Copertina
Autore Rossana Rossanda
Titolo Le altre
Sottotitoloconversazioni a Radiotre sui rapporti tra donne e politica, libertà, fraternità, uguaglianza, ..., femminismo
EdizioneBompiani, Milano, 1979, Saggi , pag. 240, cop.fle., dim. 136x214x22 mm
Classe politica , femminismo
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Indice

Introduzione                                  5

 1. Politica I                               51
 2. Politica II                              63
 3. Libertà                                  76
 4. Fraternità                               89
 5. Uguaglianza                             104
 6. Democrazia                              116
 7. Fascismo                                133
 8. Resistenza                              144
 9. Stato                                   157
10. Partito                                 170
11. Rivoluzione                             185
12. Femminismo                              200

Appendice

Movimento delle donne, istituzioni
e antistituzionalismo.
    Conversazione con Pietro Ingrao         217

La bobina che non si lasciava trasmettere   225

 

 

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Pagina 5

Quando, nell'ottobre del 1978, Enzo Forcella mi propose di tenere a Radiotre una dozzina di conversazioni per il ciclo "Noi, voi, loro-donna" sul rapporto fra donne e politica, avevo almeno tre ragioni per dire di no. La prima era la mia scarsa legittimazione a parlare di donne: non sono femminista oggi e non mi sono occupata di questioni femminili nel mio lavoro politico, che pur mi ha visto cacciare il naso un po' dappertutto. La seconda è che, se il mio rapporto con il femminismo era dubbio e quindi la mia voce illecita, il mio rapporto con la politica, che non era dubbio affatto, stava venendo a una nuova stretta: nel 1969 ero stata cacciata dal partito comunista, nel 1977 avevo contribuito alla fine di una formazione impropria, quel Partito di unità proletaria per il comunismo che aveva tentato l'unificazione fra il primo manifesto e il primo Pdup, e nel 1978 era venuto il momento in cui ero io a parlare a vuoto, inascoltata, incapace di farmi capire. Tutto comprensibile, anzi da attendersi in anni così precipitosi; ma le mia ossa cominciavano a dolere. Terza ragione, non sapevo nulla di radio; il mio "mezzo" - come dicono in via Asiago - è la parola scritta, e benché non mi sia mai illusa che questa sia meno manipolatrice del microfono, conoscevo e partecipavo dell'idea che parlare dalle onde della Rai, infausta azienda di stato, fosse partecipare della manipolazione dei media, passare in qualche misura un contratto con il potere.

Tutte e tre queste ragioni per dire no erano altrettante tentazioni di dire sì. Prima o poi avrei pur dovuto affrontare questo rapporto con le mie sorelle di sesso, andare a vedere, espormi; smetterla di scappare. Prima ragione. Seconda e più complicata: se tentavo di vedere la mia vicenda politica con occhio sereno, senza coprire di eccessive colpe né me stessa né i compagni da cui mi è avvenuto di dividermi, non potevo non domandarmi il perché di questa tormentosa incapacità di lavorare assieme, tanto più paradassale quanto più è giovane l'istituzione, meno ha potere, e dichiara sinceramente l'intenzione di essere diversa. Facemmo il manifesto rimproverando al Pci di non sapere reggere una contraddizione interna, ma non sapevamo reggerla neppure noi. Sicuramente, mi rispondevo, perché ci attraversano come coltelli i nuovi fronti del conflitto, chi di qua, chi di là questo è un terreno che mi è familiare, ne conosco il fando. Ma non anche una rigidità e fragilità, più acute d'un tempo, del "modo di essere" dei partiti, di quelle tecniche che sono loro proprie e sembrano inevitabili, pena l'impossibilità di decidere e muoversi? Questa è un terreno incerto, sabbie mobili, continuamente evocate dal 1968 e che avevano inghiattito più d'uno, tarnatosene a casa. Su questo erano le intrattabili donne del femminismo a portare la testimonianza più ostinata, il dito aggressivamente puntato su tutti i partiti, assenti o silenziose - tutte cose che mettono il politico fuori di sé, avevano messo anche me in furore, ma forse mi segnalavano, a gesti, una strada. Volevo andar a vedere.

