Copertina
Autore Marco Romano
Titolo Liberi di costruire
EdizioneBollati Boringhieri, Torino, 2013, Temi 233 , pag. 172, ill., cop.fle., dim. 11,5x19,4x1,5 cm , Isbn 978-88-339-2385-7
LettoreGiorgia Pezzali, 2013
Classe architettura , urbanistica , citta'
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Indice


  7      Prologo

         Liberi di costruire

 15  1.  Il cittadino europeo e la sua casa

 25  2.  Limiti alla libertà di costruire

 43  3.  La democrazia della civitas e la bellezza dell' urbs

 65  4.  Che fare?

 82  5.  Liberarsi dalle commissioni edilizie

111  6.  Liberarsi dalle norme edilizie

119  7.  Una libera casa di vacanza

132  8.  Liberiamoci dallo Stato

168      Epilogo


 

 

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Pagina 7

Prologo


Tutte le persone di una società hanno a priori qualcosa in comune, quel terreno condiviso che mi fa dire di appartenere a quella società e non a un'altra, nel cui ambito assume il suo significato il mio stesso progetto di vita proprio perché posso confrontarlo con quello degli altri. Che senso avrebbe il possesso di un oggetto, un nostro comportamento o una nostra azione — come sottolineava Hume — se non sullo sfondo di un gruppo sociale nel quale tutti condividiamo una comune appartenenza e nel cui ambito diventa termine di un giudizio? Θ questo il fondamento sul quale gli uomini costruiscono il legame comune che, come lo stesso linguaggio, non può venire messo in discussione dai comportamenti individuali se non proprio rinunciando ad appartenergli: un legame che consente poi a ciascuno di riconoscere la propria identità individuale, l'ambito del confronto interpersonale nel quale acquistano senso i nostri desideri come misura della singola personalità, del proprio cammino verso la felicità o forse verso quella che noi chiamiamo felicità ed è soltanto il succedersi di desideri continuamente rinnovati cui affidiamo la speranza di tenere lontano il pensiero della morte.

Come già riconosceva Tommaso d'Aquino questo legame comune è in Europa l'appartenenza di ogni persona a una civitas la cui consistenza morale viene espressa dalla consistenza materiale dell' urbs, dove è da mille anni radicato il sentimento dei cittadini europei della propria identità il campo del loro confronto interpersonale e del riconoscimento della loro dignità: il campo dove sono state sperimentate la democrazia e la libertà, una democrazia e una libertà manifeste e rispecchiate proprio nella forma visibile dell' urbs, quello specifico habitat - che spesso ammiriamo nel suo manifestarsi passato - creato dai desideri dei cittadini europei come individui e come civitas, desideri ancora oggi come un tempo vivissimi.

Ma se la democrazia e la libertà sono state la caratteristica del nascere intorno al Mille della società cittadina, della civitas, è anche vero che il loro affermarsi è stato l'esito di tensioni di confronti di rivendicazioni ricorrenti, e dal momento che l' urbs è la manifestazione materiale della civitas - il corpo della sua anima - questi conflitti hanno avuto nel corso di questi mille anni per campo specifico proprio l' urbs, le procedure e le modalità della sua realizzazione.

La nostra civitas contemporanea è lo scenario più recente di questo endemico conflitto tra chi intende rispecchiare nelle trasformazioni dell' urbs un nuovo passo della democrazia e della libertà della civitas e chi questa libertà e questa democrazia intende invece contenere, nel solco di una vicenda secolare che questo libro intende mettere in luce per sottolineare come le contraddizioni attuali non siano altro che la sua manifestazione più recente.

A contrastare vivacemente la democrazia e la libertà della civitas nell' urbs è stata in questi ultimi cinquant'anni l'ideologia e la pratica della pianificazione, quella pianificazione moderna della città che era stata persino limpidamente annunciata come incompatibile con la democrazia e con la libertà dal suo stesso libro/manifesto, La Ville Radieuse, che Le Corbusier dedicherà appunto a l'AUTIRITΙ e deliberatamente non ai suoi citoyen.

