Copertina
Autore Rossana Rossanda
Titolo La ragazza del secolo scorso
EdizioneEinaudi, Torino, 2005, Supercoralli , pag. 388, cop.ril.sov., dim. 140x222x27 mm , Isbn 978-88-06-14375-6
LettoreRenato di Stefano, 2005
Classe narrativa italiana , storia contemporanea d'Italia , politica , biografie , guerra-pace
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Pagina 4

Questo non è un libro di storia. È quel che mi rimanda la memoria quando colgo lo sguardo dubbioso di chi mi è attorno: perché sei stata comunista? perché dici di esserlo? che intendi? senza un partito, senza cariche, accanto a un giornale che non è piú tuo? è una illusione cui ti aggrappi, per ostinazione, per ossificazione? Ogni tanto qualcuno mi ferma con gentilezza: «Lei è stata un mito!» Ma chi vuol essere un mito? Non io. I miti sono una proiezione altrui, io non c'entro. Mi imbarazza. Non sono onorevolmente inchiodata in una lapide, fuori del mondo e del tempo. Resto alle prese con tutti e due. Ma la domanda mi interpella.

La vicenda del comunismo e dei comunisti del Novecento è finita cosí malamente che è impossibile non porsela. Che è stato essere un comunista in Italia dal 1943? Comunista come membro di un partito, non solo come un momento di coscienza interiore con il quale si può sempre cavarsela: «In questo o in quello non c'entro». Comincio dall'interrogare me. Senza consultare né libri né documenti ma non senza dubbi.

Dopo oltre mezzo secolo attraversato correndo, inciampando, ricominciando a correre con qualche livido in piú, la memoria è reumatica. Non l'ho coltivata, ne conosco l'indulgenza e le trappole. Anche quelle di darle una forma. Ma memoria e forma sono anch'esse un fatto tra i fatti. Né meno né piú.

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Pagina 5

Capitolo primo


Non ho trovato il comunismo in casa, questo è certo. E neanche la politica. E poi dell'infanzia non ricordo quasi niente, e poco dei primi sette anni nei quali — secondo Marina Cvetaeva — tutto sarebbe già compiuto. Non ho nostalgie di un'età felice né risentimenti per lacrime versate nella notte. Dev'essere stata un'infanzia comune, affettuosa, un'anticamera, una crisalide dalla quale avevo fretta di uscire per svolazzare a mo' di farfalla. Tutti mi sembravano farfalle salvo i bambini.

Sono nata negli anni venti a Pola con sconcerto delle anagrafi: nata a Pola (Italia), a Pola (Iugoslavia), a Pola (Croazia). Allora era Italia. Sulla punta dell'Istria, tra il verde e gli scogli bianchi scavati dai datteri di mare. Poco oltre le isole del Carnaro e frammenti di isole, come la Fenera e Scoglio Cielo che erano di mia madre. Non so come si chiamino adesso, non sono mai tornata. Erano abitate dai conigli selvatici, vi approdavamo dal bragozzo, i narcisi erano alti come me e profumavano forte. Mamma mi insegnava a cogliere gli asparagi selvatici affondando le dita nel muschio. Qualche fotografia di uomini col fucile e signore dalla vita lunga e calottine fino agli occhi fissano anche me ridente e stupidella. Ma mi è rimasto in mente il serpente nero che traversò la tovaglia stesa sull'erba con le uova sode e il salame, e tutti balzarono su, e mi sentii dimenticata. Quell'ondulata creatura sparí velocemente. Poi cadeva un tramonto rosso e scendendo verso il bragozzo le figure diventavano nere contro luce, come nella fotografia di mia madre, le braccia cariche di narcisi, di profilo vicino al barcone dalla vela latina. Contro ogni probabilità sono certa di esser nata quella notte.

L'alto Adriatico era uscito dall'impero austroungarico da una decina di anni e i miei misuravano il tempo in «prima della guerra» o «dopo la guerra». La guerra stava alle spalle, nell'album trovo minuscole foto di aeroplani azzoppati, case sbreccate, una cupola bizantina china da un lato, forse in Serbia, forse in Ungheria. Ungherese è la dedica di una piccola raccolta di foto di mia madre, «Anitanak 1917», e si apre con lei sedicenne, il viso al vento, una gran gonna a pieghe, il giaccone marinaro, davanti al timone d'una nave da guerra. Mamma non lo me lo fece vedere mai, quell'album forse di un innamorato, lo trovai fra le sue carte dopo che morí, apparteneva alle cose prima di me che mi erano irrimediabilmente tolte. Da piccoli duole di essere privati del passato come da vecchi del futuro.

