuovo»
123  Nasce la «guerra fredda»: di chi la
     colpa?
133  L'Italia del 18 aprile
145  Il fatale 1956
156  Gli anni del boom
167  L'Italia di Moro e di Berlinguer
179  Il punto di non ritorno

 

 

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Pagina 11

1914: il grande crimine della borghesia

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Pagina 12

Nessuno, fra i politici e i militari, aveva tenuto conto del vorticoso progresso tecnologico della seconda rivoluzione industriale, in grado di dotare gli eserciti di armi distruttive di inusitata potenza, quali i moderni cannoni e le devastanti mitragliatrici, contro i quali poco potevano i tradizionali attacchi alla baionetta dei soldati o le leggendarie cariche della cavalleria. E cosí monarchi, generali, capitani d'industria, uomini della finanza - l'ossatura della grande borghesia europea - si erano fatti attrarre nel gorgo della guerra, nata occasíonalmente dai colpi di pistola sparati da un serbo contro il principe ereditario austriaco, in quel di Sarajevo. Incoscienza, arroganza, errori diplomatici di calcolo parevano le vere cause scatenanti del conflitto. In realtà, la voglia di affidare alle armi la soluzione dei molti problemi che affliggevano il vecchio continente, era da tempo coltivata: non occorreva che un pretesto. E la responsabilità di un simile crimine contro l'umanità non risiedeva solo nei ristretti circoli del potere. Filosofi, poeti, letterati, predicavano teorie superomiste, magnificando la bellezza della guerra - «igiene del mondo» la definivano - e condannando la politica dei piccoli passi, del paziente rifonnismo, della pace come massima aspirazione. Grandi e medi borghesi affamati di nuove ricchezze si saldavano con masse di piccola borghesia, frustrata, atterrita dall'espandersi di un proletariato desideroso di contare sempre piú in una società industriale, di cui era il principale motore. Purtroppo i capi del socialismo moderato si lasciarono coinvolgere dalla follia nazionalista, e quando la guerra esplose non seppero opporsi. Anzi molti di loro si accodarono al coro bellicista, cosí come il clero dei vari paesi, benedicente le armi dei singoli eserciti. Le poche voci di saggezza, di chi cioè prevedeva che il conflitto avrebbe sconvolto irrimediabilmente i vecchi assetti, causando l'irrompere di nuovi e brutali egoismi, furono irrise e messe a tacere.

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Pagina 15

L'imprevedibile vittoria di Lenin

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Pagina 16

Persino in Russia, dopo la spietata repressione dei moti rivoluzionari del 1905, cominciavano a prendere corpo le prime timide riforme, in contemporanea con la nascita del capitalismo, fortemente finanziato dalle banche straniere. Il partito «bolscevico» guidato da Lenin, stretto fra la morsa della polizia e del suo impermeabile settarismo, era cosí destinato lentamente a sbriciolarsi. Lo stesso Lenin vagava nel suo forzato esilio da una capitale all'altra d'Europa con contatti sempre piú radi e difficoltosi con i «quadri» rimasti in patria, anche loro duramente perseguitati e spesso condannati a lunghe pene da scontare in Siberia. E se pure in Francia, in Italia, in Germania, esistevano forti nuclei rivoluzionari, per lo píú attratti da fonne estremiste di lotta e che puntavano sugli scioperi generali per rovesciare il sistema capitalistico-borghese, si poteva affermare che, alla vigilia della prima guerra mondiale, i predicatori della lotta violenta alla Lenin parevano destinati al fallimento politico, una specie votata addirittura all'estinzione.

Quando nell'agosto del 1914 scoppiò il conflitto, Lenin riuscí a stento a raggiungere la Svizzera. Gli altri capi rivoluzionari russi, come Trotzki e Bucharin, si trovavano negli Stati Uniti, mentre Kamenev e Stalin da tempo conducevano la loro esistenza di «coatti» nella Siberia. Era un gruppo disperso, vinto, senza prospettive. La guerra insensata, scatenata dalla grande borghesia europea, stava per restituire loro la vita, fornendogli ínopinatamente ampie dimostrazioni sulla attendibilità delle loro teorie, anzi consentendo, in particolare a Lenin, di portare alle píú estreme e logiche conseguenze il credo rivoluzionario.

