Autore Rossana Rossanda
Titolo Questo corpo che mi abita
EdizioneBollati Boringhieri, Torino, 2018, Temi 276 , pag. 122, cop.fle., dim. 11,5x19,5x1,1 cm , Isbn 978-88-339-2955-2
CuratoreLea Melandri
LettoreGiovanna Bacci, 2018
Classe biografie , psicologia , femminismo












 

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Indice


    Questo corpo che mi abita


  9 Autodifesa di un io politico

 27 Un ussaro di nome Speranza

 41 Théroigne de Méricourt: né popolana né signora

 51 Il profondo e la storia

 63 Una soglia sul mistero

 76 Lanterne rosse

 82 Questo corpo che mi abita


    Postfazione

 99 L'amicizia, un tranquillo deposito di sé
    Lea Melandri


121 Indice dei nomi


 

 

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Pagina 9

Autodifesa di un io politico

[1987]


Nessuna lettura del mio libro - raccolta di articoli d'una decina d'anni e più - è stata più amorosa di quella di Lea. Nessuna più ravvicinata. Nessuna mi ha mandato più amorosamente a dire: «Oh infelice, ti sbagli».

Ecco una prima differenza fra noi. A me è difficile leggere Lea, fin da quando non la conoscevo, senza sentire che siamo su un'«onda differente» e dedurne che lei sbaglia. Ho riflettuto sul suo modo di vedermi, che riflette anche un suo modo di essere, e penso che sia un altro modo di fondare l'io, l'interiorità. Non saprei se la rende felice, non sono avvezza a misurare le scelte fondamentali sulle quali si struttura una persona sulla base del grado di felicità che apportano.

Mi interessa quel che lei è, come mi riflette e accetta o respinge, mi fa pensare, voglio bene al suo volermi bene scuotendo la testa come davanti a una battaglia perduta in partenza. Ma su di me teme a torto. Non perché io sia una creatura realizzata e saggia e lieta; al contrario. Ma perché non ha molto senso dire di una donna della mia età, struttura, formazione e lavoro: «Costei non s'è resa autonoma, s'è martirizzata nella antica dipendenza delle donne - per altre direttamente dall'uomo, per lei dall'universo dell'uomo e dai suoi pubblici comandamenti». Perché sono pubblici comandamenti anche quelli della sinistra: Lea su questo ha ragione. E tuttavia non serve, non perché sia tardi; ma perché io sono questa, e sarebbe un modo - diciamolo? - affettuosamente autoritario affermare: «Siccome una donna deve esistere anzitutto per sé, finalmente, non deve vivere come Rossana». Io conosco da che faccio politica, cioè da quasi sempre, l'imperioso bisogno di dire all'altro: «Ma potresti essere diverso!» e, da altrettanto tempo, esito però a dirmi: «Se glielo dico lo libero, gli addito una strada felice». «Forse - penso - domando qualcosa per me».

Una vita è una vita. La mia si può ascoltare o no, ma non bisogna perdere tempo a compiangerla. Io l'ho costruita, e non tutti possono dire lo stesso di sé: pochi, perché pochi hanno avuto la nostra (magari sofferente) libertà di farlo. È un percorso autonomo, nel senso stretto che mi sono data la mia legge, e non ha molto senso obiettarmi: «Tu credi di essertela data». Questo è un gioco che può continuare all'infinito, ma noi non lo faremo. La mia vita ha come asse il rapporto con l'altro, ma nego che questo sia sinonimo di dipendenza. Sarei più incline a credere che la scelta di fondare il sé su se stesso sia autistica, una fuga dal principio di realtà. Una forma del sogno. Se il mio è un sogno - perché rapportarsi al fuori di noi è sempre costruire una proiezione, un progetto, una domanda, un rischio - il non-rapporto è soltanto un sogno diverso; e forse, dei due, quello alimentato da più fantasia. Ma forse sbaglio. Quel che conta è che a me non importa molto definire una autonomia fondata su di me. Non la conosco, non mi interesserebbe molto, come non mi appassiona quell'astrazione concettuale che è l'autonomia del «genere umano femminile»; cosa diversa dalla differenza sessuale, perché la differenza sessuale non è, secondo me, un dato a priori, ontologico: è un aspetto, determinante e non totalizzante, della mia esistenza di persona/donna, in questo luogo e tempo d'una storia dove sono accidentalmente collocata.