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Pagina 19

Della benevola invalicabilità degli adulti trassi vantaggio. Fra noi e loro papà e mamma mettevano una certa aria sorridente sulle cose; il mondo in generale apparteneva a loro, ce n'era un pezzetto in comune con noi, poi c'era il mondo nostro. Era una sistemazione molto conveniente. Il segreto che avvolgeva i grandi permetteva di non capirne niente, e nel non farsi domande su di loro i bambini sono specialisti. Io almeno lo ero. Anita e Luigi. Che ne sapevo? E che cosa ne so oggi? Una valigetta piena di carte, documenti e lettere, la bella grafia slanciata di mamma, il corsivo minuto di papà, sta nel mio studio. Mia sorella me l'ha portata come se mi spettasse. Non l'ho mai aperta, e non è per queste pagine che lo farò. Non so se sia stata conservata perché la leggessimo. Tutti e due morirono d'improvviso, fucilati in un'imboscata del corpo. Come sollevare la tenda che dolcemente, fermamente tennero abbassata? O forse ho paura della sofferenza che non ci dissero.

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Pagina 27

Confusione. Appena fuori dall'infanzia, i ricordi s'infittiscono senza un filo. Adolescenti si è tutto e niente, distratte, ansiose. Leggo in altre biografie le avvisaglie di un destino: a me non è andata cosí. E confusi sono i sentimenti. Se a casa c'era un disagio, non c'era a scuola. La scuola era il perimetro affacciato sul mondo. Non se ne vedeva molto ma infinitamente piú che dalle pareti domestiche. A Pola non mi avevano mandata a scuola, forse non era obbligatorio. Mamma mi insegnò a scrivere, a leggere mi aveva insegnato papà mentre stavo sulle sue spalle e lui teneva aperto il giornale. Non riuscii ad avere la scrittura elegante di mamma, né a usare come lei la matita (Faber numero 3) quando si metteva davanti una rosa o una peonia e la trasferiva sulla carta rugosa (Fabriano). Disegnare le piaceva, una volta dipinse mazzetti di roselline su una seta bianca e frusciante, non so a che servisse, ricordo il suo profumo mentre era china su quell'impresa in una camera che non so quale sia né dove. Credo che sia nata avventurosa, la mamma, preferiva portare la barca che far da mangiare, e quando venne la rovina si mise a lavorare con le sue due lingue, imparando a battere a macchina e a stenografare con begli svolazzi.

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Pagina 31

Quando finalmente ci ricongiungemmo con mamma e papà a Milano, avevo tredici anni, né bambina né donna. La sorpresa fu la città, piú dura, meno suggestiva, una città da fare e non da vedere. I miei lavoravano da mattina a sera, mamma aveva un impiego, papà si arrabattava in consulenze e in una piccola ditta di recupero fotografico, nonna faceva da mangiare ed era ovvio che Mimma e io studiassimo per essere indipendenti. Una sola strada, studiare e uscir di casa. Non obbligo, via maestra.

[...]

Avevamo un orgoglio luciferino, trasmesso da mio padre; eravamo intellettuali e frequentavamo i libri. Traversammo quegli anni senza invidiare le compagne che andavano a sciare, noi che su uno sci non mettemmo mai piede, sicure d'una superiorità che non nascondevamo. Papà ci portava con sé alla fiera degli «obei obei» o in certe librerie di seconda mano, a caccia di suoi autori sempre indietro nel tempo, Romain Rolland, Victor Hugo, Anatole France, Rudolf Steiner, cercava Umberto Cosmo senza trovarlo, s'era portato appresso dal diluvio certi libri di diritto, un completo Rousseau e poco altro.

[...]

Divoravo di tutto senza sosta come i bachi le foglie di gelso.

[...]

Appena mi venne fra le mani Ibsen lo divorai. Ci vuole una vita per capire che significa esser donna. Almeno cosí pare a me, e perciò guardo le giovani con tenerezza - sono tanto piú belle di come eravamo - e compassione. Come a noi erano prescritte castità e indipendenza, a loro sono prescritti sesso e seduzione. Come per noi la maternità oscilla fra realizzazione e contraddizione. Sul resto - che essere, che fare - ognuna inciampa per conto suo. Alcune trovano nel femminismo lembi di risposta, di comunità. Le piú fingono di saper quel che vogliono, ma poche se la cavano.

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Pagina 42

Capitolo terzo


Il 2 settembre 1939 non incrinò quell'adolescenza. Era la fine dell'estate, eravamo in montagna, i colori sfumavano dopo i temporali di mezzo agosto e scrutavamo i prati aspettando gli ingannevoli colchici, segno che era ora di partire. Si consumavano i soliti giorni quando la Germania si spartí con i russi la Polonia. La Polonia era lontana, l'Urss ancora di piú, il Terzo Reich non eravamo noi. A Poznan viveva la piú pazza delle sorelle di mamma, ma se le altre sentirono un brivido non lo comunicarono alle nipoti. O ero catafratta io.

