Copertina
Autore Silvia Ronchey
Titolo Lo Stato bizantino
EdizioneEinaudi, Torino, 2002, Piccola Biblioteca Einaudi , pag. 264, dim. 115x195x16 mm , Isbn 978-88-06-16255-9
LettorePiergiorgio Siena, 2003
Classe storia medievale , storia: Europa , geografia , storia economica
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Indice

VII Presentazione di Peter Schreiner
IX  Note dell'Autrice

    Lo Stato bizantino


    Parte prima. Le strutture

I.  Il tempo. Cronologia del millennio bizantino
II  Lo spazio. L'impero euroasiatico
III.Strutture economiche. Cenni

    Parte seconda. L'evoluzione

I.  Cronistoria politico-ideologica
    dello Stato bizantino:
    da Costantino agli iconoclasti
II. Cronistoria politico-ideologica
    dello Stato bizantino:
    da Fozio ai Paleologhi

    Parte terza. L'oltrevita. Profilo di storia
    della storiografia su Bisanzio da Tillemont
    alle Annales

I.  Dall'assolutismo francese alla monarchia
    prussiana
II. Dal positivismo alla scuola economico-sociale

    Bibliografia
179 Avvertenza
181 Manuali, opere introduttive e strumenti
188 Abbreviazioni bibliografiche
198 Bibliografia ragionata
251 Indice dei nomi

 

 

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Pagina 58

I.3.3. Nel diritto divino di proprietà della terra e nella capillare fiscalizzazione delle province lo Stato esercitava dunque il suo controllo sulla produzione agricola e sul plusvalore che ne derivava. Ma il controllo statale si estendeva anche alla produzione e al profitto artigianali. Costantinopoli, come la descrivono i viaggiatori di tutto il medioevo, era una città almeno esteriormente industrializzata (a quest'epoca si parla di artigianato industrializzato). Le principali attività produttive costantinopolitane erano tuttavia monopolio statale: anche questa era una caratteristica del modo di produzione bizantino. Erano monopolio di Stato l'industria della seta e forse anche altri settori dell'industria tessile, che comprendeva la manifattura del cotone e del lino (invece la lana, di cui si vestivano i poveri, era tessuta e tagliata in famiglia). Lo era la metallurgia, sia per l'industria orafa di cui Bisanzio andava famosa in tutto il mondo medievale (si pensi al tesoro di San Marco), sia per il conio della moneta e sia per gli armamenti, la cui produzione era monopolio di Stato per necessità amministrativa prima ancora che economica. L'industria bellica di Stato produceva anche un'arma chimica: il fuoco greco, il cui brevetto di fabbricazione era segreto militare custodito nei laboratori del Grande Palazzo.

Lo Stato inoltre determinava il profitto di chi otteneva licenza di gestire i commerci dei beni di consumo e di lusso a controllo statale. I margini di guadagno erano fissati in percentuali oscillanti tra il 4 per cento (il profitto del fornaio, che era dispensato da ogni servizio pubblico) e il 16 per cento (il profitto dello speziale, mentre la seta, l'oro e l'argento rendevano intorno all'8 per cento), con pene gravissime per chi evadeva tali norme e uno stretto autocontrollo da parte delle corporazioni stesse, specie a Costantinopoli. Questo era, ovviamente, un modo di calmierare il mercato. (L'invenzione del calmiere sta alle radici dell'impero bizantino: risale a Diocleziano. Esigendo un forte controllo di polizia per essere mantenuto, il calmiere è un mezzo di controllo economico tipico dei regimi dispotici: fu impiegato ad esempio in Francia sotto Luigi XIV, in Italia sotto il fascismo).

Ma il principio della limitazione del profitto si applicava anche agli stipendi di ciascun cittadino impiegato nell'ampia gamma di attività sulle quali lo Stato bizantino esercitava il suo controllo. Ad esempio, secondo il Nomos Rhodios, il codice marittimo della flotta mercantile bizantina, il capitano e gli ufficiali di una nave da carico percepivano uno stipendio che per gli uni era pari solo a una volta e mezzo quello di un marinaio semplice e per l'altro solo a due volte: pur rispondendo essi della nave e del costoso carico, e ciò in condizioni di estremo rischio date le turbolenze del Mediterraneo e l'esigua stazza delle navi stesse, oltreché la pirateria, il brulicare sulle coste di predatori di relitti e nei porti di ladri d'ancore. In ciò risiedeva l'inferiorità congenita della marina di Bisanzio rispetto a quella delle repubbliche italiane: a Venezia la combinazione fra impresa di Stato e iniziativa privata faceva si che ogni ufficiale imbarcato guadagnasse e valesse migliala di ducati, come dimostrano i riscatti pagati dalla Serenissima ai sultani turchi.

Nel caso del commercio marittimo, l'egualitarismo di principio generava evidentemente lassismo o sfruttamento o corruzione o le tre cose insieme, che tuttavia non danneggiavano, ma al contrario tendevano a incrementare i benefici dell'oligarchia dei funzionari. Ad esempio il capitano sarà portato a cercare una compensazione riducendo lavoro e rischi, o caricandone i suoi sottoposti, oppure incamerando e magari dividendo con i funzionari portuali addetti al controllo compensi illegali in denaro o parte del carico.