La razionalità della pianificazione comporta di aver chiari gli obiettivi da conseguire, perché consiste proprio nella procedura per realizzarli, ma perché sia possibile pianificare occorre che questi obiettivi vengano sottratti alla dialettica della democrazia - e alle bizzarrie dei tempi -, prefissati a priori e considerati non modificabili, messi in chiaro una volta per tutte proprio come i diritti umani: e in effetti il principio legittimante della pianificazione è che esista in ogni uomo un indiscutibile grado zero del diritto alla città.

Questo grado zero del diritto alla città - evocato dagli illuministi settecenteschi e soprattutto da Louis Sébastien Mercier - era stato codificato nel corso degli anni trenta del Novecento affermando il principio che il modo migliore di vivere fosse in quartieri residenziali possibilmente autonomi, con i loro giardini e i loro servizi, lontani dai siti del lavoro e da quei luoghi ricreativi e rappresentativi appropriati alla città intera, tutti collegati da un'efficiente e moderna rete di viabilità e di trasporto proprio come la circolazione del sangue tiene insieme i vari organi del corpo umano.

Ridurre i desideri degli uomini a diritti codificati nella dottrina della pianificazione moderna e imposti da governi illuminati e pedagogici a cittadini riottosi e ignari del loro stesso bene comporta di cancellare proprio quello che li rende uomini: la diversità dei loro individuali progetti di vita; e se il governo di una collettività ha a che vedere proprio con il rendere a tutti possibile il perseguirli - come sosterranno Bruno Leoni o John Rawls - allora la pianificazione, con il suo sostituire il dover essere all'essere, è proprio il suo contrario, e va riducendosi all'angustia di una recriminazione continua di come i processi reali non corrispondano ai suoi principi.

Un programma che avrà il suo pieno successo nei regimi totalitari del secolo breve ma che ha percorso nei suoi primi decenni tutta l'Europa: e se nel 1989 tutti hanno convenuto che la clamorosa caduta del muro di Berlino dovesse comportare la fine delle ideologie, come al solito l'accordo unanime su una dichiarazione così retorica e drastica nascondeva una confusione per l'appunto di idee: perché con il muro erano sì caduti uno dopo l'altro gli Stati comunisti dell'Europa orientale, ma non il loro fondamento ideologico, che in una società ordinata - quella dei comunisti - sarebbe stato indispensabile pianificare le città secondo quelle regole. E se i comunisti hanno per decenni sanzionato, attraverso l'egemonia delle case editrici, che cosa debba intendersi per cultura progressista, è mancata in Italia una vasta e diffusa opinione che abbia sottolineato come, in questo vasto arcipelago culturale protetto dall'ala dei comunisti, si annidassero invece, considerati dal punto di vista della aspirazione alla libertà che ha contrassegnato questo millennio, degli autentici reazionari.

Questo esile libro ha l'ambizione, per quanto sarà possibile in una società inquinata da una pretesa ormai così consolidata, di cancellare una pianificazione i cui principi e i cui esiti sono prefigurati dall'alto da un comitato di sedicenti esperti, suggerendo invece di riconoscere ancora una volta la radice della nostra identità di europei nella civitas dei cittadini, un progetto di riconoscimento che abbia al suo centro il sostegno al consolidarsi del sentimento di ogni singolo cittadino - d'un sujet, direbbe forse Alain Touraine - della propria identità individuale e della propria appartenenza, del far parte di una civitas che ha saputo per secoli riconoscerne la piena dignità nelle pietre dell' urbs.

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Ma tutte codeste norme, così propagandate dagli igienisti dell'Ottocento, non hanno più, oggi, neppure la loro originaria legittimazione, ché della effettiva bontà dei loro effetti non esistono prove certe ma solo congetture, mentre sono diventate di fatto un clamoroso ostacolo alla realizzazione dei nostri individuali desideri, quei nostri progetti di vita il cui perseguimento, nella loro diversità, legittima per l'appunto le leggi promosse nella sfera politica.

