Copertina
Autore Philip Roth
Titolo La controvita
EdizioneEinaudi, Torino, 2010, Supercoralli , pag. 400, cop.ril.sov., dim. 14x22x2,6 cm , Isbn 978-88-06-17896-3
OriginaleThe Counterlife [1986]
TraduttoreVincenzo Mantovani
LettoreRenato di Stefano, 2011
Classe narrativa statunitense , paesi: Israele
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Indice


  3  Capitolo primo.    Basilea

 60  Capitolo secondo.  Giudea

170  Capitolo terzo.    In volo

221  Capitolo quarto.   Gloucestershire

309  Capitolo quinto.   Cristianità



 

 

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Pagina 3

Capitolo primo

Basilea


Da quando il medico di famiglia, durante un'ordinaria visita di controllo, aveva scoperto qualcosa di anormale nel tracciato del suo elettrocardiogramma, e lui in ventiquattr'ore si era sottoposto alla coronarografia che aveva rivelato l'entità del male, Henry era stato curato con successo grazie a certi farmaci che gli avevano permesso di lavorare e continuare a fare esattamente la vita di prima. Non lamentava nemmeno il dolore al petto o l'affanno che il suo medico si sarebbe tranquillamente aspettato di trovare in un paziente con un'ostruzione arteriosa cosí avanzata. Henry non aveva avuto alcun sintomo prima della visita che rivelò l'anomalia, e la situazione non cambiò durante l'anno che precedette la decisione di farsi operare: niente sintomi tranne un terribile effetto collaterale prodotto dalle stesse medicine che stabilizzavano la malattia e riducevano in modo sostanziale il rischio di un attacco cardiaco.

Il problema cominciò due mesi dopo l'inizio della cura. – L'ho sentito mille volte, – disse il cardiologo quando Henry telefonò per riferirgli quello che gli stava capitando. Il cardiologo, che era un valido e vigoroso professionista non ancora quarantenne, proprio come lui, non avrebbe potuto essere piú comprensivo. Avrebbe provato a ridurre la dose in modo che la medicina, un betabloccante, continuasse a controllare il disturbo coronarico e a ridurre l'ipertensione senza interferire con l'attività sessuale di Henry. Con un accurato dosaggio del farmaco, disse, a volte è possibile arrivare a «un compromesso».

Fecero esperimenti per sei mesi, prima col dosaggio e, quando questo non funzionò, con altre marche del medicinale, ma non servi a nulla: Henry non si svegliava piú con la solita erezione mattutina e non era abbastanza potente per avere rapporti sessuali, né con la moglie, Carol, né con la propria assistente, Wendy, che era certa di essere lei, e non il medicinale, la responsabile dell'allarmante cambiamento. Alla fine della giornata, chiusa la porta dell'anticamera e abbassate le tapparelle, Wendy per eccitarlo ricorreva a tutti i suoi artifici, ed era una faticaccia per entrambi, ma una fatica sprecata, e quando lui le disse che era inutile e la pregò di smettere, e per farla smettere alla fine fu addirittura costretto ad aprirle con la forza le mascelle, lei continuò a essere convinta, piú di prima, che era colpa sua. Una sera che scoppiò in lacrime e gli disse che sapeva che era solo questione di tempo e poi lui l'avrebbe mollata per cercarsi un'altra, Henry le diede uno schiaffo. Se fosse stato il gesto di un bruto, di un violento preso da orgasmica frenesia, Wendy sarebbe stata accomodante, com'era per natura; era invece una manifestazione non di estasi, ma di assoluto sfinimento davanti alla sua cecità. Non capiva, quella stupida! Però, naturalmente, non capiva neanche lui, non riusciva ancora a orientarsi nella confusione in cui questa perdita poteva gettare la persona cui era toccato in sorte di adorarlo.

Subito dopo, fu sopraffatto dal rimorso. Stringendosela al petto, assicurò a Wendy, che piangeva ancora, che lei era praticamente l'unica cosa alla quale pensasse, ora, ogni giorno: anzi (ma questo non poteva dirglielo), se gli avesse permesso di trovarle un posto da un altro dentista, Wendy non gli avrebbe piú ricordato ogni cinque minuti ciò che lui non poteva piú avere. C'erano ancora dei momenti, nelle ore d'ufficio, in cui Henry le faceva una carezza di nascosto o la guardava con l'antica bramosia mentre lei si muoveva qua e là nei calzoni attillati e nella giacca bianca della sua tenuta da lavoro, ma poi gli venivano in mente le pilloline rosa per il cuore e ripiombava nella disperazione. Presto, quella ragazza che lo adorava, e che avrebbe fatto di tutto per ridargli la potenza perduta, cominciò a ispirargli le piú diaboliche fantasie, nelle quali Henry immaginava di vederla posseduta, sotto i suoi occhi, da altri tre, quattro o anche cinque uomini.