Il protrarsi della guerra, la spietatezza con cui veniva condotta, il fiume di sangue che provocava nelle gigantesche battaglie di reciproco logoramento, l'assoluta mancanza di credibili ideali che la giustificassero, spinsero il capo dei bolscevichi ad alcune conclusioni, che da quel momento sarebbero state la base della sua futura azione politica. E che obiettivamente sembravano incontrovertibilí.

In primo luogo - secondo Lenin - il capitalismo sfruttatore stava mostrando il suo vero volto di rapina, di spregiudicata ricerca del massimo profitto, per ottenere il quale tutti i mezzi erano leciti, guerra di sterminio compresa. Nel 1916 egli diede corpo teorico a queste valutazioni scrivendo un saggio dal titolo emblematico: Imperialismo, fase estrema del capitalismo. Non era il solo, dífatti, a pensare come il conflitto in corso stesse proprio certificando l'aggressività dei gruppi economico-finanzíari, intenzionati a contendersi il primato mondiale senza esclusione di colpi. Davanti a tali concreti interessi perdevano di significato valori tradizionali quali amor di patria, progresso civile e sociale, libertà, democrazia. Piú che mai i singoli governi - secondo la nota formula marxiana - erano diventati i «comitati d'affari» della grande borghesia capitalistica che non retrocedeva di fronte a nulla pur di raggiungere i propri obiettivi di dominio. Una classe dunque «nemica» dell'umanità, che in quanto tale doveva essere eliminata con la forza, vane risultando ormai le possibilità di combatterla con i metodi delle riforme graduali e «democratiche».

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Pagina 20

L'utopia di una società in cui si ponesse fine allo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, rendendola giusta ed eguale per tutti, stava dunque per inverarsi in un paese arretrato, basato su un'industria ancora ai primi sviluppi, e su campagne che non avevano conosciuto la modernità delle innovazioní capitalistiche, privo di un forte e differenziato ceto medio, senza alcuna tradizione alle spalle di politiche democratico-liberali e di socialismo riformista. La rivoluzione d'Ottobre con il rovesciamento del governo provvisorio, avrebbe portato un gigantesco paese dalle sponde appena lasciate della feudalità al socialismo. Un balzo enorme, sconvolgente, inatteso, mai previsto dai rivoluzionari del passato, Marx per il primo. Un «salto» storico reso possibile dalla sciagurata guerra mondiale, al cui termine, nel 1918, non solo rimasero travolti per sempre ben quattro imperi, l'ottomano, il russo, l'austro-ungarico e il tedesco, ma sarebbero emersi problemi nuovi e drammatici da risolvere, accompagnati da una scia di paure, risentimenti, vendette.

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Pagina 25

1915: la sconfitta dell'Italia parlamentare


La «marcia su Roma» di Benito Mussolini avvenne, come è ben noto, su un comodo vagone-letto che da Milano lo condusse nella capitale. Al viaggio il capo del fascismo si era deciso dopo molte esitazioni (non a caso aveva in tasca anche un biglietto per la Svizzera) e solo quando ebbe la certezza che non sarebbe stato proclamato dal re il temuto stato d'assedio, l'unico strumento in grado di fermare e scompaginare le sue camicie nere che si stavano ammassando ai confini del Lazio. Quel rifiuto di applicare la legge nei confronti di un movimento politico armato ed eversivo rappresentava di fatto il «via libera» a una pacifica e consensuale presa del potere da parte del fascismo. Il sistema liberal-democratico-parlamentare, che attraverso momenti di tensione e di pericoli reazionari era comunque riuscito a sopravvivere dai tempi dell'unità d'Italia, aveva praticamente capitolato. Non tutti, allora, si resero conto della mortale ferita inflitta alle istituzioni del paese. Anzi, si coltivavano in proposito numerose illusioni, persino da parte di sinceri liberali quali Giovanni Giolitti e Benedetto Croce. Essi contavano difatti che l'incarico affidato a Mussolini di formare un governo servisse a «costituzionalizzare» il fascismo e a inserirlo gradualmente nel sistema democratico. E non pochi pensavano che una volta esaurito il compito di rimettere «ordine», dopo i convulsi e tormentati anni del primo dopoguerra, si potesse dare il benservito a Mussolini, facendolo rientrare nei ranghi.