E se dobbiamo oggi levare una bandiera in difesa della libertà del cittadino nella propria casa, alla nostra generazione toccherebbe abolire subito tutte le norme che concernono il suo interno, dove ciascuno dovrebbe essere libero di ridurre l'altezza dei locali ai quei 2,26 metri che Le Corbusier considerava il modulo perfetto — o beninteso a qualsiasi misura ciascuno creda migliore —, di scegliere la dimensione delle stanze, dei corridoi, dei bagni e di quant'altro giudichi confacente alla sua personalità, di decidere se e come illuminarli o aerearli, e chissà che una casa senza finestre non faccia riparo alle crescenti polveri inquinanti sparse nell'aria cittadina. E se proprio vogliamo proteggere da un pericolo forse ignoto o sottovalutato possiamo ricordare con un dépliant, a titolo soltanto informativo, che in un corridoio troppo stretto le carrozzelle degli invalidi e le casse da morto non riescono a passare, ma a segnalare gli eventuali inconvenienti e a rimediare capricci pericolosi o trasgressioni incompatibili con il buon vicinato dovrebbero essere gli architetti cui verrà pur sempre affidata la realizzazione sul campo di questi desideri, ché fin dal Cinquecento un salace architetto sconsigliava di affidarsi ai capomastri, capaci di dimenticare persino la scala.

La vera difficoltà che incontra questa proposta non è tanto quella concettuale, perché tutti dovrebbero convenire su quanto sia connaturata a una società libera la libertà di conformare la propria casa secondo i propri desideri e non secondo le arbitrarie prescrizioni di quegli esperti che i principi totalitari infiltrati tra noi hanno legittimato, quanto dal semplice fatto che a controllare il rispetto di codeste norme sono largamente impegnati gli uffici tecnici dei Comuni, che spesso non saprebbero a cos'altro venire destinati. Ma se il governo di questo paese vorrà seriamente impegnarsi nella spending review ecco un campo dove il taglio non soltanto sarebbe indolore ma verrebbe salutato con vero entusiasmo da quanti sono quotidianamente impegnati — gli architetti e i loro clienti — ad aggirare queste assurde disposizioni spesso con umilianti sotterfugi: gli attentati alla nostra libertà evocano in ogni campo un popolo di abusivi, e le quotidiane e innocue trasgressioni alle norme più stravaganti consolidano la convinzione che tutte le norme siano di fatto trasgredibili.

Occorre infine sottolineare che l' urbs è un palcoscenico delle apparenze, là dove i suoi abitanti vogliono mostrarsi, e che quindi se il principio di mantenere il centro storico nel suo aspetto antiquario comporta la conservazione e il ripristino delle sue facciate, all'interno delle case vale il principio della libertà che sosteniamo per tutte le case della città. Questa libertà non è un principio negoziabile, nessuno può interferire su come venga ristrutturato o utilizzato l'interno delle case anche nel centro storico, salvo beninteso quando la sua consistenza monumentale, in un salone affrescato o in uno scalone memorabile, non costituisca a sua volta un fattore sostanziale del riconoscimento di un palazzo come tema collettivo della città.

Il sentimento nostalgico che percorre la civitas fin dai tempi di Herder comporta il sogno di mantenere nei centri storici le attività tradizionali, piccoli artigiani e vispi negozianti intenti a fabbricare o a vendere i prodotti del posto, con frotte di bambini intenti a giocare come un tempo nelle strade liberate da ogni veicolo — meglio se educati all'antico dialetto — e questo programma di proteggere i «giacimenti culturali» sarebbe perseguibile mantenendo il più possibile inalterato l'interno delle case, come se con questo espediente conservativo fosse possibile convincere gli abitanti a rivivere nel passato per il piacere di qualche turista.

