Copertina
Autore Gian Andrea Rolla
Titolo Il libro nel deserto
SottotitoloL'avventuroso salvataggio degli antichi manoscritti islamici
EdizioneNuovi Equilibri, Viterbo, 2004, Eretica , pag. 136, cop.fle., dim. 120x168x11 mm , Isbn 978-88-7226-792-9
LettoreGiovanna Bacci, 2004
Classe narrativa italiana , viaggi , libri , storia: Africa
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Indice

I   Il treno più lungo del mondo         3

II  L'oasi ritrovata                    33

Epilogo                                114

Postfazione                            122

Bibliografia essenziale                134
 

 

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Pagina 3

I

Il treno più lungo del mondo


    "... il treno... veicolo privilegiato per esprimere
    il disagio esistenziale o più semplicemente per la
    diffusione di messaggi erotici e sociali".
              Da "La storia del Jazz" ed. La Repubblica



Fino a quel momento ero certo che la mia orazione funebre sarebbe piaciuta al morto.

Pietro Marchetti, il morto, amava il rigore della logica e la solidità dell'empirismo e finora ero riuscito a mantenere quel taglio. Ero stato sobrio, semplice e avevo evitato ogni caduta sentimentalista. Ma ora il discorso era finito e nessuno se ne era accorto. Alzai gli occhi dal leggio dove avevo appoggiato i fogli e guardai sconsolato la gente che mi aveva pazientemente ascoltato.

Mi ero anche ricordato di scandire bene le parole, perché normalmente, e soprattutto in francese, me le ingoio prima di pronunciarle.

Il risultato era che, per piacere a un morto, non avevo scaldato il cuore a nessuno dei vivi, che invece erano lì presenti, accaldati e stanchi di stare in piedi da ormai più di mezz'ora, sotto il cocente sole del Sahara mauritano.

Guardavo Rosa, la moglie di Pietro, e i loro figli e i miei, osservarmi perplessi. La gente cominciava a mormorare e a fare quei tipici colpi di tosse per superare un imbarazzo collettivo.

Poi Rosa mi lanciò un breve sorriso di incoraggiamento, come certe mamme apprensive alla prima recita del figlio.

Il vento cominciava a tirare sui picchi delle dune e già si scorgeva il primo gruppo di cammelli uscire dall'oasi e dirigersi verso l'accampamento degli Aglall. Dovevo sbrigarmi a chiudere l'orazione. Ma non avevo più niente da leggere e non sapevo più cosa dire. Continuai lo stesso, prima rivolgendo lo sguardo a Rosa e ai ragazzi e poi a tutta la riunione:

"... Signor Ministro della Cultura, signor Sindaco, signor Console d'Italia in Mauritania, autorità civili, militari e religiose, care amiche e cari amici... ognuno di noi porta con sé l'ultima immagine dei propri cari che non sono più. È un'immagine sola, unica, non ve ne sono altre, è come la sola fotografia a cui abbiamo diritto, una sola. E allora io... io porterò con me quella di Pietro, di questo mio indimenticabile amico... lo rivedo, una sera d'inverno, nel suo laboratorio di restauro, chino su una vecchia carta greca leggere e rileggere una breve frase latina che qualche geografo romano o, forse più semplicemente, qualche militare, aveva scritto lungo la linea dove inizia il Sahara... una frase lapidaria: Hic sunt leones, qui vi sono i leoni. E ciò evidentemente per significare che laggiù vi erano solo belve e nessuna forma di civiltà. E allora vidi... ebbi il privilegio di vedere la passione... il cuore con il quale il nostro amico compì un atto... blasfemo per un conservatore e per un restauratore di beni antichi e scrisse... sì, scrisse, scrisse di suo pugno, nella parte della carta dove erano localizzati alcuni punti d'acqua, là dove sarebbe sorta l'oasi di Cinguetti, scrisse... certo, stava compiendo un oltraggio e uno scempio... ma il cuore che mise nello scrivere su quell'antica carta faceva del suo gesto un atto riparatore... in ritardo, certo, come è nella natura e nel destino degli atti riparatori, ma pur sempre un atto di giustizia... Pietro, temperato un calamo, corresse la mappa con: Hic sunt libri, qui vi sono i libri. Non le belve, la barbarie, ma una civiltà, che i libri testimoniavano... In Africa si dice: 'Quando un vecchio muore, è una biblioteca che brucia'. Perché l'Africa è comunicazione piena, del corpo e della parola. Ma non dello scritto. In Africa non vi è altra scrittura che quella dell'aria, del vento e dei suoni... e dei suoni che fanno le parole. L'immagine riassuntiva dell'Africa non è forse il vecchio che, la sera, vicino al fuoco e sotto l'albero principale del villaggio, racconta fiabe e parabole ai giovani, alle ragazze e ai bambini? Ma ogni tradizione, ogni cultura per non inaridirsi deve avere il coraggio, il gusto dell'ignoto, dell'incontro, rischiare di contaminarsi e di cambiare, rischiare di essere un giorno o l'altro... meticcia. Arrivare al punto di rottura, pigliarlo in mano e buttarlo di lato per continuare il cammino. Questo è stata per l'Africa l'incursione della parola scritta. Questo hanno significato i manoscritti millenari portati a dorso di cammello dai pellegrini di ritorno dalla Mecca. Questi libri di religione, di poesia, di scienza, di medicina, di algebra, di astronomia, di filosofia, di diritto, di storia, questi elegantissimi, raffinati, pregiatissimi manoscritti, redatti con calligrafia di altissima arte, su carte di grande pregio, raccolti in abili rilegature, esempio di passata destrezza e di ammirevole cura nella confezione di un lavoro... questi manoscritti sono un passaggio profondo della storia e della cultura d'Africa, della civiltà araba, della storia umana... e non verranno dimenticati e distrutti anche grazie al sacrificio e alla dedizione di Pietro Marchetti, di questo studioso indimenticabile che quella sera lontana d'inverno europeo, con cuore di re vendicatore, vergò su una carta questa semplice, ma necessaria frase: Hic sunt libri. Questo è il suo lascito: che mai la cultura umana, in qualsiasi forma si presenti, venga dimenticata e abbandonata. Grazie! Ho finito... c'è un caldo becco questa sera, sembra di essere in Africa...".

Mentre scendevo dal podio e stringevo mani sudate, baciavo guance scivolose e abbracciavo sconosciuti appiccicosi e plaudenti, ebbi come un flash e tornai indietro con la mente.

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Pagina 44

Il grande mercato del pesce costruito dai cinesi era stato abbandonato e le famiglie dei pescatori erano tornate a vendere su vecchi tavolacci. In mezzo alle dune e davanti alle grandi onde dell'Atlantico, pesci spada, muggini e branzini venivano tagliati a fette e messi in vendita su banchi di legno. Mucchi di lische, teste di pesce e scaglie, coperti da nuvole di mosche, marcivano attorno ai banchi e la loro puzza rendeva più rapidi i negoziati con i pescatori. Lontani qualche metro dai banchi dei pescespada, dei muggini e dei branzini, alcuni senegalesi vendevano polpi giganti, seppie e gamberi. Spesso si trovavano anche grandi aragoste e belle ostriche. Quelli dei senegalesi erano i banchi per gli europei e per i libanesi, banchi esclusivi con prezzi bassi per noi e alti per gli africani.

Dietro ai banchi e poi lungo la pista sino alla spiaggia, vi era 'l'indotto': baracche di legno dove si vendevano reti da pesca, lenze, ami, coltelli, pezzi di ricambio per motori fuoribordo, pane, acqua, burro, pesce cotto nel pomodoro, nelle cipolle e nel peperoncino, riso con patate e zucche, foglie di menta, zucchero e sacchetti di tè.

E finalmente la grande spiaggia, la plage des pêcheurs (la spiaggia dei pescatori).

Centinaia, migliaia, milioni, miliardi di barche erano tirate sulla spiaggia e altrettante pescavano davanti alla costa, dove, dopo aver passato la grande risacca, il mare tornava a essere lungo.

Onde alte e potenti si infrangevano sulla battigia e risucchiavano sabbia, sassi e conchiglie per metri e metri. Le barche affrontavano la risacca senza timore, rapide e taglienti come scimitarre, le prendevano di due terzi e le passavano sul soffio della spuma bianca ed entravano in cielo, tanto s'alzava la prua, per poi calarsi di nuovo nelle acque dell'oceano. Nessuno era miglior barcaiolo di quei senegalesi, di quegli indomiti, spaventevoli negri, nessuno di noi mediterranei valeva un loro occhio morto, mai avevo visto superare così l'onda e rivolgersi al mare.