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Pagina 34

La borghesia italiana sceglie il fascismo


Anche l'Italia aveva pagato un pesante tributo alla guerra: quasi 650 mila morti e oltre un milione e mezzo di feriti sui cinque milioni di soldati chiamati alle armi nell'arco del conflitto. Il paese era stato sottoposto a uno sforzo spaventoso e a tensioni mai prima sperimentate, che avevano conosciuto durante la rotta di Caporetto, nell'autunno del 1917, le punte piú alte, quando parve per qualche settimana che l'esercito si dovesse dissolvere sotto l'incalzare dei nemico vittorioso. L'Italia riuscí a superare la crisi in virtú di alcuni determinanti elementi: l') il frettoloso ritiro dal fronte delle unità tedesche, protagoniste dell'offensiva e del nostro crollo; 2') l'arrivo delle truppe alleate in soccorso di quelle italiane attestate dietro il Piave; 3') il siluramento di Luigi Cadorna da capo di stato maggiore, responsabile della sanguinosa condotta di guerra, basata sul brutale dispendio di vite umane, e che spinse i suoi successori a un piú attento utilizzo della «carne da cannone»; 4') la ritrovata concordia tra le varie forze politiche di fronte al pericolo di una irreparabile sconfitta militare.

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Pagina 38

Si erano create, dunque, in Italia, tutte le condizioni, per una svolta reazionaria, anche se nel 1922 appariva chiaro a tutti come di «pericolo rosso» non si potesse piú parlare, dopo il fallimento dei tentativi dell'estremismo di sinistra. In luogo di un ritorno a forme piú moderne e consapevoli di democrazia, possibili con la fine degli aspri scontri di classe, la borghesia pur vincitrice si affidò nelle mani di Mussolini e delle sue camicie nere. La marcia su Roma dell'ottobre 1922 fu solo l'epilogo teatrale e incruento di quella scelta.

Ora se la vittoria del fascismo fu il risultato di molteplici cause e di plurimi errori di valutazione, resta incontrovertibile che essa si realizzò grazie al concorso decisivo della classe dominante, ormai refrattaria ai valori del liberalismo e della democrazia. Il che finiva per confermare l'analisi pur settaria dei comunisti italiani, per i quali il fascismo altro non era che il volto piú reazionario e oppressivo della stessa borghesia. Sarà bene non dimenticare mai la genesi della svolta autoritaria del 1922, e di chi la volle e la promosse, per comprendere gli avvenimenti futuri che ne sarebbero derivati.

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Pagina 48

1933: con Hitler il fascismo dilaga in Europa

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Pagina 50

L'iniziale cammino del nazionalsocialismo trovò non pochi ostacoli, anche perché la tanto disprezzata Repubblica di Weimar riusciva, sia pur faticosamente e tra gravi contrasti, a realizzare significativi successi. Ma cosí come la criminale prima guerra mondiale aveva generato bolscevismo e fascismo, la spaventosa crisi capitalistica del 1929 fu la vera levatrice del nazismo. La paralisi produttiva, il crescente esercito di disoccupati, le gravi tensioni sociali che ne conseguivano, la paura in vasti strati di riprecipitare nel caos e nella miseria dell'immediato dopoguerra, offrirono inaspettatamente a Hitler la possibilità di emergere come leader «rivoluzionario» della destra tedesca. A lui cominciarono a guardare con simpatia i trust del capitalismo industriale e finanziario, attratti dai programmi di riarmo apertamente professati dal capo nazista e dalla sua lotta senza quartiere ai partiti e ai sindacati della classe operaía. Cosí come a lui si rivolsero ampi strati di ceto medio, atterriti dall'improvviso impoverimento, dall'espandersi dei socialdemocratici e dei comunisti, e dagli scontri di piazza sempre piú frequenti e incontrollati.