La nostalgia temporis acti assume in questo caso una connotazione reazionaria, perché adottare il punto di vista che la conservazione del modo di abitare in un centro storico costituisca un motivo essenziale della sua salvaguardia costringerebbe i cittadini che lì hanno il possesso della casa a rimanere prigionieri per sempre del loro status, a far da comparse nel teatrino della nostalgia, dove i viaggiatori curiosi ritroverebbero immobile il tempo che fu.

Per perseguire questa immagine occorrerebbe costringere gli abitanti a rinunciare alla libera disponibilità dell'interno delle loro case, ed è come sempre questa la tentazione dei pianificatori, per i quali gli uomini sono soltanto oggetti: forse invece noi vogliamo aiutare i cittadini a realizzare i loro progetti di vita avendo ben chiaro che la civitas è legittimata a porre limiti soltanto quando viene intaccata la sua sfera simbolica, e la sua sfera simbolica non è un campo aperto alle coercizioni dei pianificatori ma può essere soltanto quella sedimentata nei secoli dalla sua democrazia e dalla sua libertà.

E invece il significato delle città cambia con noi, e l'illustre geografo Adalberto Vallega sottolineava, come Saskia Sassen qualche tempo dopo, il loro progressivo specializzarsi, il diventare nella società contemporanea una presenza nuova e diversa, Roma o Venezia o Parigi l'orizzonte del desiderio dei visitatori di tutto il mondo come erano un tempo Santiago di Compostella o la Assisi di san Francesco, ma anche tra Cinquecento e Settecento le celebri fiere di Lione e di Piacenza o quella di Senigallia, che portava nella cittadina marchigiana, nel mese d'agosto, settantamila visitatori: tutte città dove questo ruolo sovranazionale ha fin da allora modificato l'aspetto materiale dell' urbs e lo stile di vita della civitas.

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Con la «scoperta del mare» e la «scoperta della montagna» nel corso dell'Ottocento per molti altri cittadini, da quando sono stati ritrovati i villaggi di montagna e sono nate le stazioni balneari, l'antico desiderio della campagna chiede soltanto la connotazione di un'opposizione semantica all' urbs, al significato del viverci. Perché una delle attrattive della vacanza, al mare o in montagna, può consistere proprio nel vivere per qualche tempo in una città desemantizzata, dove le stesse cose hanno un significato diverso, dove un bar lungo la passeggiata, con la medesima caipirina di città, posso frequentarlo con le infradito e i bermuda oppure con un maglione e una giacca tirolese invece che con un rigoroso completo grigio e una cravatta a pois: e fino a qualche decennio fa persino le compunte consuetudini della discrezione sessuale ammettevano spesso in vacanza qualche meno nascosta trasgressione.

Qui il disegno d'insieme è quello consueto di un piano regolatore con le medesime passeggiate e i medesimi boulevard alberati di tutte le città, quegli splendidi lungomare di Rimini o di Cervia con la rotonda del loro kursaal, vuoi con un prevalente layout di ville vuoi con uno schieramento di edifici a più piani. Ma, mentre l' urbs è il terreno della massima libertà espressiva, in questi casi è del tutto legittimo e quasi doveroso che il Comune voglia codificare l'obbligo di mantenere le caratteristiche architettoniche che hanno connotato questo desiderio di una casa di vacanza, i colori e i materiali caldi dei mas all'interno della Costa azzurra, le case di due piani con i camini sulle testate in Bretagna, le casette bianche di Lanzarote alle Canarie, le case nuove e persino gli alberghi costruiti come i trulli nelle Murgie, le facciate dipinte di qualche paese ligure ma anche case nuove che imitano quelle rurali, a loro volta ristrutturate e reintonacate come nuove: un accorgimento del resto diffuso in Alto Adige e in Baviera, dove la richiesta di facciate rivestite in legno e di tetti spioventi - qui persino a ingentilire, nei paesi maggiori, condomini di tre o quattro piani - non sembra aver incontrato qualche opposizione, sembra anzi che questo vincolo faccia parte integrante della notorietà e del glamour locale, cui del resto gli stessi cittadini ricorrono volentieri nelle loro case.