[...]

Dunque il mostro, la Guerra, s'era delineato. Mi arrangiava pensarlo esorcizzato. Non sentii dire: «Bisogna fermare il Terzo Reich», né a casa né a scuola. Oggi saremmo stigmatizzati per indulgenza al nazismo, pacifismo bieco, viltà. È vero, si sarebbe dovuto scendere in piazza, gridare, rischiare: allora, anzi prima, quanto prima? Non era pensabile o non fu pensato. Non attorno a me. Erano convulsioni del mondo, noi ci scavavamo una tana e tiravamo avanti. Sono i grigi che fanno un paese, chi non conta tace, subisce, o anche applaude ma aspetta che passi. Si avvezza a credere che passerà, che stia passando. Bisogna che abbia l'acqua alla gola per ammettere l'irreparabile. Cosí accadono le enormità.

[...]

E cosí in quell'autunno del 1939. Eppure l'anno prima, sarà stato novembre, la mia compagna di banco mi aveva detto: «Da domani non vengo piú a scuola». Perché? «Perché sono ebrea».

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Pagina 53

Chi mi aveva aperto quella porta, e quella di Wölfflin o di Cassirer, era Banfi. La confusione degli anni andati, gli impatti che si erano accavallati e contraddetti, si proporzionavano nelle reti d'un farsi molteplice dell'esperienza, in una storia che non avrebbe avuto fine né fini, e di tempo in tempo modellava i suoi mondi. Mondi, non mondo. Mondi in tensione, disegnano un problema, lo maturano, lo spengono. Un mondo ha una chiave che lo apre e poi sbiadisce e un altro mondo ne nasce ma anche lo nega, si sovrappone e passa, e libri, eventi, idee trovano una necessità e rimandano echi e poi scompaiono e tornano in luce mutati. Nulla era senza movimento, nulla era senza senso, il non senso scivolava via in quel dispiegarsi di relazioni, sontuoso e mutevole. Per chi aveva inseguito faticosamente nei primi libri la metafisica come un tentativo di totalità, la chiave diventava dover ritrovare ogni volta una chiave senza annegare nel relativismo. Ma da allora preferisce non annaspare in mezze metafisiche, come adesso che la filosofia s'è fatta di bocca buona. Salvo nel sulfureo Heidegger, ma incrociato molto piú tardi, grande esercizio, adesione zero.

Intanto Banfi era il contrario del determinismo cui viene ridotto Marx, il contrario d'una teleologia. Avrei impiegato molto tempo a capire che Popper non ha capito, e dietro a lui gli antistoricisti di questa ultima parte del secolo; la stessa parola, storicismo, è deformata dalla crociana filosofia della storia e dall'opposta ricerca compulsiva dell'eterno ciclico o del tutto è frammento. Banfi è stato piú che il maestro, l'apritore delle porte. In lui trovo l'impronta della cultura tedesca di inizio del secolo, un sapere illimitato e le domande del neokantismo ma anche la Gestalt e un lucore di Freud.

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Pagina 56

Nel 1942 il guardiamarina che mi aveva portata al cinema a Venezia giaceva da qualche parte nel Mediterraneo, affondato assieme con la sua nave da una bomba americana o inglese, la zia e i cugini di Polonia erano scomparsi in un buio, ed era perduta ogni notizia dei molti compagni di scuola e padri e fratelli di amiche, partiti chi sa dove, forse vivi forse no. Ma i giovani sono avvezzi a perdersi, non è che ogni sparizione significhi morte, avanti. Alla fine di quell'anno avevamo perduto tutto, casa e indirizzo, si mormorava che quelli dell'Armir morivano di gelo in Russia, Stalingrado non era nominata e io studiavo e annotavo nella biblioteca vuota e odorosa di cera con la sensazione vertiginosa che non avrei fatto in tempo a leggere tutto, a vedere tutto, lo scintillante pensato, dipinto, lasciato, pozzo pieno di voci che percepivo di fretta temendo che qualcosa me ne tirasse via. In un presente dove non capivo nulla, non vedevo niente, tutto si chiudeva, una cosa dopo l'altra, tutto mi era impedito fuorché aprire un libro, essere rimandati a un altro prima di averlo chiuso, spalancare porte e intravvedere scorci del passato - mai avrei potuto fermarmi, andare al fondo, sapere davvero, e come si faceva a capire senza conoscere quel che è stato scritto prima?

Cosí un senso di incompiutezza accompagnava quel che mi veniva fra le mani, ma era un innamoramento. Come spiegare che ebbi un tuffo al cuore nel trovare inaspettato un Luca Pacioli a Brera, eccolo in quarto e pergamena, le nitide proiezioni, da quanto tempo nessuno sentiva l'odore di umido delle pagine che con precauzione scollavo? E come dire l'allegria del pescare fra le schede piú antiche della Marciana, ancora in inchiostro, l'acca svolazzante di Hemsterhuis? Sono piaceri solitari e contro il mondo e preziosi e non sapevo bene dove metterli, prendevo e lasciavo. C'era anche una debolezza nel bisogno di provare tutto, nell'impazienza, nel non fermarmi su una sola strada, ma me ne avvidi dopo.