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Pagina 93

1940: l'Italia in guerra a fianco di Hitler

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Pagina 96

Solo gli italiani, sprovvisti di reali conoscenze, potevano credere al protrarsi della neutralità del proprio paese. Mussolini voleva la guerra accanto a Hitler - come prevedeva il «patto d'acciaio» firmato nel '39 - nella logica reazionaria che li collegava contro le «giudodemoplutocrazie» occidentali, e naturalmente contro «l'idra bolscevica». Un disegno che giunse a maturazione appunto il 10 giugno 1940, quando atterrito dalle sonanti vittorie militari tedesche in Francia e timoroso di restare fuori dal banchetto della pace «nazista» che ne sarebbe conseguita, Mussolini decise di «chiamare alle armi» il paese. Fu un gesto insieme irresponsabile e proditorio. Perché anche allora era ben lontano dal possedere una moderna macchina militare e perché pugnalava alle spalle la Francia, già messa in ginocchio dalle divisioni tedesche. Le cineprese dei documentari propagandistici dislocate in tutte le piazze fotografarono in modo inoppugnabile come gli italiani entrarono in guerra. Al di fuori dei tradizionali «plauditores» ammassati sotto il balcone di palazzo Venezia, ovunque si potevano scorgere volti attoniti e preoccupati, per nulla contagiati dalle roboanti parole del duce che stavano ascoltando. I rapporti di questori e, prefetti furono unanimi in quei giorni: mancava l'entusiasmo e soprattutto profonda era l'avversione verso il tedesco, tradizionale nemico. Fra gli stessi gerarchi di primo piano, quali Dino Grandi, Galeazzo Ciano, Italo Balbo, la guerra a fianco di Hitler sembrava dannosa e fonte di futuri pericoli. Vi era comunque in tutti la speranza che il conflitto fosse di brevissima durata: una sorta di formalità per partecipare da posizioni di forza alle future trattative di pace. Che l'Inghilterra da sola osasse ancora sfidare la ppotenza nazista nessuno lo riteneva possibile. Ecco perché si accettava un'altra volta l'avventurismo di Mussoliní e la sua cinica richiesta di qualche migliaio di morti per sedersi al tavolo dei vincitori.

Era invece quello del 10 giugno l'inizio del piú tragico calvario nella storia d'Italia. Non fu dunque un «errore» del duce, come a lungo nel secondo dopoguerra conservatori e reazionari di varia natura - predecessori degli attuali revisionisti - cercarono di accreditare per salvare tutto il resto del fascismo, ma la logica conseguenza delle scelte antidemocratiche e anticomuniste susseguitesi dal 1922. L'ultimo «peccato» - quello della guerra a fianco del nazismo - di una lunga serie, che gli interessi di classe della grande borghesia italiana e l'ignavia di gran parte del popolo resero possibili a tutto danno del paese. Una responsabilità che più tardi la classe dirigente avrebbe cercato di allontanare da sé riversando sul solo Mussolini le colpe di scelte catastrofiche che pure fino all'ultimo furono da lei condivise. Un tributo pagato in nome dello slogan «o Roma o Mosca» e della ben accetta distruzione delle libertà civili e politiche. Non a caso il duce - nel suo incendiario discorso del 10 giugno 1940 - aveva detto essere giunta «l'ora delle decisioni irrevocabili».

