Copertina
Autore Guido Rossi
Titolo Il gioco delle regole
EdizioneAdelphi, Milano, 2006, Saggi 50 , pag. 122, cop.fle., dim. 140x220x10 mm , Isbn 978-88-459-2014-1
LettoreRenato di Stefano, 2006
Classe diritto , economia politica , economia finanziaria , globalizzazione , capitalismo
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Indice


Introduzione                                     11

I.    Un capitalismo a contratto?                15

II.   Il diritto in frantumi                     29

III.  Le «nuove» regole.
      Dalla morale ai codici etici               39

IV.   La storicità e la relatività dei diritti.
      Il caso della proprietà intellettuale      48

V.    L'estinzione globale delle regole          61

VI.   Il pluralismo degli ordinamenti come
      risposta alla frantumazione delle regole   78

VII.  L'ultima regola riconosciuta               98

VIII. La ricomposizione delle regole?           108


 

 

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Pagina 15

I
UN CAPITALISMO A CONTRATTO?



Le regole costituiscono una delle grandi ossessioni del capitalismo, che non a caso per definire se stesso è ricorso, fin dalle origini, all'immagine del «gioco». In che cosa consista questo suo tratto ludico non è sempre chiaro, mentre risulta evidente che, insieme alle merci, alla tecnologia e a una cospicua quantità di elementi ideologici, il sistema in cui viviamo produce un numero variabile, ma comunque altissimo, di norme.

In qualche misura, questo meccanismo si è instaurato prima ancora che il capitalismo sapesse di chiamarsi così - e lo ha saputo, come è noto, solo dopo Marx. Prove a sostegno di questa affermazione se ne potrebbero addurre molte, anche se una delle più convincenti rimane la storia dello strumento oggi noto come «società per azioni».

Le prime due società di questo tipo - cioè i primi soggetti di diritto distinti dalla persona fisica a esercitare attività commerciali - vengono fondate a distanza di due soli anni l'una (inglese) dall'altra (olandese). Il principio che ispira la Compagnia delle Indie, costituita a Londra nel 1600, è sulla carta semplicissimo: ogni viaggio delle navi inglesi da e per l'India viene infatti finanziato per intero (spese di manutenzione e trasporto incluse) dagli azionisti, che in cambio del loro impegno ricevono un certo numero di azioni. Al ritorno in patria, le merci vengono vendute all'asta e gli utili suddivisi fra quanti hanno partecipato alla sottoscrizione del capitale iniziale.

Si tratta di un meccanismo per noi ovvio, ma all'epoca assolutamente rivoluzionario. Dal diritto romano in poi, infatti, la relazione fra soggetto e bene era sempre stata di tipo diretto, e il diritto di proprietà non veniva concepito se non come rapporto (dominium) fra singolo individuo e bene produttivo di ricchezza. Con la nascita delle compagnie commerciali, il legame fra soggetto e bene si arricchisce di un elemento nuovo. L'azione si può infatti considerare un bene «di secondo grado»: non costituisce una frazione di proprietà, ma esprime esclusivamente il capitale sottoscritto. È una sorta di contributo alle spese per l'«avventura», in assenza di qualsiasi certezza sulle merci che effettivamente verranno messe all'asta e vendute per ricavarne un utile da dividere. Oltre al capitale investito rappresenta il rischio dell'impresa.

In questo schema inedito i beni vengono amministrati attraverso un sistema di deleghe - sostanzialmente lo stesso che costituisce tuttora uno dei problemi più delicati delle società per azioni. A questo riguardo, le prime due grandi compagnie adottano schemi diametralmente opposti. La Compagnia delle Indie inglese si ispira a princìpi che oggi definiremmo «democratici». I suoi amministratori provvedono infatti alla manutenzione delle navi, alla programmazione delle rotte, agli acquisti delle merci in India e all'organizzazione delle aste in Inghilterra. Del proprio operato gli amministratori rispondono agli azionisti, che possono controllare in modo abbastanza stretto l'intero processo. La «democraticità» della compagnia è del resto sancita dal suo stesso statuto, e viene gelosamente difesa. Quando nel 1624 chiede di entrare a far parte della società, proponendo di versare regolarmente la quota di conferimento, Giacomo I si vede opporre un cortese ma fermo rifiuto, motivato dal fatto che la sua posizione non sarebbe stata in alcun modo equiparabile a quella degli altri azionisti, mentre il suo status di regnante avrebbe finito per condizionarne, volontariamente o meno, gli indirizzi. Identica sorte sarebbe toccata, qualche anno più tardi, al suo successore, Carlo I.