Non riusciva a dominarle, queste fantasie su Wendy e i suoi cinque uomini senza volto, e tuttavia al cinema con Carol ora preferiva abbassare le palpebre e riposare gli occhi fino alla fine delle scene d'amore. Non sopportava la vista delle pubblicazioni piene di donne nude ammonticchiate nel salone del barbiere. Doveva fare un grosso sforzo su se stesso per non alzarsi e lasciare la tavola quando, durante una cena, uno dei loro amici si metteva a scherzare sul sesso. Cominciò a provare le emozioni di una persona tutt'altro che attraente, un disdegno puritano impaziente e risentito per tutti gli uomini virili e le donne appetitose che si lasciavano assorbire dai loro giochi erotici. Il cardiologo, dopo avergli prescritto quel farmaco, aveva detto: – Non pensi piú al suo cuore, adesso, e viva –; ma era una cosa impossibile, perché cinque giorni la settimana, dalle nove alle cinque, Henry non poteva dimenticare Wendy.

Tornò dal medico per parlare seriamente di un possibile intervento chirurgico. Anche quello era un discorso che il cardiologo aveva già sentito mille volte. Con pazienza gli spiegò che preferivano non operare soggetti asintomatici nei quali la malattia mostrava di essere stata stabilizzata dai farmaci. Se avesse finito per scegliere l'opzione chirurgica, Henry non sarebbe stato il primo a trovarla preferibile a un numero imprecisabile di anni d'inattività sessuale; nondimeno, il dottore consigliava caldamente di aspettare e vedere in che modo il passare del tempo incidesse sul suo «adattamento». Benché Henry non fosse il peggiore candidato a un bypass, l'ubicazione dei trapianti necessari non ne faceva neppure il candidato ideale. – Che significa? – domandò Henry. – Significa che anche nelle migliori circostanze questa operazione non è un picnic, e le sue circostanze non sono le migliori. Qualcuno ci lascia la pelle, Henry. Si rassegni.

Queste parole lo spaventarono a tal punto che, tornando a casa in macchina, ricordò severamente a se stesso tutti coloro che per necessità vivono senza donne, e in circostanze assai piú tormentose delle sue: uomini in prigione, uomini in guerra... Sennonché di lì a poco stava già pensando a Wendy, evocando tutte le posizioni in cui poteva essere penetrata dall'erezione che non aveva piú, sbavando per lei come un carcerato che sognasse a occhi aperti, ma senza poter ricorrere, nel suo caso, alla toppa brutale che impedisce al recluso di andar fuori di testa. Ricordò a se stesso come viveva felice senza donne da ragazzo: era mai stato piú contento che negli anni quaranta, durante quelle estati al mare? Immagina di avere ancora undici anni... Ma non funzionava meglio che fingere di stare scontando una condanna a Sing Sing. Ricordò a se stesso la terribile sregolatezza generata da desideri incontrollabili: le trame, le brame, l'atto folle e impetuoso, quel sognare l'altra senza posa, e quando una di queste altre ammaliatrici diventa l'amante clandestina, gli intrighi, gli inganni e le ansietà. Ora Henry poteva essere per Carol un marito fedele. Non ci sarebbe stato piú bisogno di mentire: non avrebbe piú avuto nessuna ragione per farlo. Avrebbero potuto godersi ancora una volta quello che era stato un matrimonio semplice, onesto e fiducioso prima che nello studio, dieci anni prima, entrasse Maria con una corona da aggiustare.