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Pagina 98

1943: crolla il fascismo


Il revisionismo italiano da anni sta tentando di dimostrare che non tutto del fascismo era da buttare, al di là delle «benemerenze» anticomuniste. Eppure esiste un dato di fatto inoppugnabile, sottovalutato da sostenitori e avversari di quella teoria: il modo col quale preparò il paese e lo guidò nel secondo conflitto mondiale. La guerra, nella sua brutale e spietata logica, accanto ai lutti e alle distruzioni, ha il potere di mettere a nudo i pregi e i difetti di una classe dirigente e dell'intero popolo che essa pretende di governare. Quel che l'Italia fascista mise in campo dal 10 giugno 1940 al 25 luglio 1943 non ha eguali al mondo per ciarlataneria, improvvisazione, impreparazione, incapacità, inefficienza. L'edificio costruito per vent'anni, col dichiarato proposito e ambizione di innovare e modemizzare, si dimostrò sin dai primi giorni di guerra una semplice facciata propagandistica, vuota al suo interno e priva addirittura di fondamenta. L'ininterrotta e umiliante catena di sconfitte che si protrassero sino al crollo finale è la drammatica testimonianza di un totale fallimento: militare, economico, sociale, ideologico. Una vergogna e una condanna senza appello che da piú parti si è cercato e si cerca tuttora di far dimenticare.

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Pagina 103

Il vittorioso sbarco anglo-americano in Sicilia accelerò i tempi della manovra: il 25 luglio, usufruendo di un voto del Gran consiglio del fascismo contrario al duce, il re metteva in atto un colpo di Stato, defenestrando e arrestando Mussolini, sostituito nella guida del paese dal maresciallo Pietro Badoglio. L'operazione, tipica del nostrano trasformismo, sollevò un genuino entusiasmo fra gli italiani, che si riversarono festanti per le strade all'annuncio della caduta del duce e sottolineò nel contempo il fallimento ideologico e politico del fascismo. All'infuori di un caso di suicidio, tutti gli appartenenti alla complessa struttura dittatoriale accettarono, senza la minima opposizione, il fatto compiuto. Un cosí subitaneo e vergognoso tracollo non aveva riscontri nella storia: da un lato denotava l'inconsistenza e la fragilità di un regime e dall'altro il tradizionale cinismo delle classi dirigenti pronte ai piú ributtanti «giri di valzer» pur di salvare i propri interessi. In quei giorni, insieme di sollievo e di speranze per la maggioranza degli italiani, il pensiero non poteva non andare a quanti, sopportando carcere, persecuzione, esilio, si erano sempre battuti contro il fascismo, ritenendolo il male peggiore per il paese. Grazie a quel ristretto manipolo di irriducibili l'Italia poteva ancora parlare di «dignità» di fronte al miserevole spettacolo di dissoluzione offerto dai fascisti e dai loro piú accesi sostenitori. E di quella ristretta cerchia i comunisti erano stati i píú numerosi e combattivi. Nella loro capacità di resistere e di opporsi al mussolinismo andranno ricercate le origini del successivo radicamento di quel partito nel tessuto connettivo del paese. Un'inoppugnabile verità che i revisionisti volutamente ignorano, preferendo far credere che lo sviluppo del Pci sia stato conseguenza degli «aiuti» di Mosca e non del prestigio conseguito nelle battaglie per la libertà del paese.

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Pagina 105

La vergogna dell'8 settembre
e l'inizio della Resistenza

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Pagina 111

Oggi vengono definiti i «ragazzi di Salò», da rispettare per il coraggio di scelte perdenti, figli inevitabili di un periodo di sconquasso e di crollo generalizzato di tutti i valori. Ma c'è chi vorrebbe sostituire alla «comprensione» per il loro comportamento la «parificazione» con quanti avevano tratto dallo sfascío dell'8 settembre ben altre conseguenze, il desiderio cioè di cancellare per sempre vent'anni di dittatura e di far rientrare l'Italia nel mondo dei paesi liberi e democratici. Un allineamento antistorico che, se accettato, annullerebbe le stesse radici da cui è nata la nuova Italia repubblicana, confinando il fascismo a puro «incidente» di percorso e non invece come somma di errori voluti e perseguiti a lungo da un'intera classe dirigente.

