Copertina
Autore Philip Roth
Titolo L'animale morente
EdizioneEinaudi, Torino, 2003 [2002], Supercoralli , pag. 114, dim. 140x220x15 mm , Isbn 978-88-06-16355-6
OriginaleThe Dying Animal [2001]
TraduttoreVincenzo Mantovani
LettoreAngela Razzini, 2003
Classe narrativa statunitense
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Pagina 3

L'ho conosciuta otto anni fa. Frequentava il mio corso. Io non insegno più a tempo pieno, e se volessi essere preciso dovrei dire che non insegno letteratura: già da molti anni tengo un solo corso, un grande seminario di critica letteraria, per i laureandi, che ho chiamato Practical Criticism. Le mie lezioni attirano un mucchio di studentesse. Per due ragioni. Perché l'argomento presenta un'allettante combinazione di glamour intellettuale e glamour giornalistico; e perché le ragazze mi hanno sentito recensire libri alla radio o visto parlare di cultura alla televisione. Negli ultimi quindici anni fare il critico culturale in un programma televisivo mi ha reso piuttosto popolare, localmente, e per questo il mio corso attira le ragazze. Nei primi tempi non mi ero reso conto che parlare alla Tv per dieci minuti una volta la settimana potesse fare l'effetto che fa a queste studentesse. Ma le ragazze sono irrimediabilmente attratte dalla celebrità, per insignificante che possa essere la mia.

Ora, come sai, io sono molto sensibile alla bellezza femminile. Tutti hanno qualcosa davanti a cui si sentono disarmati, e io ho la bellezza. La vedo e mi acceca, impedendomi di scorgere ogni altra cosa. Queste ragazze vengono al mio corso, e io capisco quasi subito qual è quella che fa per me. C'è un racconto di Mark Twain dove lui scappa, inseguito da un toro, e quando si rifugia sopra un albero il toro alza gli occhi e pensa: «Voi siete la mia preda, signore». Be', quando le vedo in aula quel «signore» si trasforma in «signorina». Sono passati otto anni, dunque: io ne avevo già sessantadue e la ragazza, che si chiama Consuela Castillo, ne aveva ventiquattro. Consuela non è come le altre. Non ha l'aria di una studentessa, non di una comune studentessa, per lo meno. Non è una mezza adolescente, non è una ragazza sbracata, sciatta, pullulante di «cioè». È raffinata nel parlare, misurata, e il suo portamento è perfetto: sembra che sappia qualcosa della vita degli adulti, oltre a stare seduta, stare in piedi e camminare. Come entri nell'aula, capisci che questa ragazza o la sa più lunga delle altre o a questo aspira. Il modo in cui si veste, per esempio. Non è proprio quella che chiameremmo eleganza, la sua, e non ha sicuramente nulla di vistoso, ma, tanto per cominciare, Consuela non è mai in jeans, stirati o gualciti che siano. Veste con cura, sobrietà e buon gusto, gonne, abiti e calzoni su misura. Non per desensualizzarsi, si direbbe, ma per professionalizzarsi, veste come l'attraente segretaria di un prestigioso studio legale. Come la segretaria del presidente di una banca. Ha una camicetta di seta color panna sotto un blazer di buon taglio blu con i bottoni d'oro, una borsetta marrone con la patina della pelle più costosa e un paio di stivaletti alla caviglia intonati alla borsetta, e porta una sottana di maglia grigia un po' elastica che rivela le linee del suo corpo con tutta la malizia che può metterci una sottana come quella. I capelli sono acconciati con naturalezza, ma con cura. Il colorito è pallido, la bocca arcuata, anche se le labbra sono piene, e la fronte è tondeggiante, una fronte levigata di un'eleganza brancusiana. È cubana. I suoi sono prosperi cubani che stanno nel New Jersey, oltre il fiume, nella Bergen County. Ha capelli nerissimi, lustri, ma un po' grossi. Ed è grande. E una ragazzona. La camicetta di seta è slacciata fino al terzo bottone, e questo ti permette di vedere che Consuela ha due seni prepotenti, bellissimi. Noti subito il solco tra i seni. E vedi che lei lo sa. Vedi che, nonostante la compostezza, la meticolosità, lo stile cautamente soigné (o forse proprio per questo), Consuela è cosciente del proprio fascino. Viene alla prima lezione con la giacca abbottonata sopra la camicetta, ma cinque minuti dopo se l'è già tolta. Quando guardo di nuovo dalla sua parte, vedo che se l'è rimessa. In questo modo capisci che è cosciente del suo potere, ma che ancora non sa come usarlo, non sa cosa farne, non sa nemmeno quanto lo desidera. Quel corpo le riesce ancora nuovo, deve ancora metterlo alla prova, ci sta ragionando su, un po' come un ragazzo che cammina per la strada con una pistola carica e deve ancora decidere se andare in giro armato per difendersi o per iniziare una vita di delitti.