Lo schema della Compagnia delle Indie olandese, costituita nel 1602, è invece di tipo oligarchico. L'autorizzazione al commercio viene infatti concessa, per decreto, dagli Stati Generali, che nominano gli amministratori della società per via diretta. Questi ultimi si ritrovano così a esercitare un potere pressoché assoluto, tanto da venire comunemente chiamati «Signori» o «Padroni».

[...]

L'entrata in scena delle banche, che diventano fin da subito azioniste delle imprese, porta a una crescita tumultuosa e incontrollata del sistema, e provoca ripetute crisi, di cui quella del 1929 è soltanto il paradigma. Il meccanismo che le innesca ha una sua perversa semplicità, e il copione si ripete sempre uguale: le imprese producono molto più del necessario, e i loro beni rimangono invenduti. Insieme a scorte e giacenze nei magazzini, aumentano i debiti verso le banche, che proprio a causa del crollo delle vendite non possono essere, se non in parte, onorati. A quel punto le banche, per scongiurare l'insolvenza e il fallimento delle società, intervengono mantenendo artificialmente alti i corsi delle loro azioni, comprandole in prima persona o convincendo i loro clienti a farlo.

In altre parole, il momento della crisi è anche quello in cui molti attori cominciano a rappresentare interessi in conflitto fra loro. Una modica dose di conflitto è connaturata allo scambio delle merci — da sempre sono presenti squilibri informativi fra chi compra e chi vende, da sempre ciascuno rappresenta gli interessi propri, nonché in parte anche quelli di uno o più soggetti terzi —, ma da un certo punto in avanti la soglia di tolleranza viene superata. Da quello stesso punto, e dalla consapevolezza di dover porre un argine a una situazione che rischia di sfuggire a ogni controllo, ha inizio quella superfetazione normativa che è uno dei tratti dominanti della forma che il capitalismo sta assumendo, e anche il tema di fondo di questo lavoro. Il capitalismo finanziario attuale ha infatti indotto un'enorme trasformazione delle regole, ispirata a un'ideologia completamente diversa rispetto a quella che si fondava sull'alternativa tra il modello «democratico» della Compagnia delle Indie inglese e quello «autocratico» della Compagnia olandese. A prevalere oggi è infatti una «terza via», a proposito della quale non mancano gli equivoci: il contrattualismo.

Il contrattualismo su cui si fonda il capitalismo finanziario, è bene dirlo subito, non ha nulla a che vedere con le teorie rousseauiane, né con la loro riformulazione proposta da John Rawls. Si tratta piuttosto di un ritorno a quel tipo di rapporto bilaterale senza intermediazione che esisteva un tempo tra il soggetto del diritto e il bene. Secondo una tradizione avallata da Keynes nel citato The End of laissez faire, il contrattualismo moderno, che postula un intervento dello Stato quanto più possibile ridotto, nasce in Francia, allorché il ministro delle Finanze Colbert chiede agli uomini d'affari che cosa lo Stato debba fare per loro, e si sente rispondere dal mercante Legendre «laissez-faire, laissez-passer». Su quale debba essere la corretta applicazione di questo principio, su quali pesi relativi debbano assumere Stato e mercato, si discute da trecento anni: la bibliografia a riguardo è sterminata, e la questione rimane aperta. Ciò che appare indubbio è che anche l'economia liberista obbedisce a certi piani, dettati proprio dal libero mercato. La differenza, rispetto a quanto accade (accadeva) nelle economie pianificate, o comunque dirette dall'alto, è che in questo caso le direttive provengono da un segmento molto particolare, e ristretto, delle società, cioè la grande impresa e le multinazionali.

Che il libero mercato sia meno libero di quanto la sua stessa definizione lascerebbe supporre non l'hanno scoperto i teorici della globalizzazione, ma un loro lontano antenato, Adam Smith. Secondo Smith, come è noto, la qualità dei nostri pasti non discende dalla generosità del macellaio, del panettiere o del birraio. Ognuno di loro fa, ovviamente, il proprio interesse particolare, mentre a quello generale provvede una curiosa, e abbastanza elusiva, emanazione del mercato stesso, che Smith chiamava la «mano invisibile».

