Copertina
Autore Philip Roth
Titolo Ho sposato un comunista
EdizioneEinaudi, Torino, 2002 [2000], Tascabili 964 , pag. 308, dim. 120x195x19 mm , Isbn 978-88-06-16297-9
OriginaleI Married a Communist [1998]
TraduttoreVincenzo Mantovani
LettoreAngela Razzini, 2002
Classe narrativa statunitense
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Pagina 3

Il fratello maggiore di Ira Ringold, Murray, fu il mio primo insegnante d'inglese al liceo, e se legai con Ira fu grazie a lui. Nel 1946 Murray si era appena congedato dall'esercito, dove aveva prestato servizio nella Diciassettesima divisione aerotrasportata durante la battaglia delle Ardenne; nel marzo del 1945 aveva partecipato al famoso «salto del Reno» che segnò il principio della fine della guerra in Europa. Era, a quei tempi, un tipo calvo esuberante e duro, non alto come Ira, ma atletico e asciutto, sempre proteso sopra le nostre teste in uno stato di perenne vigilanza. Negli atteggiamenti e nelle pose era assolutamente naturale, ma nel parlare piuttosto prolisso e, sul piano intellettuale, quasi minaccioso. La sua passione era spiegare, chiarire, farci comprendere, col risultato che ogni argomento di cui parlavamo veniva smontato nei suoi elementi principali con una meticolosità non inferiore a quella con cui divideva le frasi sulla lavagna. Aveva un particolare talento per vivacizzare le interrogazioni, per creare un forte incanto narrativo anche quando si limitava ad analizzare e a esaminare ad alta voce, nel suo modo incisivo, ciò che leggevamo e scrivevamo.

Insieme ai muscoli e all'evidente intelligenza, il professor Ringold portava con sé in aula una carica di viscerale spontaneità che, per dei ragazzi come noi, docili ed educati al rispetto, ragazzi che dovevano ancora comprendere che obbedire alle regole del vivere civile dettate dall'insegnante non aveva nulla a che vedere con lo sviluppo mentale, fu una rivelazione. C'era piú importanza di quanto, forse, lui stesso immaginasse nell'accattivante abitudine che aveva di tirarti il cancellino quando la risposta che davi non colpiva il bersaglio. O forse no. Forse il professar Ringold sapeva benissimo che quello che i ragazzi come me avevano bisogno d'imparare non era solo come esprimersi con precisione e acquisire una piú penetrante capacità di reazione alle parole, ma come essere vivaci senza essere stupidi, come non essere troppo ben dissimulati o troppo ben educati, come cominciare a liberare l'esuberanza virile dalla rettitudine istituzionale che intimidiva soprattutto i ragazzi svegli.

Si sentiva la forza, in senso sessuale, di un insegnante liceale come Murray Ringold (maschia autorevolezza non viziata da commiserazione), e si sentiva la vocazione, in senso sacerdotale, di un insegnante liceale come Murray Ringold, che non si era perso dietro l'amorfa aspirazione americana di sfondare, e che - diversamente dagli insegnanti di sesso femminile - avrebbe potuto scegliere di fare qualunque altra cosa o quasi, e che invece aveva scelto, come lavoro della propria vita, di dedicarsi a noi. Per tutta la giornata non voleva far altro che occuparsi dei giovani che poteva influenzare, ed era dalle loro reazioni che ricavava la sua massima soddisfazione.

Non che l'impronta lasciata sulla mia idea della libertà dall'audacia del suo stile professionale fosse evidente allora; nessun ragazzo la pensava cosí, né sulla scuola, né sui professori, né sul proprio conto. L'esempio di Murray, tuttavia, doveva avere nutrito una voglia incipiente d'indipendenza sociale, e io glielo dissi allorché, nel luglio 1997, per la prima volta da quando mi ero diplomato nel 1950, lo incontrai, già novantenne, ma per tutti gli altri versi sempre uguale all'insegnante di un tempo; oggi come allora, per lui il dovere realisticamente consisteva, senza autoparodie né melodrammi, nell'impersonare davanti agli studenti il motto dell'indipendente: «Non me ne importa un cavolo»; e nell'insegnare ai suoi ragazzi che per trasgredire non occorre essere Al Capone: basta pensare. - Nella società umana, - ci insegnava il professar Ringold, - la trasgressione piú grande di tutte è pensare. - Il pen-sie-ro cri-ti-co, - diceva il professor Ringold, battendo le nocche sul piano delle cattedra per sottolineare ogni sillaba: - ecco l'estrema trasgressione -. Dissi a Murray che sentire queste cose tanto tempo prima da un tipo virile come lui - vederle dimostrate da lui - mi aveva dato l'idea piú precisa che potesse mai venirmi di cosa significava diventare grandi, anche se, da quel ragazzo provinciale, privilegiato e d'animo nobile che ero, da quel ragazzo che tanto desiderava diventare razionale, importante e libero, dovevo averla capita solo a metà.