All'inizio era rimasto cosí colpito dall'abito di jersey di seta verde, dagli occhi turchese e dalla raffinatezza europea di quella donna che a malapena era riuscito ad articolare i discorsi frivoli in cui di solito era cosí esperto, e men che meno a fare delle avance mentre Maria, seduta in poltrona, apriva obbediente la bocca. Dal formalismo con cui si trattarono durante le sue quattro visite, Henry non avrebbe mai potuto immaginare che alla vigilia del suo ritorno a Basilea, dieci mesi dopo, lei gli avrebbe detto: – Non avrei mai creduto di poter amare due uomini, – e che la loro separazione sarebbe stata cosí atroce: tutto era stato talmente nuovo per entrambi che avevano trasformato l'adulterio in qualcosa di assolutamente verginale. A Henry non era mai passato per la testa, finché non era venuto a dirglielo Maria, che un uomo come lui potesse andare a letto con tutte le donne attraenti della città. Mancava di ogni vanità sessuale ed era timidissimo, un giovanotto ancora in gran parte animato dal senso della dignità che aveva assorbito, interiorizzato e mai seriamente messo in dubbio. Di solito, piú la donna era attraente, piú riservato era Henry: al cospetto di una sconosciuta che trovava particolarmente desiderabile, diventava disperatamente, rigidamente formale, perdeva ogni spontaneità e spesso non riusciva nemmeno a presentarsi senza arrossire. Ecco l'uomo che Henry era stato da marito fedele; ecco perché era stato un marito fedele. E adesso era condannato a tornare a esserlo.

Il peggio dell'adattamento al farmaco risultò essere l'adattamento stesso. Poter vivere senza sesso fu per lui uno choc. Si poteva fare, lo faceva, e questo lo gettò nello sconforto: proprio come un tempo a gettarlo nello sconforto era stata l'incapacità di farne a meno. Adattarsi significava rassegnarsi a essere cosí, e lui si rifiutava di essere cosí, e ridursi a usare quell'eufemismo, «cosí», lo demoralizzava ulteriormente. Eppure, l'adattamento procedeva cosí bene che, otto o nove mesi dopo che il cardiologo lo aveva esortato a non correre a farsi operare prima di aver constatato che effetto aveva il passare del tempo, Henry non ricordava neanche piú cosa fosse un'erezione. Se ci provava, gli venivano in mente le figure dei vecchi fumetti pornografici, gli empi «giornalacci» che avevano rivelato ai ragazzi della sua generazione la parte in ombra della carriera di Dixie Dugan. Era tormentato da visioni mentali di cazzi smisurati e dalle fantasie di Wendy con tutti quegli uomini. Immaginava che glieli stesse succhiando. Immaginava di succhiarglieli lui stesso. Cominciò segretamente a idolatrare tutti gli uomini potenti come se lui, come uomo, non contasse piú nulla. A dispetto del fisico atletico, dell'alta statura e del bel colorito scuro, sembrava essersi trasformato in una notte da trentenne in ottuagenario.

Un sabato mattina, dopo aver detto a Carol che andava a fare una passeggiata sulle Reservation Hills – «per stare un po' solo», le spiegò con aria cupa – prese la macchina e andò a trovare Nathan a New York. Non gli telefonò prima di partire perché voleva avere la possibilità di fare marcia indietro e tornare a casa se all'ultimo momento avesse deciso che non era una buona idea. Non erano piú gli adolescenti che in camera da letto si scambiavano spassosi segreti: dopo la morte dei genitori, non erano piú nemmeno come fratelli. Ma Henry aveva un bisogno disperato di confidarsi con qualcuno. Carol sapeva solo dirgli che non doveva neanche pensarci a farsi operare, se questo significava correre il minimo rischio di lasciare i loro tre figli senza padre. La malattia era sotto controllo e a trentanove anni Henry restava un uomo arrivato da ogni punto di vista. Com'era possibile che questo avesse improvvisamente tanta importanza se ormai erano anni che di rado facevano l'amore con autentica passione? Lei non si lamentava, era una cosa che capitava a tutti: a quanto ne sapeva, non c'era un matrimonio che facesse eccezione. – Ma io ho solo trentanove anni, – ribatteva Henry. – Anch'io, – diceva lei, mostrandosi ragionevole e sicura per cercare di aiutarlo, – ma dopo diciotto anni non pretendo che il matrimonio sia ancora una torrida avventura sentimentale.

Era la cosa piú crudele che Henry potesse immaginare, una donna che dice al marito: «Tanto, che bisogno abbiamo del sesso?» La disprezzò per averlo detto, la odiò con tanta ferocia che decise mentalmente lí per lí di andare a parlare con Nathan. Odiava Carol, odiava Wendy, se Maria fosse stata a portata di mano avrebbe odiato anche lei. E odiava gli uomini, gli uomini ai quali bastava sfogliare «Playboy» per avere enormi erezioni.