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Pagina 123

Nasce la «guerra fredda»:
di chi la colpa?

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Pagina 129

Malgrado l'ostentazione di sicurezza e le profferte di dialogo, Stalin stava tornando purtroppo sui suoi passi in politica interna. Ancora una volta emergevano le ossessioni del passato, accanto alla sfiducia nei confronti dei sovietici che pure avevano dato prove di cosí ampia fedeltà a un regime che egli peraltro non intendeva minimamente modificare, rafforzandone anzi i pilastri di sempre: dispotismo, ferreo controllo poliziesco, brutale soppressione di ogni dissenso. Durante la guerra v'erano state delle timide aperture, necessarie per alimentare lo spirito patriottico: dalla soppressione del Komintem alla ripresa del dialogo con gli esponenti sopravvissuti della Chiesa ortodossa; da una maggiore circolazione di informazioni sul mondo occidentale a un allentamento dei controlli sulla produzione culturale. Il timore di un nuovo accerchiamento, vistosamente preannunciato da Churchill, e la possibilità che potesse riprendere lo scontro frontale con il mondo capitalistico spinsero il dittatore a un nuovo giro di vite. Cominciò difatti, a metà del 1946, l'immonda campagna diretta da Zdanov contro gli intellettuali colpevoli di «cosmopolitismo» che portò al ritorno della piú ferrea censura nei confronti di scrittori, poeti, pittori, cineasti, costretti a magnificare, per sopravvivere, il «realismo socialista» e a glorificare la superiorità del comunismo. Contemporanearnente il sempre piú potente capo dell'apparato poliziesco, Lavrenti Berja, riportava in auge la politica del terrore, perseguitando le popolazioni che si supponeva avessero collaborato con i tedeschi durante il periodo dell'occupazione e i milioni di soldati che rientrati in patria dalla prigionia venivano considerati «traditori» per essersi arresi al nemico. La Russia tornava cosí a quell'infemo concentrazionario che si sperava per sempre cancellato dalle gloriose pagine scritte nella lotta contro il nazísmo. Una drammatica conferma dell'irriformabilità del modello statiniano. Quei lugubri segnali non vennero tempestivamente colti dalla sinistra internazionale, troppo vivo essendo ancora il prestigio acquisito da Stalin e dal potere sovietico presso vaste masse popolari. E l'accendersi della «guerra fredda», con la suddivisione del mondo in due blocchi, avrebbe ulteriorfnente ritardato quella indispensabile presa di coscienza.

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Pagina 179

Il punto di non ritorno

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Pagina 181

Ma v'è, in particolare, un punto sul quale ancora vorrei insistere: e cioè sul nesso tra «nascita» del comunismo e «risposta» fascista, che francamente non trova attendibili riscontri.

Non si ripeterà mai abbastanza che l'avvento di Mussolini in Italia si verificò quando le possibilità di affennazione delle sinistre - dei «rossi» per intenderci - erano ormai ridotte a zero, dopo le sconfitte sul piano politico, sociale ed economico dal massimalismo estremista. La democrazia nel nostro paese aveva in sé tutte le possibilità di esplicarsi, in forme rinnovate e moderne, a condizione che i centri decisionali del paese - finanziari, industriali, agrari, della monarchia e delle forze armate - ne fossero stati intimamente convinti. L'inevitabile crisi postbellica era ormai in fase di superamento, non mancava che la volontà politica della grande borghesia di servirsi degli strumenti liberali a disposizione per riprendere il cammino. Fu proprio ciò che non accadde e che la spinse nelle braccia del fascismo, ben presto intravisto come il benefico affossatore delle istituzioni a presidio della libertà, nelle quali piú non si riconosceva. Né si può accampare alcuna giustificazione a tale sfiducia negli ormai trascorsi timori di conati sovietisti in Italia, né per quelli derivanti dal lontano esperimento leninista in Russia, tra l'altro, in quel 1922, definitivamente bloccato nei confini di quel paese, e sulla cui sopravvivenza, all'epoca, ben pochi erano disposti a scommettere.