A lungo considerata una sorta di provocazione intellettuale, la «mano invisibile» comincia a venire presa sul serio all'inizio del Novecento, quando sembra fornire legittimazione teorica all'idea secondo la quale chi vive in un sistema capitalistico può contrattare liberamente senza alcun intervento dell'ordinamento. Questo perché è precisamente il contratto ad avere forza di legge tra le parti e a porsi come unica base di tutela dei diritti dei singoli; al di fuori del contratto nulla esiste. È più o meno quanto abbiamo visto accadere nel capitalismo finanziario maturo, dove le società per azioni si sono per l'appunto trasformate in una rete di contratti (nexus of contracts): solo il rapporto contrattuale lega ormai manager e azionisti, e regola i rapporti fra la società e i risparmiatori, i consumatori, le banche.

Nell'ultimo stadio della sua evoluzione, il capitalismo sembrerebbe insomma aver raggiunto quella sorta di «armonia prestabilita» cui tendeva fin dalle origini. Ma naturalmente non è così. Al contrario, proprio nei contratti si annida la malattia più grave del capitalismo finanziario: il conflitto di interessi. È qui, infatti, che il rapporto contrattuale diventa essenzialmente un rapporto fiduciario di mandato, in base al quale qualcuno gestisce la proprietà e gli interessi di qualcun altro - al pari di quanto avviene nel sistema delle élite, anche politiche. Gradualmente, tuttavia, l'interesse personale del mandatario subentra e si sostituisce a quello del mandante, una distorsione che nei fatti sgretola l'intero sistema delle deleghe, e scatena il conflitto di interessi.

A lungo termine, il capitalismo finanziario si dimostra sostanzialmente incapace di regolare se stesso e i rapporti al proprio interno.

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Pagina 36

Al di fuori dei laboratori teorici, cioè nel mondo reale, il mercato è prima di tutto la sede (naturale) di un vastissimo e capillare bargaining, cioè di una contrattazione continua (e solo in parte «giuridica») che si articola in una serie di pratiche informali. Al suo interno, spesso fortunatamente, regna il disordine, e i contratti sono valutati, e considerati vincolanti, solo in base alla loro efficacia.

La dottrina della Law and Economics americana ha dimostrato, per una volta in modo molto convincente, come anche nella valutazione degli schemi giuridici possa prevalere un opportunismo che va ben al di là del «dilemma del prigioniero». Questo esempio classico della teoria dei giochi vuole che due imputati di uno stesso crimine, se non possono comunicare fra loro, scelgano, in base a uno stesso calcolo di convenienza, la soluzione più svantaggiosa. I contratti e le norme giuridiche vengono spesso considerati in base a un criterio strettamente imprenditoriale: è più conveniente seguire lo schema contrattuale e obbedire alla legge o essere inadempienti e affrontare le sanzioni che quella stessa legge prevede? Di fatto, nell'ambito del bargaining la valutazione è, per così dire, precedente al diritto, e nei comportamenti il peso di quest'ultimo si va attenuando. Le recenti tendenze alla deregolamentazione dei mercati in tutti i paesi a capitalismo avanzato rappresentano un'ulteriore inconfutabile prova che nega l'esistenza stessa di un ordine rigorosamente legislativo del mercato.

Insomma, il capitalismo finisce, come ho già sopra osservato, per essere vittima di una alluvione legislativa che se da un lato tende ad affermare i princìpi di libertà (contrattuale, d'impresa, di mercato), dall'altro stritola quegli stessi princìpi attraverso la difesa burocratica delle asimmetrie, in un groviglio di regole che fanno prevalere la volontà del contraente più forte, o di quello che paradossalmente non rispetta alcuna regola.

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Pagina 48

IV
LA STORICITA E LA RELATIVITÀ DEI DIRITTI.
IL CASO DELLA PROPRIETÀ INTELLETTUALE



I diritti hanno due caratteristiche principali. La prima è la storicità: in alcuni periodi certi diritti non esistono, mentre altri, prima inesistenti o trascurati, diventano fondamentali. La seconda è la relatività: non sempre viene loro accordato un profilo universale, e ancora meno spesso se ne postula la generale accettazione. Inoltre, i diritti si espandono (o si contraggono, o si modificano) al variare delle innovazioni scientifiche o tecnologiche — in sostanza mutano nel tempo, sempre più spesso in modo troppo lento e semplicistico rispetto alla realtà che li rende necessari. È quanto sta accadendo, per fare solo un esempio (benché particolarmente vistoso) fra i molti possibili, al diritto d'autore, alla protezione dei brevetti e, più in generale, alla proprietà intellettuale con l'ingresso in scena di internet.

Il concetto stesso di proprietà intellettuale si trova oggi a dover essere ridefinito. In particolare, va trovato un punto di equilibrio fra la protezione delle opere e la possibilità, aperta a tutti, di usufruirne attraverso la rete.