Murray, a sua volta, mi disse tutto ciò che, da ragazzo, non sapevo e non avrei potuto sapere della vita privata di suo fratello, una grave disgrazia dai risvolti farseschi sulla quale ogni tanto si sorprendeva a rimuginare anche se Ira era morto da piú di trent'anni. - Migliaia e migliaia di americani distrutti in quegli anni, vittime della politica, vittime della storia, a causa delle proprie convinzioni, - disse Murray. - Ma non ricordo nessuno massacrato come Ira. Lo scontro non avvenne sul grande campo di battaglia americano che avrebbe scelto lui per la propria distruzione. Forse, a dispetto dell'ideologia, della politica e della storia, ogni vera catastrofe è, nel nocciolo, sempre un patetico dramma personale. Non si può criticare la vita perché qualche volta non le riesce di banalizzare la gente. Devi toglierti il cappello davanti a lei e alle tecniche di cui dispone per privare un uomo del suo significato e svuotarlo totalmente del suo orgoglio.

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Pagina 11

- Durante l'udienza osservavo Bryden Grant, sforzandomi di credere che in lui ci fosse qualcosa di piú di un uomo politico con una vendetta privata che trova nell'ossessione nazionale il mezzo per regolare un vecchio conto in sospeso. In nome della ragione, si cerca sempre un motivo piú elevato, un significato piú profondo: allora avevo ancora l'abitudine di sforzarmi di essere ragionevole anche sull'irragionevole e di cercare la complessità nelle cose semplici. Esigevo risposte dalla mia intelligenza, quando non erano affatto necessarie. Pensavo: non può essere cosí meschino e insulso come sembra. Questo non può essere che un decimo della storia. Deve avere, dentro, qualcosa di piú.

- Ma perché? La meschinità e l'insulsaggine possono esistere anche tra i potenti. Cosa potrebbe esserci di piú incrollabile della meschinità e dell'insulsaggine ? Forse che la meschinità e l'insulsaggine possono porre ostacoli alla scaltrezza e alla crudeltà? Forse che la meschinità e l'insulsaggine possono togliere a qualcuno la voglia di diventare un personaggio importante? Non occorre una visione evoluta della vita per amare il potere. Non occorre una visione evoluta della vita per andare al potere. Una visione evoluta della vita può, anzi, essere il peggiore impedimento, mentre non avere una visione evoluta può essere il piú splendido vantaggio.

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Pagina 32

Mio padre mi prendeva sul serio come i Ringold, ma non con l'ardimento politico di Ira, non con l'acume letterario di Murray, non - soprattutto - col loro apparente disinteresse per il mio destino sociale, per ciò che sarei diventato, un bravo ragazzo o il suo contrario. I Ringold erano l'uno-due del boxeur che prometteva d'iniziarmi al grande spettacolo, i miei primi passi sulla strada di capire cosa ci vuole per essere un uomo. I Ringold mi obbligavano a un livello di rigore che trovavo appropriato all'individuo che ero in quel momento. Per loro il problema non consisteva nell'essere un bravo ragazzo. L'unico vero problema erano le mie convinzioni. Ma bisogna anche dire che la loro responsabilità non era quella di un padre, che ha il dovere di tenere il proprio figlio lontano dai trabocchetti. Il padre deve preoccuparsi dei trabocchetti come non è tenuto a farlo un insegnante. Deve preoccuparsi della condotta di suo figlio, deve preoccuparsi d'integrare il suo piccolo Tom Paine. Ma quando il piccolo Tom Paine è stato introdotto nel mondo degli adulti e il padre tenta ancora di educarlo come un ragazzo, questo padre è finito. Certo, continua a preoccuparsi dei trabocchetti: se non lo facesse, commetterebbe un errore. Ma è finito in ogni caso. Il piccolo Tom Paine non ha altra scelta che cancellarlo dai propri pensieri, tradire il padre e procedere baldanzosamente fino a cadere nel primo trabocchetto. E poi, tutto da solo (dando una vera unità alla propria esistenza), passare di trabocchetto in trabocchetto per il resto dei suoi giorni, fino alla tomba che, pur non avendo altri vantaggi, è almeno l'ultimo trabocchetto nel quale si possa cadere.