E se molti desiderano una casa affacciata su un canale come a Chioggia o in un antico paese della Toscana o del Salento - che solo pochi potranno ancora trovare - possiamo spingerci oltre, possiamo crearne una soddisfacente imitazione come a Port Grimaud, sulla costa provenzale, e invece di stracciarci le vesti per una schiera di nuove case a Monticchiello faremmo meglio a progettare un vero paese d'apparenza medievale sul culmine di un'altra collina del senese, un paese con le sue mura la sua piazza e la sua chiesa come Monteriggioni, che soltanto il caso ha voluto che a suo tempo nessuno abbia costruito e dipinto sullo sfondo di Guidoriccio da Fogliano.

Θ vero che la tradizione moderna pretende che l'architettura abbia il dovere morale di rispecchiare nei suoi progetti il linguaggio estetico appropriato ai tempi nuovi, quello di Gropius e di Le Corbusier, e non di replicare gli stili del passato, ma questa pretesa è anch'essa riconducibile ai principi di una pianificazione che pretende di formare un uomo nuovo piuttosto che di soddisfare i desideri degli uomini in carne e ossa: e se qualcuno tra costoro crederà di essere felice in un paese costruito con un aspetto antiquario è legittimo che trovi un architetto capace di disegnarlo - speriamo con un disegno più sapiente di quello corrente degli outlet, un disegno che del resto va già in qualche caso comparendo - ed è anche legittimo che codesto architetto non debba avvertire alcun senso di colpa per questa sua rara capacità.

Se questo nuovo paese non lo abbiamo suggerito - e il successo degli outlet in stile quasi antico dimostra quanto sarebbe stato gradito - non si vede come possiamo stracciarci le vesti perché qualcuno vuol costruire una fila di quattro case nel territorio senese, perché non possa compiere su quei colli la stessa modificazione che a suo tempo hanno compiuto le ville medicee, dopotutto parecchio più vistose, anch'esse manifestazione del medesimo desiderio.

Consapevoli che il desiderio di una casa fuori città è connaturato da mille anni all'essere cittadino di una città europea, quasi un contrappunto al possesso della casa che costituisce la sua cittadinanza, non dobbiamo porci nell'ottica di limitarlo ma al contrario incoraggiarlo. E se il governo parigino ha lanciato negli anni sessanta del Novecento il programma di mettere a disposizione dei francesi un milione di posti letto nel Languedoc-Roussillon, la cui manifestazione più vistosa sarà la Grande Motte sul litorale di Montpellier, un'autentica città balneare con una varietà di tipi edilizi moderni intorno a un porticciolo turistico, una variante all'opulenza ottocentesca di Nizza, a quella novecentesca di Cannes e a quella esclusiva di Saint-Tropez, noi oggi potremmo progettare con un coraggio analogo interventi accentuatamente innovativi per quella metà degli italiani che non hanno ancora la loro casa al mare o in montagna e la desiderano proprio come tutti quelli che già la possiedono e come pure per quegli europei che verrebbero volentieri in Italia, quelle vere e proprie colonie di tedeschi e di inglesi che hanno comprato la loro casa di vacanza nelle Langhe o nel Chianti: perché il turismo tanto evocato per migliorare i nostri conti economici è precisamente questo.

Città desemantizzate sono anche quelle dove sono andati a vivere molti pensionati, così simili alle loro città originarie, ritrovando tutti insieme quel medesimo humus di relazioni personali e di contesto ambientale che era stato quello della vita di lavoro: non posso condividere lo sdegno per Rapallo o per Pietra Ligure, dove hanno trovato la loro tarda felicità quei lavoratori, quegli operai che negli anni cinquanta e sessanta del Novecento hanno alimentato il miracolo italiano, e l'hanno trovata proprio in quei condomini forse solo sognati nei loro anni di lavoro, condomini con un ombrellone sul mare ma anche con il conforto di relazioni personali così simili a quelle di Torino, e quasi i medesimi caffè e forse le medesime partite al medesimo tressette, e per quanto possiamo lasceremo a tutti, a Sanremo o ad Alassio, la chance di vivere questo loro sogno.