Cosí come, nel 1933, l'avvento di Hitler al potere fu essenzíalmente determinato dal ripudio consapevole della Repubblica di Weimar mai compiutamente accettata dai centri decisionali della Germania, anzi spesso avversata. Chiunque conosca le vicende tedesche di quel periodo sa di quali tradimenti, vergognosi intrighi e meschini calcoli politici si macchiarono i partiti borghesi, liberali e cattolici, sí da spianare la via all'affermazione nazista. Senza tale decisivo contributo e senza il determinante appoggio dei grandi trust industrialí e finanziari, Hitler mai sarebbe giunto alla guida del paese. Né le convulsioni sociali derivanti dagli effetti della crisi capitalistica del 1929, né la presenza di un partito comunista, settario e massimalista ma di scarsa presa elettorale, potevano giustificare la scelta autoritaria: la Germania aveva superato, democraticamente, ben altre difficoltà nell'immediato primo dopoguerra, sapendo respingere gli assalti degli estremisti di destra e di sinistra. E tanto meno la Russia di Stalin, in quel 1933, poteva rappresentare un pericolo per l'Europa e in particolare per i tedeschi, rinchiusa com'era nella proprie frontiere e alle prese con gli spaventosi effetti della collettivizzazione delle campagne e di una industrializzazione altrettanto forzata e selvaggia.

Ma è proprio ciò che i revisionasti non vogliono ammettere: che la borghesia italiana e tedesca - in momenti diversi - erano giunte al comune convincimento di ritenere fruttuoso e conveniente lo scambio fra istituti democratici e poteri forti e dittatoriali. La stessa scelta che nel 1936 spinse il golpista Franco a insorgere contro un governo legale e liberamente eletto, sapendo di poter contare sul sostegno dei ceti privilegiati e possidenti spagnoli, ben lieti di affidare la difesa dei loro interessi di classe a un regime autoritario di destra, spalleggiato dai trionfanti fascismi europei.

Chi dunque sostiene che il fascismo fosse l'inevitabile replica all'aggressivítà comunista rifiuta la lezione dei fatti. E del resto quale tipo di replica? Fu forse Stalin o la presenza nel mondo dell'Unione Sovietica a spingere Mussolini nelle sue avventure colonialiste in terra d'Africa? E dipese da Stalin, alla disperata ricerca di un'alleanza con le grandi democrazie occidentali, se Hitler nel suo fanatico e delirante sogno di una Germania razzialmente pura ed egemone, decise di annettersi con la forza l'Austria conservatrice, di smembrare e poi occupare per intero la democratica Cecoslovacchia, con il determinante appoggio dei governi di Londra e di Parigi, per avanzare subito dopo inammissibili pretese territoriali sulla Polonia, paese eminentemente anticomunista e antisovietico? O non si trattava, invece, di un lucido disegno del fascismo di proporsi come «autonomo» soggetto proteso alla creazione di un nuovo ordine mondiale basato sulla forza, sul razzismo, sulla sopraffazione, sul ripudio di tutti i valori liberali, malamente mascherato dagli slogan dell'anticomunismo? E in quel periodo quali accuse potevano essere rivolte a Stalin e all'Unione Sovietica in ordine a violazioni delle leggi e degli equilibri íntemazíonali?

Troppo comodo, dunque, addossare ogni colpa dei mali e degli orrori del secolo al solo comunismo, come intendono i revisionasti. Ai quali occorrerà sempre ricordare che senza l'apporto decisivo dell'Unione Sovietica la democrazia nel mondo non sarebbe riuscita a sopravvivere alla sfida lanciatale dal fascismo. Già: perché Churchill e Roosevelt preferirono l'alleanza con Stalin in quella lotta mortale? Ecco una domanda da rivolgere senza requie ai revisionasti. Avranno il coraggio di rispondere sostenendo che si trattò di un tragico errore?

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