La proprietà (di beni materiali e immateriali, in particolare di opere dell'ingegno) viene considerata da molto tempo sacra e inviolabile. In questi termini ne parla la Dichiarazione universale dei Diritti dell'Uomo, che tuttavia, al medesimo articolo, postula un secondo diritto fondamentale che in apparenza confligge col primo — quello a una cultura libera, che aiuti l'uomo a sviluppare la propria identità. Il primo comma dell'articolo 27 prevede infatti che tutti abbiano il diritto di prendere parte alla vita culturale della comunità accedendo senza ostacoli ai prodotti dell'arte e godendo senza limitazioni dei benefici del progresso scientifico. Il secondo comma, tuttavia, accorda a ognuno il diritto alla protezione degli interessi materiali e morali che derivino dalla produzione letteraria, scientifica o artistica di cui è autore. Il diritto a quello che oggi si chiamerebbe l'«accesso» non ha dunque nulla a che vedere con l'anarchia che si scatenerebbe se chi inventa o crea qualcosa mettesse questo qualcosa a disposizione della comunità senza percepire un compenso, senza cioè che al diritto di proprietà venisse attribuito un valore economico; il problema è, infatti, sempre e soltanto quello di fissare i limiti di tale riconoscimento.

[...]

Escogitare una nuova forma di convivenza con la tecnologia (e di controllo della medesima) è infatti una delle grandi sfide che il diritto si trova, oggi, a dover affrontare. Come sostiene ora Lawrence Lessig in Free Culture, occorre trovare subito un punto di equilibrio fra chi usa in modo assolutamente libero la tecnologia e chi deve tutelare i diritti di sfruttamento del proprio lavoro. Lo stesso caso di Lessig (che ha messo il libro in rete senza per questo rinunciare al copyright, né chiedere alla propia casa editrice, la Penguin Book, di farlo) mostra una via – ma non ancora la soluzione.

[...]

In Italia, ad esempio, la legge del 1996 ha modificato quella precedente, datata 1941, estendendo il diritto d'autore da cinquanta a settant'anni.

Nel 1998, col Sonny Bono Act, gli stessi Stati Uniti d'America hanno ampliato il copyright di altri vent'anni. portandolo a novantacinque. Ritenendolo un atto incostituzionale Lawrence Lessig decise di patrocinare presso la Corte Suprema degli Stati Uniti la causa intentata da Eric Eldred contro il Sonny Bono Act osservando che, con l'aumento del periodo di tutela a novantacinque anni, il diritto d'autore era tornato a essere sostanzialmente perpetuo, quindi in aperto contrasto con il primo emendamento della costituzione americana che tutela la libertà di opinione e la libera creatività, opponendosi, quantomeno, ai monopoli. Ma cosa era successo? Un fatto molto semplice, in realtà. Dopo aver aperto, a beneficio delle figlie, una biblioteca virtuale, Eldred l'aveva arricchita con le opere di un autore ancora in diritti, N. Hawthorne, alle cui poesie aveva aggiunto un breve commento e qualche illustrazione, commettendo così un atto illegale. In aula Lessig, per sua stessa ammissione, aveva poi fatto un grosso errore, nocivo alla causa del suo cliente, ma utile alla discussione più generale: anziché ribattere alle argomentazioni del giudice, si era abbandonato a una torrenziale petizione di principio. Oltre a negare legittimità all'estensione perpetua del copy-right, aveva ricordato alcuni fatti sotto gli occhi di tutti, e cioè che la pubblicazione in rete non risultava avere effetti negativi sulla diffusione di libri e stampa, ma al contrario sembrava incrementare le vendite.

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Pagina 61

V
L'ESTINZIONE GLOBALE DELLE REGOLE



Il fondamentalismo di mercato e il contrattualismo che ispira il capitalismo finanziario sono all'origine della globalizzazione, fenomeno ancora allo stato nascente e che non si può considerare – almeno secondo il suo esegeta più noto, Joseph Stiglitz – né buona né cattiva: a seconda dei casi, può infatti tradursi in una possibilità insperata (di sviluppo) o una condanna definitiva (al sottosviluppo).

La globalizzazione non è senza precedenti. Il mercato ha cambiato scala altre volte, in passato, in una storia di espansione che è stata anche una storia di «salti» (in primo luogo normativi), in alcune occasioni traumatici. Ma finora, appunto, alla nascita di una situazione economica nuova si accompagnava quella di un nuovo diritto, mentre ora accade esattamente il contrario: alla distruzione dell'ordine preesistente sembra non far seguito nulla.

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