Per riassumere, le limitazioni del governo centrale bizantino sul profitto provocarono almeno a partire dal XII secolo una cronica inefficienza dell'apparato produttivo, che tuttavia per un verso era temperata dall'impulso che lo Stato stesso dava alla produzione dei generi di lusso e di monopolio, e per altro verso non intaccava se non indirettamente il bilancio dello Stato. Questo era infatti forte della rendita fiscale, che derivava dal diritto divino di proprietà della terra, e di una ricchezza in oro e in materie prime derivante dai bottini di guerra e dalle rendite di posizione proprie di ogni Stato conquistatore; cioè derivante, in ultima analisi, dal diritto divino al dominio sull'ecumène, che ne sorreggeva la politica di potenza. Inoltre, il commercio monopolizzato garantiva che tali entrate andassero direttamente nelle casse dello Stato.

Si può dire quindi che l'economia bizantina si basasse sul mantenimento dell'immobilismo politico da un lato e delle riserve auree e argentee dall'altro. Ovviamente le due cose si sostenevano a vicenda, poiché l'immobilismo politico consentiva di prosperare alla classe burocratica, che a sua volta garantiva il gettito fiscale, che rimpinguava le riserve di metalli preziosi. A mantenere lo status quo provvedeva la politica di potenza, che incrementava l'industria bellica, monopolio di Stato, mentre lo scoraggiamento dell'impresa privata, sia artigianale sia commerciale, e il suo mancato profitto deprimevano i consumi. (Se volessimo cercare un raffronto nel mondo capitalistico, un parallelo potrebbe tracciarsi con l'Urss del periodo brezneviano, durante il quale, pur essendo inefficiente l'apparato produttivo, lo Stato è forte della grande rendita petrolifera e delle miniere d'oro e può imporre le sue condizioni a tutto il blocco comunista).

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Pagina 111

II.2.3. L'aristocrazia civile della capitale era senza dubbio il ceto più colto del regno» (Ostrogorsky). Il periodo macedone - come quello comneno - fu un'età aurea per gli studi, ma la fioritura culturale di Costantinopoli nel XI secolo coincise con il decadere della potenza militare ed economica dell'impero e la sua grave crisi finanziaria, secondo la tendenza di cui si diceva nella prima parte. Questa coincidenza di progresso culturale e declino dello Stato, che riguarda tutta la storia bizantina ma in particolare l'XI secolo, fa sì che vi sia su questo e anche su altri periodi un contrasto di opinioni piuttosto sconcertante tra gli storici di scuola storico-politica e quelli di scuola storico-culturale, che si basano in genere su un concetto di «rinascenza» o pre-rinascenza che peraltro è di derivazione storiografica occidentale.

Su questo contrasto non si è riflettuto molto, anche perché il più delle volte i due àmbiti non vengono a contatto; ma eccezionalmente sull'XI secolo vi è stata aperta polemica fra Ostrogorsky e J. M. Hussey. La Hussey, storica delle idee, ha contestato la valutazione negativa di Ostrogorsky, mettendo al centro i progressi nel campo della vita culturale e religiosa in quest'epoca - la cosiddetta rinascenza macedone. Ostrogorsky, storico delle istituzioni, le ha risposto ribadendo la necessità di distinguere tra vita culturale e vita dello Stato.

Ma affermare che cultura e politica sono distinte a Bisanzio è troppo poco: appaiono a volte contrapposte, o addirittura inversamente proporzionali, inconciliabili. Che ciò dipenda proprio dal carattere prevalentemente umanistico e conservativamente giuridico della cultura stessa è probabile, ma la questione non è poi cosi semplice e meriterebbe una discussione a sé. Alla posizione di Ostrogorsky andrebbero contrapposte ad esempio le conclusioni tratte da Lemerle negli ultimi due capitoli del suo volume sull'XI secolo bizantino. Qui infatti le istituzioni culturali e l'organizzazione interna dello Stato nel periodo in oggetto sono state messe in relazione stretta, grazie alla straordinaria competenza e padronanza metodologica di entrambi i campi d'indagine storico-istituzionale e storico-culturale che Lemerle per primo ha avuto nel campo della bizantinistica, e che ha in parte trasmesso alla scuola del College de France. E va detto che, nonostante varie e importanti riserve, l'indagine incrociata di Lemerle ha portato a una rivalutazione globale dell'XI secolo.

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Pagina 132

Lo sconforto degli intellettuali bizantini del XIV e XV secolo fu perciò alla base del culto «umanistico» del passato, che si trasmise alla Rinascenza europea. Dal "Fiorenzo" di Niceforo Gregora al "Dialogo dei ricchi e dei poveri" di Alessio Macrembolita, dalle "Epistole" di Giovanni Cortasmeno a quelle, tessute di disincanto e sfolgoranti di classicismo, che scrisse il grande basileus letterato Manuele II, l'intelligencija di ciò che Djuric' ha chiamato il crepuscolo di Bisanzio visse la cultura come identità e strumento di lotta, criterio di reclutamento e di riconoscimento, corazza contro la barbarie dilagante. Va tenuta presente questa eredità genetica del nostro Rinascimento: questa sua origine da una cultura decadente in senso proprio, appartenente a un mondo che sta per tramontare senza che la politica sia in grado di rinnovarlo. La corrente arcaizzante che predicò fra il Tre e il Quattrocento a Bisanzio il rinnovamento «ellenico» e cercò il riavvicinamento con Roma e l'Occidente è spesso definita dagli studiosi «movimento dei Lumi» (Runciman) - in contrapposizione, di nuovo, all'«oscura» dislocazione e vocazione orientale di Nicea. Per tornare all'equivoco su rinascenze ed età «auree» bizantine, la conferma della proporzione inversa esistente a Bisanzio fra progresso dello Stato e della cultura, e del carattere decadente e regressivo di quella cultura, è data proprio dalla «rinascenza» paleologa. Dal fatto che la cultura classica abbia raggiunto il massimo della sua parabola proprio nel momento in cui le speranze sull'avvenire dell'impero declinarono del tutto.

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