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Pagina 38

Il mio tema era il destino dell'uomo della strada, dell'uomo qualunque: il «piccolo uomo» di cui lo scrittore radiofonico Norman Corwin aveva tessuto gli elogi in Su una nota di trionfo, una commedia di sessanta minuti che era stata trasmessa dalla Cbs la sera in cui era finita la guerra in Europa (e poi ancora, a grande richiesta, otto giorni dopo) e che m'infuse allegramente quelle aspirazioni letterarie salvifiche che si propongono, mediante la scrittura, di raddrizzare i torti del mondo intero. Non m'interessa giudicare, oggi, se una cosa che tanto amai quanto amai Su una nota di trionfo era o non era arte; essa mi permise di fare il primo assaggio della forza evocatrice dell'arte e contribuí a consolidare le mie idee su quello che avrebbe dovuto essere, secondo la mia volontà e le mie aspettative, lo scopo del linguaggio dell'artista letterario: serbare come reliquie le lotte dei diseredati. (E m'insegnò, contrariamente a ciò su cui insistevano i miei professori, che potevo cominciare una frase con una «E»).

La commedia di Corwin formalmente era slegata, senza trama: «sperimentale», come spiegai ai miei genitori, il pedicure e la casalinga. Era scritta in uno stile colloquiale e allitterativo che poteva derivare in parte da Clifford Odets e in parte da Maxwell Anderson, dagli sforzi dei drammaturghi americani degli anni Venti e Trenta di creare per il palcoscenico un idioma locale riconoscibile, naturalistico ma con tocchi lirici e un sottofondo di serietà, un volgare politicizzato che, nel caso di Norman Corwin, combinava i ritmi della lingua di tutti i giorni con una lieve ampollosità letteraria fino a raggiungere un tono che mi parve, a dodici anni, democratico nello spirito ed eroico nello scopo, la controparte verbale dei murales della Work Projects Administration. Whitman voleva l'America per i barbari, Norman Corwin la voleva per il piccolo uomo: che era poi rappresentato - guarda un po' - dagli americani che avevano combattuto la guerra patriottica e che ora tornavano a casa in un paese che li acclamava. I piccoli uomini non erano altro che gli stessi americani! Il «piccolo uomo» di Corwin era la versione americana di «proletariato» e, mi sembra di capire, la rivoluzione combattuta e vinta dalla classe lavoratrice americana era, in realtà, la seconda guerra mondiale, quella cosa grande di cui, per quanto piccoli, facevamo tutti parte, la rivoluzione che confermava la realtà del mito di un carattere nazionale da tutti condiviso.

Me compreso. Ero un ragazzo ebreo, su questo non c'è dubbio, ma non m'interessava condividere il carattere dell'ebraismo. Non sapevo nemmeno, chiaramente, cosa fosse. E non ci tenevo a saperlo. Io volevo condividere il carattere nazionale. Niente di piú naturale, pareva, per i miei genitori nati in America; niente di piú naturale per me; e nessun metodo avrebbe potuto sembrarmi piú profondo del parteciparvi attraverso la lingua parlata da Norman Corwin, un distillato linguistico dei comuni entusiasmi suscitati dalla guerra, la nobile poesia popolare che fu la liturgia della seconda guerra mondiale.

La storia era stata ridotta e personalizzata, l'America era stata ridotta e personalizzata: per me, questo era l'incanto non soltanto di Norman Corwin ma dei tempi.

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Pagina 73

Al buio ascoltammo, non piú io lui o lui me, ma insieme Dubinuska. Era proprio come l'aveva descritta Murray: una bella canzone popolare, funebre e struggente, un po' simile a un inno. Solo che, per il crepitio che mandava la logora superficie del vecchio disco (un suono ciclico non diverso da certi familiari, naturali rumori notturni della campagna estiva), la canzone, sembrava arrivare fino a noi da un passato storico remoto. Non era affatto come starsene distesi sulla mia veranda ad ascoltare i concerti del sabato sera in diretta da Tanglewood. «Oh, issa! Oh, issa!» veniva da un luogo e da un tempo distanti spettrale residuo di quegli estatici giorni rivoluzionari in cui tutti coloro che volevano cambiare il mondo programmaticamente, ingenuamente (follemente, imperdonabilmente), sottovalutavano il modo in cui l'umanità fa scempio delle sue idee piú mobili e le trasforma in una tragica farsa. Oh, issa! Oh, issa! Come se l'astuzia, la debolezza, la corruzione e la stupidità umana non avessero la minima probabilità di successo contro la collettività, contro la forza della gente che tira tutta insieme per rinnovare la propria vita e abolire l'ingiustizia. Oh, Issa!