Trovò un garage sopra l'Ottantesima Est e da una cabina all'angolo della strada telefonò a casa di Nathan, leggendo, mentre il telefono squillava, ciò che era stato scarabocchiato da qualcuno sui resti di un elenco di Manhattan incatenato al cubicolo: «Vuoi venirmi in bocca? Melissa 879-0074». Riattaccando prima che Nathan potesse rispondere, fece l'879-0074. Rispose un uomo. – Per Melissa, – disse Henry, e riattaccò. Questa volta, dopo aver fatto il numero di Nathan lasciò che il telefono squillasse una ventina di volte.

Non puoi lasciarli senza padre.

Nell'elegante casa di arenaria di Nathan, solo nell'atrio al pianterreno, gli scrisse un biglietto che stracciò immediatamente. In un albergo all'angolo della Quinta trovò un telefono pubblico e fece l'879-0074. A dispetto del betabloccante, che come sapeva avrebbe dovuto impedire all'adrenalina di sovraccaricare il cuore, il suo stava battendo all'impazzata come il cuore di un essere scatenato: in quel momento per auscultarlo il dottore non avrebbe avuto bisogno dello stetoscopio. Henry si strinse il petto con le mani, contando alla rovescia in attesa del colpo finale, finché al telefono rispose una voce che sembrava quella di una bambina. – Pronto?

– Melissa?

– Sí.

– Quanti anni hai?

– Chi parla?

Riattaccò appena in tempo. Altre cinque, dieci, quindici di quelle sonore pulsazioni e un attacco cardiaco avrebbe sistemato tutto. Piano piano il respiro si regolarizzò e il suo cuore prese a somigliare piú a una ruota che girasse a vuoto nella melma in cui si era impantanata.

Sapeva che avrebbe dovuto telefonare a Carol per non farla stare in pensiero, ma invece attraversò la strada per andare a Centrai Park. Gli avrebbe dato un'ora; se Nathan non fosse rincasato in tempo, avrebbe lasciato perdere l'operazione e sarebbe tornato a casa. Non poteva lasciarli senza padre. Imboccando il sottopassaggio alle spalle del museo, vide all'altro capo un ragazzo bianco sui diciassette anni che teneva in equilibrio su una spalla una grossa radio portatile ed entrava pigramente nel tunnel sui pattini a rotelle. Il volume era al massimo: Bob Dylan che cantava: «Lay, lady, lay... lay across my big brass bed...». Proprio ciò che Henry aveva bisogno di sentire. Come se avesse incontrato per caso un vecchio amico, il ragazzo sorridente levò un pugno in aria e scivolando di fianco a Henry urlò: – Ridateci gli anni sessanta, capo! – La sua voce echeggiò cupamente nell'ombra del tunnel, e abbastanza affabilmente Henry rispose:– Sono d'accordo, amico –, ma quando il ragazzo lo ebbe sorpassato non riuscí piú a trattenersi e alla fine si mise a piangere. Ridateci tutto, pensò, i sessanta, i cinquanta, i quaranta: ridateci quelle estati sulle coste del New Jersey, il profumo dei panini freschi nella drogheria al seminterrato del Lorraine Hotel, la spiaggia dove vendevano il pesce serra scaricato dai pescherecci del mattino... Fermo dentro quel tunnel alle spalle del museo, rispolverò da solo i ricordi piú innocenti dei mesi piú innocenti dei suoi anni piú innocenti, ricordi senza importanza estaticamente rievocati e appiccicati a lui come il sedimento organico che gli occludeva le arterie che portavano al cuore. Il bungalow a due isolati dalla passeggiata col rubinetto di fianco alla porta per lavarsi la sabbia dai piedi. Il chiosco con la bilancia alla sala giochi di Asbury Park. Sua madre che si affaccia al davanzale della finestra mentre comincia a piovere e tira dentro i panni stesi sul filo. Aspettare l'autobus al tramonto per tornare a casa dopo il film del sabato pomeriggio. Sí, l'uomo a cui accadeva tutto questo era stato il ragazzo che aspettava il 14 col fratello maggiore. Non riusciva a capacitarsene: tanto sarebbe valso, cercar di capire la fisica delle particelle. Ma se è per questo non riusciva nemmeno a credere che l'uomo cui stava accadendo tutto questo era lui e che, qualunque prova quest'uomo dovesse sostenere, doveva sostenerla pure lui. Ridatemi il passato, il futuro, ridatemi il presente: ho solo trentanove anni!