E infine la terza ragione, l'uso della radio, era semplicemente la voglia di provare una cosa nuova; cambiare, misurarmi con un diverso destinatario, rischiare la più unilaterale delle comunicazioni unilaterali. Così è successo che dal navembre del 1978 al febbraio del 1979 ho parlato da Radiatre tutti i martedì alle dieci, non senza affanno e con molte incertezze. Un solo messaggio intendevo mandare, ma provacatorio, mentre da tutte le parti, dietro ai profili di chi celebra i funerali del marxismo, vedo spuntare vecchie e nuove empirie, questo vale quella, destra eguale sinistra, torniamo ai fatti nostri e patteggiamo con tutti, noi stessi per primi: che a me il vecchio Marx serve ancora, che la storia corre, non precipita in indecifrabili schegge; e questo mi va bene, grazie, anche se confesso di avere il fiato un po' grosso. Affermazione inopportuna, risibile, fuori quadro. Appunto quel che volevo fare e ora racconto.

[...]

Le ragioni di essere ranocchia non si riducevano solo alla ferma volontà di avere un altro destino. Furono, al mio tempo, le stesse per cui parte dei ragazzi con cui ero cresciuta divennero un certo tipo di uomo impegnato. Avevo esattamente quindici anni quando scoppiò la seconda guerra mondiale a una fine di vacanza. Era stata una vacanza come tutte noiosa: quel nostro spazio che ci ritagliavamo l'inverno fuori delle nostre amate e rispettate famiglie spariva nelle lunghe villeggiature, condotte sul ritmo esasperante degli adulti. L'adolescenza finiva, io del resto non la ricordo, diventammo giovani in fretta e vale per noi quel che scriveva Nizan, ditemi che vent'anni è bello e vi piglio a schiaffi. A vent'anni, in una Milano ghiacciata, vidi i corpi dei miei compagni sulle piazze, i treni delle ferrovie nord fermati per cercare i partigiani, e a fianco di un biondo compagno che, bello come un dio, doveva fungere da mio amore in attesa e invece faceva come me la staffetta, lessi alla stazione di Como il proclama di Kesselring e pensai che non volevo essere impiccata.

Da quando con le luci di settembre del 1939 venne la guerra, il tempo si mise a rotolare e non si è più fermato. Dicono che in altre epoche si vivessero rapide storie personali su sfondi pubblici lentissimi, che erano la storia: ma oggi, ha ragione Milan Kundera, la nostra lenta vita ha appena il tempo di iscriversi sulle figure violentemente tracciate e cancellate dal precipitare del mondo. L'obiettivo numero uno, per quelli come noi, fu di ritrovare un piano dove ricomporre corpi ed anime permanentemente scomposti e in ritardo e in inganno; una qualche ripresa del dominio di sé sulla base d'una qualche comprensione di quel che avveniva fuori. E quando il fascismo esplose nella guerra dentro la guerra, violenza e persecuzione e morte (non più la morte con la quale da adolescente avevo flirtato, fra Leopardi e Thomas Mann, nelle sale della biblioteca Querini o fra i cipressi delle isole discoste della laguna, ma i morti, compagni, amici, mai visti, appesi agli alberi o ammucchiati in fondo a una strada), non bastò capire, occorreva intervenire. Per chi si fece adulto in quegli anni l'identità non sarà mai un percorso privato e nel privato, come non è un fatto privato portar salva la vita da un veliero nella tempesta. Tutto il mondo passò sopra di noi, e da allora non cessò di passare.

Guardo alle mie date: a quindici anni è la guerra, a venticinque la guerra fredda, a trentacinque è il comitato centrale del più grosso partito comunista d'occidente, a quarantacinque questo partito si libera di me... a cinquantacinque eccomi qui, nel riflusso dell'onda d'una mareggiata di cui conosco le andate e i ritorni, e che mi trascinerà sempre. La mia persona è scandita dai fatti altrui, Stalin non l'ho scelto, le masse non sono una frequentazione facoltativa, sono entrate e uscite decidendo i tempi di me-donna. Donna? E le altre donne? Il rombo di questo tempo è stato così forte che la voce delle donne non la ricordo; quella che decifro oggi nelle amiche femministe non l'ho avvertita mai prima. La donna era un dolore aggiunto, un particolare modo di patire o di fuggire.

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