Quando Dubinuska terminò, Murray tacque e io ripresi a sentire tutto ciò che il mio orecchio aveva escluso mentre ascoltavo le parole della canzone: il gracidare nasale e vibrante delle rane, i porciglioni della Blue Swamp - la palude piena di canneti a est della mia casa - che intonavano energicamente il loro canto metallico e gli scriccioli che facevano l'accompagnamento. E le strolaghe, i pianti e le risate di quei soggetti maniaco-depressivi che sono le strolaghe. Ogni due o tre minuti c'era il nitrito di un lontano barbagianni, e per tutto il tempo, senza posa, l'orchestra d'archi dei grilli del New England occidentale continuò a suonare un suo grillesco Bartók. Un procione pigolava nel bosco vicino e, man mano che passava il tempo, ebbi addirittura l'impressione di udire i castori che rodevano un tronco d'albero là dove i tributari di quella regione silvestre alimentavano il mio stagno. Alcuni cervi, ingannati dal silenzio, dovevano essersi avvicinati troppo alla casa, perché tutt'a un tratto - avendo avvertito la nostra presenza - ecco risuonare celermente il codice Morse della loro fuga: gli sbuffi dalle froge, il rumore sordo dell'arresto, lo scalpitio, il tonfo degli zoccoli, i balzi di quella corsa pazza. I loro corpi spariscono flessuosi nel folto dei cespugli e poi, ormai quasi impercettibili all'orecchio, i cervi cercano scampo nella fuga. Si sente solo il pesante respiro di Murray, l'eloquenza di un vecchio che emette regolarmente il suo fiato.

[...]

- Ti stavo dicendo... Ti stavo dicendo... Sí. Che quando Ira fu espulso dalla radio Lorraine ci rimase malissimo. Aveva appena nove o dieci anni, ma la sua indignazione fu profonda. Dopo che Ira venne licenziato perché era comunista, non voleva piú salutare la bandiera.

- La bandiera americana? Dove?

- A scuola, - disse Murray. - In quali altri posti si saluta la bandiera? L'insegnante cercò di difenderla, la prese in disparte e le disse: devi salutare la bandiera. Ma la bambina non voleva farlo. Era piena di rabbia. La genuina rabbia dei Ringold. Amava suo zio. Aveva preso da lui.

- Cosa accadde?

- Facemmo una lunga chiacchierata e lei riprese a salutare la bandiera.

- Cosa le dicesti?

- Le dissi che anch'io amavo mio fratello. Che neanch'io lo trovavo giusto. Le dissi che la pensavo come lei, che era una gravissima ingiustizia licenziare una persona per le sue convinzioni politiche. Che io credevo nella libertà di pensiero. Nell' assoluta libertà di pensiero. Ma le dissi anche che non valeva la pena d'impuntarsi su una cosa simile. Non era un problema importante. Cosa ottieni? Cosa vinci? Le dissi: non iniziare una battaglia che sai di non poter vincere, che non vale neanche la pena di vincere. Le dissi quello che cercavo di dire a mio fratello sul problema dei discorsi troppo accesi, quello che avevo cercato di spiegargli da quando era piccolo, senza grandi risultati. Non è l'essere arrabbiati che conta, è l'essere arrabbiati per le cose giuste. Le dissi: guardalo dalla prospettiva darwiniana. La rabbia serve a renderti efficiente. Questa è la sua funzione per la sopravvivenza. Ecco perché ti è stata data. Se ti rende inefficiente, mollala come una patata bollente.

Come quando era il mio insegnante una cinquantina d'anni prima, Murray Ringold ce la metteva tutta, trasformava la lezione in uno show, dozzine di trucchi per farci stare attenti. Insegnare era per lui un'occupazione appassionante, e lui era un uomo capace di entusiasmare. Ma ora, pur non essendo affatto un vecchio rincoglionito, non trovava piú necessario farsi in quattro per chiarire quello che voleva dire; anzi, era ormai molto vicino a una condizione di totale indifferenza. Il suo tono era piú o meno invariato, blando; e lui non faceva nessun tentativo di metterti sulla buona strada (o di sviarti) con un'eccessiva espressività della voce, della faccia o delle mani, nemmeno quando cantava «Oh, issa! Oh, issa!».