Questo sono, e prima di cercar di spiegarne le ragioni, non semplici, vorrei evitare che mi si considerasse per affetto una martire. Crocifissa per gli altri. Io sono venuta al mondo, da che ho ricordo, con una curiosità immensa di capire: me e l'altro. Con l'impossibilità, tuttora presente, di pensare me in un'orbita, attorno alla quale gravita «l'altro» (persona, cose del mondo, tempo presente dell'arco della mia esistenza), sufficientemente a distanza perché io possa vivere senza scorgerlo o scegliere i momenti in cui lo avvicino.

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Pagina 63

Una soglia sul mistero

[1990]


Fra i saperi che i movimenti femministi rivendicano - in polemica con l'astrazione maschile o logos - è il «sapere del corpo». E chiamano a prova sia l'esperienza della maternità, dove il corpo si sdoppia e per molto tempo l'«altro», il figlio, resta legato fisicamente e psichicamente alla madre, sia l'abitudine alla assistenza agli infermi, sia la conoscenza di rimedi «semplici» che nei secoli le donne si sono tramandate - fino a sentirsi talvolta dotate di poteri speciali ed essere perseguitate come streghe. Qualche scritto, come quello di Trotula sulle malattie delle donne, confermerebbe una linea femminile del sapere sul corpo, da cercare nel passato e recuperare. Ma è vero? Intendo, è vero che ci sia un «sapere femminile» in senso forte, al di là della tesi relativistica e, sotto il profilo delle scienze umane, fondata, per cui ogni sapere, compreso quello elementare e respinto dalla scienza moderna, è «forte» quando ha un «suo» campo, una sua logica autonomi e non commisurabili ad altri campi e altre logiche? Ben prima del «paradigma indiziario» di Carlo Ginzburg, le note di Wittgenstein al Ramo d'oro di Frazer vendicano, per così dire, tutto il «pensiero selvaggio» dal riduzionismo scientista moderno.

Ma se il pensiero selvaggio è un pensiero, resta il fatto che il pensato e sperimentato femminile non avviene in un campo concluso come nella cultura selvaggia, ma in parallelo a un'altra cultura, cui sovente fa da reciproco e da cui mutua alcuni moduli. Esso si presenta perciò in questi anni come un pensiero autonomo nel senso che accentuerebbe il concreto, la «presa diretta» rispetto all'astratto, il contatto con la persona per rapporto alla serialità della conoscenza e terapia scientifica. Resta il fatto, valido sia per il relativismo antropologico sia per il paradigma di conoscenza attuale, che si guarisce più facilmente dalla polmonite con la penicillina che senza. Ed è all'asepsi e agli antibiotici che si deve la fine della morte femminile più frequente, quella di parto. Le polemiche fra medicina dolce e medicina scientifica hanno respiro breve finché non trovano una visione complessiva dell'«atto medico» e della «cura», che può implicarle tutte e due. Del sapere femminile sul corpo tuttavia non si dice esplicitamente che fa parte della «medicina dolce». Si sostiene che è un sapere totale che nascerebbe da una percezione specifica del corpo, che le donne possiederebbero più degli uomini. È quasi un luogo comune, che perfino gli uomini - eccezion fatta per i medici - accolgono e diffondono volentieri, «coda» della funzione materna che volentieri riconoscono, ruolo biologico e sociale ammesso senza discussione, insieme come obbligo e limitazione di campo.

Ma la specifica percezione femminile, immediata e diretta, del corpo non sembra così certa. Perfino il «bisogno anarchico di maternità», per usare una felice espressione recente di Natalia Ginzburg, non è vissuto senza traumi, incertezze e contraddizioni. Se appena ascoltiamo le donne che hanno la libertà mentale di verificare se stesse, ad esempio, nella gravidanza, il suono che viene da loro è tutt'altro che chiaro e monocorde, come i passati numeri di «Lapis» hanno documentato.

E se appena si fa attenzione allo scorrere della vita di qualsiasi donna, ci si avvede quale coazione simbolica agisca fra la donna e il suo corpo, anche al di fuori della maternità - peso determinante nella percezione di sé e nell'idea che essa si fa del suo possibile destino. Percezione largamente simbolica, indiretta, ricevuta. Essa tende a sostituire un «sapere» del corpo con una precettiva, un «modello del corpo», che è esterno all'esperienza immediata e tende a farsi esperienza esso stesso. Non è un «sapere», è un «fantasma» compatto e drammatico.