Infine, per molti una casa in campagna sta ritornando a essere quella stessa di mille anni fa, una casa con un campo da coltivare davvero, nel serpeggiante timore di un inquinamento planetario dei cibi cui forse potremmo sfuggire protetti da una domestica serra e da sementi di provata castità, sollecitati dal cauto millenarismo di Carlo Petrini, che in altro modo e con molta sottigliezza sembra ricordare Bernardo di Chiaravalle, quando suggeriva ai cittadini di abbandonare le città, sentine di degrado morale, per ritirarsi nei suoi monasteri ad attendere quietamente la morte e guadagnare così il paradiso.

Se per ora sono ancora disponibili vecchi e abbandonati fabbricati rurali, cresce il desiderio di quanti hanno trovato un terreno giudicato adatto dagli assaggiatori chimici per un vigneto pregiato là sulle colline del barbaresco o del brunello di costruire una casa accanto a quelle raffigurate sullo sfondo delle formelle nella predella di Paolo Uccello: e qui, data la priorità assegnata da mille anni in Europa alla razionalità strumentale e dunque al lavoro che ne costituisce l'espressione, purché il cittadino diventi ufficialmente agricoltore nessuno potrà sollevare alcuna obiezione.

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Ma ecco, se i monumenti classificati dagli organismi ministeriali come oggetti da museo dovessero tornare nelle mani di quella civitas che li ha in origine voluti, chi ci garantirà che ne verranno mantenute le caratteristiche cui dobbiamo il loro riconoscimento di patrimonio nazionale garantito dagli esperti? Nello spirito della loro occhiuta vigilanza la museificazione dei temi collettivi comporta di avocare allo Stato la competenza sulle loro trasformazioni e sul loro restauro, che forse non hanno davvero alcun solido argomento per rivendicare.

La gestione degli edifici monumentali ha visto interventi dominati dai principi generali maturati dagli esperti dello Stato — affidati dapprima alla sorveglianza di un comitato ministeriale e in seguito gestiti direttamente sul campo dalle sue soprintendenze — che hanno per molto tempo restaurato con convinzione e con parecchia invenzione gli edifici romanici, considerati più rappresentativi di un possibile stile nazionale, una convinzione che ha suggerito in seguito di cancellare quelle modifiche e quelle sovrapposizioni volute e amate nei secoli successivi, lo splendore delle decorazioni barocche, come se non fossero l'esito di una deliberata volontà estetica della civitas con la medesima legittimità di quella originaria. Così questi esperti hanno riportato molte chiese al loro aspetto più antico — ripulita la splendida basilica di Collemaggio del suo soffitto a cassettoni per ripristinare una struttura romanica sostanzialmente irrilevante — e oggi, nella consapevolezza dei misfatti compiuti, ricorrono al principio simmetrico di mantenere intatta qualsiasi trasformazione in quanto «testimonianza storica», una tautologia che nasconde l'incertezza nel distinguere quanto è l'esito di una riconoscibile intenzione estetica da quanto costituisce un semplice adattamento costruttivo o funzionale, difendendo ostinatamente una trave del sottotetto e forse uno stretto cesso in un'intercapedine, seppure con costi e artifici complessi, come se avessero il medesimo rilievo di un tabernacolo voluto dal vescovo un secolo fa: sono principi che giovani funzionari delle soprintendenze pretendono di imporre contro l'evidenza e soprattutto con l'arroganza connessa al loro ruolo nell'amministrazione dello Stato piuttosto che alla loro sensibilità e alla loro cultura.