Quelle barche di legno, lunghe e affilate, colorate di rosso, giallo e azzurro, con disegni di alta geometria islamica, perché per loro le figure umane le fa solo Dio, quelle barche con le prue a sperone e le poppe basse a sfiorar l'acqua mi parvero per molto tempo le sole deputate a vincere l'oceano, a catturare balene a remate, a riempire le vele di gabbiani e a riportare tutti i pesci del mare sulle spiagge dove le loro donne li avrebbero venduti e cucinati per i loro figli.

Questa era la pesca nella grande spiaggia dei pescatori e io non riuscii a non chiedere a Baba di fermare la sua auto e farmi scendere e farmi camminare solo qualche minuto in mezzo alle donne che preparavano il pesce nel peperoncino e nel riso e ai bambini che lo vendevano e ti tiravano per la camicia e ti supplicavano ridendo con il loro accento saheliano: "Se pà ser monsié, se pà ser monsié" ("non è caro signore", ma la corretta pronuncia francese sarebbe: "Se pà scier messié - C'est pas cher monsieur').

I pescatori mi guardavano rispettosi e tranquilli e io li salutavo con un normale bonsoir. Per la mia immaginazione erano come fachiri visionari, veggenti capaci di vedere attraverso me il mio villaggio dove anche la mia gente una volta pescava e vendeva pesci e tagliava le onde e si rompeva la schiena e le mani e si rovinava gli occhi col sale del mare.

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Pagina 50

- Ci racconti dei manoscritti, - mi disse il console - il progetto che obiettivi si pone?

- Catalogare i libri per periodi e per materie, sottoporli a restauro conservativo, esporli in biblioteche attrezzate per la conservazione, formare restauratori mauritani di libri e bibliotecari, fornire un pacchetto di suggerimenti e accorgimenti alle famiglie proprietarie affinché mettano in sicurezza il loro patrimonio, trasferire in CD tutti i testi e farli girare su internet, organizzare convegni e seminari, favorire tesi di laurea e scambi culturali, - dissi - insomma difendere i libri e le biblioteche, conservarli, valorizzarli, salvarli...

- Sono in pericolo? - domandò Lemine sarcastico.

- Il suo governo è squattrinato - risposi - ma tre soldi potrebbe spenderli. La cooperazione internazionale partorisce topolini. I fondi sono venuti fuori da dieci anni di campagna del mio capo e amico Pietro Marchetti e un po' anche da qualche mio articolo su giornali di larga diffusione. Ma sono soldi di privati. E presto finiranno. Mentre il tempo non finisce e continua a consumare i libri. È un tempo lento perché il clima secco non danneggia rapidamente, ma il Tempo ha il tempo dalla sua e...

- I libri si possono ancora leggere - tagliò corto l'arabo.

- I libri sono accatastati in baracche di pietra e legno - continuai io - lasciati per terra o su scaffali e scatole di cartone, danneggiati e consumati dalle muffe e rosicchiati dai topi. Senza dirle del commercio illegale che ne viene fatto, nonostante poche, eroiche, nobili famiglie li difendano e nonostante la vostra legge di tutela che obbliga chi li possiede a segnalarne e a conservarne l'esistenza, ma è un po' come la legge che abolisce la schiavitù...

- Non capisco, - disse lo spagnolo - i libri non sono patrimonio pubblico?

- No, sono proprietà privata, - risposi - sono manoscritti raccolti nei secoli da nobili mauritani che andavano in pellegrinaggio alla Mecca e visitavano Alessandria d'Egitto, Gerusalemme, Medina, Bagdad e in tutte queste grandi città offrivano loro l'opportunità di sviluppare affari e commercio, compravano e vendevano un po' tutto e ogni tanto, se le cose andavano bene, si regalavano un libro. Lo facciamo anche noi, ancora oggi. Ci compriamo un libro, una cravatta, un profumo per la nostra donna. Libri sempre meno, purtroppo. In parte minore, sono testi di autori mauritani, conservati dalle famiglie. C'è una legge che obbliga a non venderli. Bisogna notificarne l'esistenza. Tutto qui.

- Ma cosa hanno di bello? - mi chiese lo spagnolo.