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Riesci a immaginarla, la vecchiaia? Naturalmente no. Io no. Non ci riuscivo. Non avevo idea di che cosa fosse. Non ne avevo neanche un'immagine falsata: non ne avevo alcuna immagine. E non c'è nessuno che abbia voglia di fare previsioni. Nessuno desidera affrontare queste cose prima che venga il momento. Come andrà a finire, tutto? È di rigore l'ottusità.

Comprensibilmente, ogni fase della vita piu avanzata della propria è inimmaginabile. Uno, a volte, è arrivato già a metà della fase successiva prima di rendersi conto di esservi entrato. E le fasi di avanzamento precedenti offrono certe compensazioni. Anche cosi, per molti, la parte di mezzo è coraggiante. Ma la fine? La fine è - cosa interessante - il primo pezzo di vita da cui ti senti totalmente escluso, pur essendoci dentro. Osservando minuto per minuto la propria decadenza (se si è fortunati come me), uno ha, grazie alla propria perdurante vitalità, un considerevole distacco dalla propria decadenza: se ne sente addirittura indipendente. Certo c'è, è inevitabile, un moltiplicarsi dei segni che portano a questa spiacevole conclusione; eppure, nonostante ciò, ti senti fuori. E la ferocia dell'obiettività è brutale.

Bisogna fare una distinzione tra il morire e la morte. Non è tutto un morire ininterrotto. Se si è sani e ci si sente bene, è un morire invisibile. La fine, che è una certezza, non dev'essere per forza annunciata con spavalderia. No, tu non puoi capire. L'unica cosa che capisci dei vecchi, quando non lo sei, è che sono stati segnati dal loro tempo. Ma capire solo questo li mummifica nel loro tempo, ed equivale a non capire nulla. Per quelli che non sono ancora vecchi, essere vecchio significa essere stato. Ma essere vecchio significa anche - a dispetto, in aggiunta e oltre a «essere stato» - che sei ancora. Il tuo «essere stato» è molto vivo. Tu sei ancora, e uno è ossessionato tanto dall'«essere ancora» e dalla sua pienezza quanto dall'«essere stato», dal passato. Alla vecchiaia pensa così: il fatto che sia in gioco la propria vita è una semplice realtà quotidiana. Non possiamo fare a meno di sapere che cosa ci aspetta a breve scadenza. Il silenzio da cui saremo per sempre circondati. Per il resto, non è cambiato nulla. Per il resto, si è immortali per tutto il tempo che si è al mondo.

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Pagina 38

Janie e Carolyn, con altre tre o quattro spavalde ragazzotte dell'alta borghesia, formavano la cricca delle cosiddette Ragazze di Strada. Queste ragazze non avevano nulla in comune con le donne che io avevo conosciuto fino a quel momento, e non perché fossero coperte di stracci zingareschi e girassero a piedi nudi. Detestavano l'innocenza. Non sopportavano i controlli. Non avevano paura di mettersi in mostra e non avevano paura di tramare nell'ombra. Ribellarsi alla propria condizione era tutto. Con le loro seguaci, hanno forse rappresentato, storicamente, la prima ondata di ragazze americane pienamente coinvolte nel proprio desiderio. Nessuna retorica, nessuna ideologia, solo il campo da gioco del piacere che si stende davanti agli audaci. L'audacia cresceva man mano che si rendevano conto delle possibilità che c'erano, quando capivano di non essere piu tenute d'occhio, di non essere piu subalterne al vecchio sistema o a qualunque sistema di qualunque tipo: quando si rendevano conto di poter fare qualunque cosa.

Fu una rivoluzione improvvisata, a tutta prima, la rivoluzione degli anni Sessanta; l'avanguardia studentesca era esigua, lo zero e cinquanta, forse l'uno e cinquanta per cento, ma questo non contava, perché venne subito seguita dalla parte piu vibrante della società. La cultura è sempre al traino della sua punta piu avanzata, tra le ragazze di questo campus le Ragazze di Strada di Janie, le pioniere di un cambiamento sessuale assolutamente spontaneo. Vent'anni prima, ai tempi in cui io ero studente, le università erano amministrate a perfezione. Regole ferree. Sorveglianza incontestata. L'autorità veniva da una remota fonte kafkiana - «l'amministrazione» -, e il linguaggio dell'amministrazione avrebbe potuto essere quello di sant'Agostino. Si cercava di aggirare con l'astuzia tutti questi controlli, ma fino al '64 o giú di li tutti i sorvegliati, in generale, erano ligi alla legge, membri stimatissimi di quella che Hawthorne chiamava «la classe che ama i limiti». Poi ci fu l'esplosione ritardata, l'indecoroso attacco alla normalità del dopoguerra e il consenso culturale. Tutto ciò che c'era di ribelle def1agrò, e l'irreversibile trasformazione dei giovani ebbe inizio.