Quei restauri incauti e soprattutto imposti dallo Stato hanno sottratto alla civitas la fierezza di essere la sola autentica depositaria della propria storia e della propria memoria, che vorremmo le fosse restituita appieno, e in un paese come l'Italia dove ogni Regione ha una facoltà di architettura, ogni città potrà affidare se vuole un edificio monumentale ai loro docenti di restauro, qualificati da concorsi universitari e dunque - dobbiamo supporre - non meno competenti dei funzionari statali, che da quelle stesse facoltà sono stati soltanto laureati.

I monumenti del passato non sono un campo delle competenze dello Stato e dei suoi esperti, sono il campo dove ha continuato a esprimersi per secoli la volontà delle città, ricorrendo alle procedure vivacemente conflittuali della propria democrazia - le rilegga chi vuole nella vita di Brunelleschi scritta da Giorgio Vasari o nella controversia tra ars e scientia ai piedi del cantiere del duomo di Milano o nella lunga questione su dove costruire la nuova cattedrale di Salamanca -, e anche oggi la vasta conoscenza scientifica e tecnica che accomuna quei docenti universitari laureati dai concorsi comporta tuttavia punti di vista spesso divergenti - dalla ricostruzione di un edificio monumentale dopo un terremoto esattamente com'era, con i materiali recuperati e con mattoni nuovi ridotti al medesimo aspetto di quelli antichi, alla sua libera reinvenzione ricorrendo agli stilemi moderni - legittimando così il desiderio di riconsegnare alla civitas il pieno riconoscimento della libertà di decidere come finalmente riappropriarsene e come riconquistarne il significato nelle forme giudicate più consone dalla maggioranza dei suoi cittadini.

Sarà come un tempo ogni civitas ad avere la competenza su come comportarsi, e sarà la loro stessa democrazia e non lo Stato a decidere del proprio destino, sarà ogni civitas a decidere quali dei suoi monumenti debbano venire restaurati per primi sotto la spinta dei propri desideri adottando l'orientamento stilistico più gradito e confacente, saranno le risorse bancarie locali, dove confluiscono i risparmi dei cittadini, e gli stessi cittadini agevolati da qualche seria e accessibile esenzione fiscale a destinare i fondi necessari a ogni restauro o a ogni modifica. E ricorreranno poi ai loro esperti senza alcuna interferenza di quello Stato che non incorpora conoscenze e metodi insindacabili ma è soltanto l'organizzazione di quella stessa volontà totalitaria rispecchiata dalle procedure della pianificazione, uno Stato concepito come una gerarchia verticale e non come l'insieme di civitas democratiche, uno Stato centralizzato che raccoglie i proventi delle imposte e decide con le sue procedure burocratiche e spesso clientelari dove e quando erogarli: come un tempo a Firenze, sarà invece considerata normale una consultazione popolare per scegliere i capitelli di Santa Maria del Fiore senza che nessuna istituzione dello Stato e tanto meno un esperto consacrato dai media venga come ora a intralciarla.

La convinzione che le procedure certificate dagli esperti dello Stato siano per la loro natura intrinsecamente più corrette è tuttavia così consolidata da autorizzare quelle élite che hanno contribuito a codificarne i principi a condividere la convinzione che per rispettarle le città debbano venire messe in riga dallo Stato, considerando quanto viene deciso dalle comunità locali sempre a rischio di clamorosi errori. Sono élite partecipi nel contesto della loro città del consueto conflitto tra i diversi punti di vista, ma incapaci di riconoscere che una civitas abbia mantenuto anche oggi quella medesima capacità di modellare un' urbs corrispondente alla sua anima - anima grazie a Dio fertile e contraddittoria - che le generazioni successive forse non condivideranno ma non necessariamente per adeguarsi ai diktat nazionali: se i punti di vista delle élite non reggono in qualche caso al confronto con le ambizioni delle città, liberamente discusse e confrontate nelle eventuali alternative, significa anche, forse, che le argomentazioni su cui sono stati fondati non sono convincenti nel contesto della loro democrazia.