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Dietro di loro scendevano le scale due uomini anziani che Nathan non vedeva da moltissimo tempo: Herbert Grossman, l'unico profugo europeo del clan degli Zuckerman, e Shimmy Kirsch, che qualche anno prima il padre di Nathan aveva definito «il cognato Neanderthal» e che probabilmente era il piú stupido di tutto il parentado. Ma siccome era anche il piú ricco, veniva da chiedersi se la stupidità di Shimmy non fosse un po' una dote; guardandolo, uno si domandava se in effetti la voglia di vivere e la forza necessaria per arrivare al successo non potessero essere, in sostanza, assolutamente stupide. Anche se la sua grande mole era stata erosa dagli anni e il viso profondamente solcato mostrava tutti i segni di una vita di fatiche, Shimmy era ancora piú o meno la persona che Nathan ricordava da quando era piccolo: un'enorme e inattaccabile nullità nel commercio all'ingrosso di prodotti agricoli, uno di quei figli rapaci delle vecchie famiglie di immigrati che non indietreggiano davanti a nulla pur essendo, fortunatamente per la società, schiavi dei piú atavici tabú. Per il padre di Zuckerman, il fido podologo, la vita era stata una tenace ascensione dall'abisso della povertà del padre immigrato, e non soltanto per migliorare la propria sorte, ma in fondo per salvare tutti gli altri nella veste di messia della famiglia. Shimmy non aveva mai sentito il bisogno di avere il deretano tanto lindo. Non che ambisse necessariamente a degradarsi. Tutta la sua costanza gli era servita per diventare ciò che era nato per essere e che gli avevano insegnato a diventare: Shimmy Kirsch. Niente domande, niente scuse, niente cazzate tipo «chi sono», «cosa sono», «dove sono», non un'oncia di sfiducia in se stesso né il minimo impulso verso una distinzione spirituale; piuttosto, come tanti della sua generazione usciti dai vecchi bassifondi ebraici di Newark, un uomo che sembrava professare lo spirito dell'opposizione pur restando in completa armonia con gli usi e i costumi della terra.

Quando Nathan si era innamorato dell'alfabeto e a colpi di gare d'ortografia cominciava a farsi strada verso la celebrità, i tipi come Shimmy lo avevano già spinto a domandarsi se il vero stravagante in realtà non fosse lui, specie quando sentiva raccontare dei modi famigerati e tutt'altro che intelligenti con cui battevano trionfalmente la concorrenza. Diversamente dal padre ammirevole che per assurgere alla dignità professionale aveva scelto la strada delle scuole serali, questi Shimmy cosí squallidamente ordinari e banali mostravano tutta la spietatezza del rinnegato, strappando con i denti un pezzo di carne dalla cruda culatta della vita per poi trascinarselo dietro dappertutto, mentre il senso di ogni altra cosa impallidiva al cospetto della carne sanguinolenta tra le loro fauci. Erano assolutamente privi di saggezza; totalmente saturi di sé, e di sé completamente immemori, non avevano alcunché su cui basarsi tranne la piú elementare risolutezza, e tuttavia grazie a quell'unica dote erano andati piuttosto lontano. Anche loro avevano fatto tragiche esperienze e subivano perdite che non erano certo cosí insensibili da non patire: essere quasi ammazzati di botte era la loro specialità, tanto quanto ammazzare di botte. Il fatto era che il dolore e la sofferenza non li distoglievano neanche per un momento dalla loro ferma intenzione di vivere. Per l'assenza di dubbi e di ogni sfumatura, del senso di futilità o della disperazione di un comune mortale, a volte si era tentati di considerarli inumani, eppure erano uomini di cui era impossibile dire che fossero altro che umani: erano proprio ciò che è veramente umano. Mentre suo padre inflessibilmente aspirava a impersonare la parte migliore dell'umanità, questi Shimmy erano semplicemente la spina dorsale della razza umana.

Shimmy e Grossman stavano discutendo della politica estera di Israele. - Bombardarli, - disse Shimmy in tono secco, - bombardare quei bastardi degli arabi finché non gridano basta. Cosa vogliono, tirarci di nuovo la barba? Piuttosto la morte!