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Pagina 82

Questo corpo che mi abita

[1994]


Torrido venerdì in un circolo di sinistra a Trastevere. Tema: donna e lavoro. Marxisti molto ortodossi e femministe molto ortodosse. Mentre un lui si diffonde sul toyotismo, una lei esplode: «Ma parti dal tuo corpo!». Lui, stupefatto: «Ma il corpo è un'astrazione!». Ululati, babele. Pochi minuti dopo me ne vado.

Il corpo un astratto. Bisogna essere maschio e professore per uscire con questa battuta. Che c'è di più concreto? Da che mondo è mondo, il corpo è materia, concreta materia, toccabile e visibile. La prima che ognuno ha a portata di mano. È tanto terrestre e deperibile che lo si è sempre abbinato con l'anima, inacchiappabile e (si spera) eterna. Corpo e anima, soma e psiche, spirito e materia. Chi è laico e materialista lascia perdere l'anima, siamo il nostro corpo, è chiaro. Meno chiaro è dove la materialità del corpo diventa «materia immateriale», come i processi cerebrali e, peggio, quelli psichici. Da qualche tempo in qua gli esperti ci dicono che da questa o quella parte del cervello, ben individuata negli atlanti anatomici, parte una «informazione», parola convenientemente ambigua fra materialità e spiritualità, la quale dice a un'altra parte, anch'essa individuata, di fare questo o quello. Dormi adesso!, informa e il corpo si addormenta. Mah. Lasciamo andare, non è la fisiologia che qui mi interessa. Partiamo da me. Come percepisco il «mio» corpo. Ammesso che si possa dire «mio» di una cosa che «sono» ed «è» me stessa. Perché è certo che «sono» il mio corpo ma mi/lo percepisco come un «altro», il più vicino, anzi appiccicato. Sono dentro (se no, dove?) ma in qualche misura «mi sento» fuori. Come quando i miei occhi guardano lo scorcio di me che sta nel loro orizzonte, loro percepiscono i piedi, i piedi non percepiscono loro. In più, senza specchio mi sento insieme fuori e attaccata dentro, per cui non posso vedere il corpo intero. Direi anzi che l'essenziale mi manca. Con lo specchio, cioè tramite un oggetto, vedo quel che se no non vedo, e con due specchi uno di fronte all'altro mi vedo tutta. Ma con uno mi vedo a rovescio, con due mi moltiplico all'infinito. C'è di che sentire bizzarro questo corpo maledetto. E da quello degli altri che apprendo come veramente appaio e mi muovo, per cui il «mio» corpo è rimandato da quello altrui, che mio non è di certo, e di certo non sono io, ma «io» vedo e in certo modo colgo più del mio. Più del mio lo posso toccare. Sarà perché mi vedo rovesciata dallo specchio che mi sorprendono le fotografie, nelle quali c'è qualcosa di indefinibilmente diverso: loro sono come sono vista, e io non mi vedo. «Sei proprio così», mi assicura qualcuno. Quando dico: «Questa mi piace e questa no» è forse perché quella che mi piace somiglia di più a quel che rimanda lo specchio? O perché somiglia a un'immagine che mi faccio del mio corpo misurandola su un corpo che non è il mio?

Da tutte le parti questo corpo che mi abita e che abito sfugge e mi torna, come se fosse l'anguilla della mia coscienza, un'anguilla attaccata a «me».

Sulla percezione del proprio corpo sono stati scritti chilometri di bibliografie. Siccome stavolta sono ben ferma a partire da me, non andrò a dare neanche un'occhiata alla bibliografia. Assumo, trovandomi in, assieme e dentro il corpo nel 1994, che quel che dico «coscienza» è un sistema emittente e ricevente che ha una certa collocazione in testa ma si prolunga in tutto il corpo, e si ferma ai suoi confini. Un po' come il mio computer. Se do una martellata al computer, parte anche il suo cervello negli innumerevoli fili. Un computer martellato o senza pile o elettricità, è un cadavere? O un dormente?

Morte e sonno. Può andare. Certo sono programmata in modo da avere una percezione del mio corpo come me/altro. Fin da che ricordo tutti hanno fatto di tutto per confondermi le idee. La mamma mi diceva: «Muoviti», non: «Muovi le tue gambe», ma a volte diceva: «La tua mano», «La tua gamba», «Il tuo culetto», «I tuoi capelli» e «Il tuo stomaco» (credo la sola parte interna di cui si parli ai bambini per via del mangiare: «Non tuffarti a stomaco pieno», «Hai lo stomachino vuoto»).

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