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I documenti delle commissioni europee rivendicano un paesaggio sostanzialmente rurale da trattare con cautela per il suo essere una testimonianza storica, ma le memorie collettive — quelle di Halwbachs — non sono poi per tutti le medesime e soprattutto il loro significato non è per niente condiviso. Forse a chi discende dai possidenti di un tempo quelle campagne e quei campi ricordano un'antica prosperità, i capponi tributati riverenti a Natale, ma forse a un'ampia fascia degli italiani ricorda piuttosto lo sfruttamento dei contadini, la loro riduzione alla semi servitù nei dipinti del Pitocchetto, la miseria descritta centotrent'anni fa dall'inchiesta Romilli, quella vissuta da Carlo Levi ad Aliano settant'anni fa, quella raccontata da Bernardo Bertolucci in Novecento e da Ermanno Olmi ne L'albero degli zoccoli, quella stessa serpeggiante nelle case dei mezzadri di mio nonno: e i terrazzamenti, così faticosamente ricavati sulle pendici di colli impraticabili per coltivarli con paziente fatica, saranno forse singolari da vedere, ma nel solco di quei musei etnografici che serbano le tracce della miseria dei contadini e della precarietà dei loro attrezzi.

E del resto quanti vogliono salvare un vecchio capannone industriale di nessun interesse architettonico per conservare la memoria degli altiforni di un tempo sembrano avere dimenticato che quella memoria è proprio quella che gli operai ancora vivi e i loro figli faranno di tutto per dimenticare.

Di fatto il paesaggio che riterremmo di dover difendere è quello nel quale sono radicate le memorie dei ceti abbienti, non certo quello che quei contadini vogliono soprattutto dimenticare, trasformando le loro case - che dal nostro punto di vista sono le case dei cittadini di una civitas, perché anche i contadini sono cittadini di un Comune - in vere e proprie ville o costruendone di nuove, spesso accanto alle seconde case dei cittadini di qualche città più grande, figlie magari di un ceto operaio che di quei contadini era confratello. Solo per i ceti abbienti il paesaggio costituisce il tassello di una speranza in un destino di immortalità materializzata, come in una tomba egiziana, nel persistere per sempre di quanto ci ha accompagnato nella nostra vita, evocata negli affreschi parietali che raffigurano le sponde di quel Nilo dove siamo vissuti, con le sue pratiche di caccia e di pesca.

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Ecco il nocciolo della questione: il paesaggio non è - se non di rado e in misura limitata - la testimonianza storica di una particolare tecnica agraria o il supporto della nostra memoria individuale, è la manifestazione dell' ethos di un popolo, lo stesso ethos della civitas che costituisce il nostro specifico habitat di europei, inteso nel senso della continua trasformazione cui è soggetta ogni forma di associazione umana in continua evoluzione. Così, quando pretendiamo di darne un giudizio sul versante estetico in realtà pretendiamo di giudicare questo modello morale, pretendiamo di giudicare l' ethos di questi ultimi cinquant'anni, che i fautori di una pianificazione - per fortuna rimasta confinata in altri regimi politici - avrebbero voluto sottoporre alle loro sterili limitazioni.

Chi ha il diritto di giudicare un paesaggio se non il popolo stesso nel momento medesimo nel quale lo ha modificato, a partire dagli anni cinquanta del Novecento intento a costruire a un mondo molto diverso da quello dell'anteguerra e a rappresentarlo orgogliosamente in un paesaggio nuovo che cancellerà le tracce delle sofferenze di un tempo, quei precari campi arati poveramente e quelle case rurali abitate alla meno peggio? Chi ha diritto di affermare categoricamente che le linde casette sui colli della Brianza, quelle case che rappresentano visivamente la straordinaria liberazione di un popolo dalla sua povertà, anche queste frutto dell' ethos dell'ultimo mezzo secolo e di piani regolatori voluti dalla loro civitas, ne insidino la bellezza? Queste case non sono la traccia di antiche spoliazioni, sono il frutto del lavoro accanito e perseverante di un'intera generazione di cittadini, e segnano il loro orgoglioso ingresso a pieno titolo, gli uomini e le donne, nel vivo della nostra democrazia.

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