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Pagina 60

La guerra si materializzava nelle cose, negli itinerari, nei divieti, nelle mancanze, era una sorta di disgrazia naturale piú che un'impresa umana sulla quale si sarebbe potuto interferire. Potuto e magari dovuto? Quando mai. Quella sorta di cinismo o pigrizia che passa per italica bonomia, secoli di «tutto cambia dunque niente cambia», stingeva dovunque. Passai il 1940 e 1941 ostinandomi a concedere il meno possibile alle coazioni esterne - non importa, fa lo stesso, mangiare chissà cosa, dormire chissà dove - spostando il territorio, aspettando che si riaprisse un varco. C'era la guerra, e allora?

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Pagina 73

Non so chi mi disse: Ma Banfi è comunista. Ero cosí fuori di me che puntai dritto su di lui fra un esame e l'altro. Se ne stava in sala professori, appoggiato al termosifone freddo accanto alla finestra. «Mi hanno detto che lei è comunista». Mi guardò, mi aveva fatto già due esami, dovette concludere che ero quel che parevo, una in cerca di bussola, che non percepiva neppure il senso mortale di certe parole. «Che cosa cerca?» Gli dissi dei volantini che finora avevo visto, della confusione, del non sapere. Si staccò dal termosifone, andò alla scrivania e su un foglietto scrisse una lista nella sua grafia minuta. «Legga questi libri, - mi disse, - quando li avrà letti torni». Uscii, corsi alle Ferrovie nord, in treno apersi il foglietto. C'era scritto: Harold Laski, La libertà nello stato moderno e Harold Laski, Democrazia in crisi; K. Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte e K. Marx, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850. Un libro di De Ruggiero, mi pare. Lenin, Stato e rivoluzione. «Di S. quel che trova».

Restai pietrificata. Era comunista, proprio comunista.

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Pagina 78

Molti avevano taciuto soffrendo, io no. Non potevo esclamare: finalmente resistiamo. Né avrei potuto gridare un giorno: «Io c'ero». Io mi ci sono trovata. Non ho glorie da sventolare, non ho chiesto il diploma di partigiana che mi hanno mandato. Poco ho fatto e con fatica ed errori. Il 25 aprile capivo l'umore dei partigiani che erano scesi a Milano; appena sfilati i leader, Ferruccio Parri e Luigi Longo in testa, i discesi dalle montagne stazzonati e malmessi, allegri, sedettero per terra, straccio rosso attorno al collo, e non si alzavano per salutare la bandiera.

Ho avuto spesso paura. Le scelte obbligate sono serie. Non avevo sognato avventure, volevo passare la vita in biblioteca. E ora stavo in un'avventura di molti, accettando di fare e andare dove mi era detto, non molto, nulla di impossibile; il piú era ripetere gesti e strade ignorando se qualcuno mi osservava, sapendo di contar poco e però sussultando davanti ai proclami di Kesselring, freschi sul muro, che mi informavano come per meno del niente che facevo sarei stata impiccata. Essere impiccata mi faceva orrore, li ho visti gli impiccati, il collo storto, le membra lunghe e abbandonate. Non li posso guardare, non ho retto neanche i corpi appesi per i piedi a piazzale Loreto. Non era la morte, alla quale ci si abitua a testa bassa come a qualcosa che c'è sempre stato. È che la morte si può guardare finché porta ancora una traccia di chi era vissuto - come a Milano il mucchio di fucilati in una piazza vuota di terrore, stesi, accatastati, con le sentinelle tedesche e italiane che andavano su e giú, li tennero là per un giorno d'afoso agosto a mo' di esempio. Avevano le bocche e gli occhi spalancati, erano sfiniti, creature stroncate e che l'abbandono della vita faceva stanchissime. Nessuno si avvicinava, erano noi, ci si sentiva nientificati, era come rinnegarli, si sarebbe dovuto metterglisi accanto, gridare «anche io» e aspettare la fine.

C'era una beceraggine nelle fotografie che «Il Popolo d'Italia», «La Sera» sbandieravano sulle esecuzioni dei banditen; accanto ai morti, agli appesi, i tedeschi non ridevano, i fascisti sí. Serpeggiava negli italiani una risata plebea, fatta di secoli di servaggio. O forse vedevo solo quella, l'Italia mi doleva. Le idee mi si confondevano - magari in circostanze normali gli stessi sarebbero stati brava gente, labile è il confine fra quel che si è e quel che si vien fatti.

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