Il suo cranio aveva, ormai, un'aria molto fragile e minuta. Eppure dentro c'erano, ammassati, novant'anni del nostro passato. C'era un mucchio di cose, là dentro. C'erano tutti i morti, tanto per cominciare, con le loro azioni, buone e cattive, convergenti verso tutte le domande alle quali era impossibile rispondere, quelle cose delle quali non si può mai essere sicuri... Il che finiva per assegnargli un arduo compito: giudicare equamente, narrare questa storia senza troppe distorsioni.

Il tempo, si sa, passa molto in fretta quando si è verso la fine, ma Murray era ormai da tanto tempo verso la fine che, quando parlava come parlava, pazientemente, intelligentemente, con una certa delicatezza (interrompendosi solo saltuariamente per assaporare il suo martini), io avevo l'impressione che per lui il tempo si fosse dissolto, che non passasse né in fretta né lentamente, che lui non vivesse piú nel tempo ma esclusivamente nella propria pelle. Come se quella vita attiva, faticosa, estroversa d'insegnante coscienzioso e di cittadino e di padre di famiglia fosse stata una lunga battaglia per raggiungere la serenità. Diventare vecchi decrepiti non era insopportabile, come non lo era l'insondabilità dell'oblio; nessuna delle due cose significava decadere fino a ridursi in niente. Tutto era stato sopportabile, anche disprezzando, senza remissione, il disprezzabile.

In Murray Ringold, pensavo, l'insoddisfazione umana ha trovato pane per i suoi denti. Murray è sopravvissuto all'insoddisfazione. Questo è ciò che resta dopo che tutto è passato, la disciplinata tristezza dello stoicismo. Questa è la fase di raffreddamento. Per tanto tempo tutto è cosí caldo, e ogni cosa, nella vita, è cosí intensa; poi, poco a poco, il caldo se ne va, comincia il raffreddamento; e alla fine rimangono le ceneri. L'uomo che per primo mi ha insegnato a boxare con un libro ora è tornato per dimostrarmi come si boxa con la vecchiaia.

E di un'arte nobile si tratta, nobile e sorprendente, perché nulla t'insegna meno, sulla vecchiaia, che aver vissuto una vita gagliarda e vigorosa.

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Pagina 172

- La politica permeava stupidamente ogni cosa. Questo fu ciò che pensai mentre ero a bordo del taxi. Le ideologie che riempiono la testa della gente e compromettono una lucida osservazione della vita. Ma fu solo tornando a Newark, quella notte, che cominciai a capire come quelle parole si applicassero all'impiccio nel quale mio fratello si trovava con la moglie. Ira non era semplicemente un fesso incapace di resistere davanti alle sofferenze di sua moglie. Certo, anche lui poteva cedere agli impulsi dai quali veniamo assaliti, quasi tutti, quando qualcuno con cui siamo in intimità comincia a crollare; certo, anche lui poteva arrivare a formarsi un'idea sbagliata di come avrebbe dovuto agire. Ma ciò che accadde non fu questo. Solo mentre tornavo a casa in macchina capii che ciò che era accaduto non era affatto questo.

- Non dimenticare che Ira apparteneva al Partito comunista, anima e cuore. Ira obbediva a ogni cambiamento di centottanta gradi della sua linea politica. Ira ingoiò la giustificazione dialettica di tutte le scelleratezze di Stalin. Ira appoggiò Browder quando Browder era il loro messia americano, e quando Mosca staccò la spina ed espulse Browder, e Browder, dalla sera alla mattina, diventò un nemico di classe e un socialimperialista, Ira non battè ciglio: appoggiò Foster e la linea fosteriana secondo cui l'America aveva imboccato la strada del fascismo. Riuscí a soffocare i propri dubbi e a convincersi che l'obbedienza a tutte le giravolte del partito contribuiva a creare, in America, una società giusta e imparziale. Ira presumeva di essere virtuoso. Nel complesso, io ero convinto che lo fosse: un altro innocente cooptato in un sistema che non capiva. Difficile credere che un uomo che attribuiva tanta importanza alla propria libertà potesse permettere al dogmatismo di dominare i suoi pensieri. Invece mio fratello si umiliò intellettualmente nello stesso modo in cui si umiliarono tutti. Politicamente ingenui. Moralmente ingenui. Non volevano guardare in faccia la realtà. Chiudevano gli occhi, gli Ira, davanti all'origine di ciò che vendevano e celebravano. Ecco una persona la cui forza piú grande consisteva nella capacità di dire di no. Non aveva nessuna paura di dire di no e te lo diceva in faccia. Ma al partito non seppe mai dire altro che «sí».

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