Lo guardai un attimo prima di rispondere. Ero stupito. Si vedeva che voleva capire. E se uno così voleva capire, c'era veramente da sperare. Dovevo potergli dire qualcosa che lo conquistasse.

- Quei libri - dissi raschiandomi un po' la gola - sono... come i delfini quando saltano le onde dell'oceano per sorridere alla sua nave.

- Allora - disse lui - bisogna avere fede.

- E coraggio e passione e grande abilità - aggiunse il console sorridendomi - e i nostri amici mi pare che ne abbiano.

- Mancano i soldi - dissi.

- Quelli, mancano sempre - disse il console.

Poi cadde un silenzio improvviso e fastidioso. Si sentivano soltanto i nostri respiri pesanti e stanchi.

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Pagina 62

- La cultura di una nazione è importante come i suoi bambini disse Pietro.

- Non v'è dubbio - ammise il console.

- Ma perché non vi fate i fatti vostri? - fece Mustafà e questa volta senza sbadigli.

Pietro lo guardò imperturbabile e poi con un leggero sospiro di sopportazione rispose:

- Perché la cultura di una nazione è patrimonio di tutti gli uomini. I vostri sono libri scritti per lo più altrove, in una lingua internazionale, l'arabo, sono testi islamici, di una religione abbracciata in tutti gli angoli del mondo, testi musulmani scritti su carta e con inchiostro cristiani, occidentali intendo dire, e trattano di discipline esistenti in tutte le culture umane, medicina, diritto, astronomia, matematica, agricoltura, e nel contempo sono anche una testimonianza e una garanzia della vostra identità oltre che culturale anche nazionale, della vostra unicità, proprio perché scritti in arabo, perché la lingua e l'alfabeto rappresentano non solo ciò che si pensa, ma anche come lo si pensa. I turchi sono i più occidentali tra i musulmani, non perché hanno il pluripartitismo, ma perché Ataturk aveva abolito l'alfabeto arabo e l'aveva sostituito con quello latino.

- Marshall McLuhan: - disse il console - La galassia Gutenberg.

- Bravo! - fece con sorpresa Pietro - Mi compiaccio, console, lei fa buone e rare letture.

- La sua azione dovrebbe essere compiuta da noi - disse Lemine rivolto a Pietro.

- Ma non lo avete mai voluto fare: - ribatté Pietro - non vi servirebbero molti soldi per farlo, ma non lo fate, aspettate sempre aiuti internazionali e quando sono pronti, frapponete mille ostacoli per ottenerli. Io non compio un abuso, peraltro ho anche un accordo del suo governo, se no non sarei neppure entrato nel paese. Ma come sempre elargite un consenso con sufficienza e distrazione e senza riconoscenza, come se fosse un piacere che fate a noi e non a voi. Io ho impiegato dieci anni a raccogliere questi fondi. Ma voi avete questi libri da mille anni e gli europei sanno della loro esistenza da cinquecento anni.

- Io credo che ognuno dovrebbe rimanere a casa propria - disse Lemine.

- Ma casa nostra è il mondo intero e poi voi siete figli di una storia di espansione, i suoi antenati vengono da molto lontano, più lontano dei miei, vengono dalla penisola arabica - disse Pietro. - Se non vi fermava nonno Carlo a Poitiers... - dissi a Lemine - quella che lei chiama casa vostra sarebbe tra Mosca e Oslo e io sarei al posto di Mariam a farle il tè.

- E poi detto da un popolo nomade e ospitale come voi - fece il console - parlare di casa propria è poco sostenibile.

- Il problema è che voi quando andate in casa d'altri, ve ne impossessate.

- Beh, anche voi - dissi io - in quanto a razzie e a saccheggi non scherzavate e ancora oggi i vecchi negri non fanno mistero di preferire il nostro colonialismo alla vostra fratellanza.

- Alcuni vecchi, forse - disse Lemine - i ruffiani dei coloni, i traditori del loro popolo, non certo i giovani fratelli musulmani d'Africa.

- Con i quali lei, però, non manderebbe in sposa sua figlia - gli dissi.

- Neanche lei - ribatté Lemine.

Lo guardai un attimo negli occhi.

- Io sì, questa è la differenza.

- La differenza? Ma di cosa sta parlando? Lei è del Nord e io del Sud, questa è la sola differenza - disse Lemine.

- No, la differenza è che tu sei ricco e io sono povero e in più sei anche razzista.

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