Essie, scaltra, accorta, lucida, una sopravvissuta di tutt'altro genere, gli disse: - Sai perché io faccio elargizioni a Israele?

Shimmy la guardò, indignato. - Tu? Se non hai mai tirato fuori un centesimo in vita tua!

- Sai perché? - chiese lei rivolta a Grossman, che era una spalla molto migliore.

- Perché? - disse Grossman.

- Perché in Israele circolano le migliori barzellette antisemite. Si sentono migliori barzellette antisemite a Tel Aviv che in Collins Avenue.

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Nel soggiorno qualcuno gli stava dicendo: - Sa, io ho cercato di interessare suo fratello alla crionica... Non che questo possa essere di conforto, ormai.

- Davvero?

- Non sapevo nemmeno che era ammalato. Sono Barry Shuskin. Sto cercando di mettere in piedi un centro di crionica qui nel New Jersey, e quando gliene ho parlato Henry si è messo a ridere. Uno col mal di cuore, che non riesce piú a scopare, e non vuol dare nemmeno un'occhiata all'opuscolo che gli ho portato. Era una cosa troppo bizzarra per un razionalista come lui. Nei suoi panni, non sarei stato tanto sicuro. Trentanove anni, e buonanotte... Questo sí che è bizzarro.

Shuskin era un cinquantenne dall'aria giovanile: altissimo, calvo, con un pizzo nero e un eloquio martellante, un uomo vigoroso con molte cose da dire, che Zuckerman sulle prime prese per un avvocato, un civilista, o magari una sorta di aggressivo dirigente d'azienda. Saltò fuori che era un collega di Henry, un dentista nello stesso complesso di uffici la cui specialità era impiantare denti, ancorare denti fatti su misura alla mascella invece di montare ponti o dentiere. Quando gli impianti erano troppo complicati o gli facevano perdere troppo tempo nella sua attività di dentista generico, Henry passava il lavoro a Shuskin, che era specializzato anche nella ricostruzione della bocca delle vittime del cancro e di incidenti. - Lei si intende di crionica? - chiese Shuskin, dopo essersi presentato. - Dovrebbe. Dovrebbe essere nell'indirizzario. Notiziari, riviste, libri... Tutto documentato. Hanno ormai trovato il modo di congelare senza danni per le cellule. Animazione sospesa. Non si muore, si viene messi in attesa, se tutto va bene per un paio di secoli. Finché la scienza non avrà risolto il problema dello scongelamento. Si può essere congelati, sospesi e poi rivitalizzati, con tutti i pezzi guasti riparati o rimpiazzati, e si torna come nuovi, se non meglio di prima. Tu sai che stai per morire, hai il cancro, che sta per attaccare gli organi vitali. Be', puoi scegliere. Ti metti in contatto con quelli della crionica, dici: voglio essere svegliato nel ventiduesimo secolo, datemi un'overdose di morfina, e al tempo stesso scolatemi bene, ibernatemi e mettetemi in animazione sospesa. Non sei morto. Smetti solo di vivere e chiudi bottega. Senza fasi intermedie. La soluzione crionica sostituisce il sangue e impedisce ai cristalli di ghiaccio di danneggiare le cellule. Mettono il corpo in un sacco di plastica, mettono il sacco in un recipiente di acciaio inossidabile, e lo riempiono di azoto liquido. Meno 273 gradi. Cinquantamila dollari per il congelamento, e poi crei un fondo fiduciario per pagare la manutenzione. Che costa pochi spiccioli, mille o millecinquecento l'anno. Il problema è che i centri sono solo in California e in Florida... e la velocità è tutto. Ecco perché voglio esplorare seriamente la possibilità di creare un'organizzazione non profit proprio qui nel New Jersey, un centro di crionica per quelli come me che non vogliono morire. Nessuno ci guadagnerebbe un soldo, tranne qualche affidabile stipendiato per gestire il centro. Un mucchio di gente direbbe: «Cazzo, Barry, io ci sto... Faremo soldi a palate, e la metteremo in culo a tutti gli altri che subodorano l'affare». Ma io non voglio intorbidare tutto con queste stronzate. L'idea è di mettere insieme un gruppo di soci che vogliono premunirsi per il futuro, gente di principi che non abbia l'ossessione del guadagno. Una cinquantina. Forse si potrebbe arrivare a cinquemila. C'è un sacco di uomini potenti che si godono la vita e hanno grande prestigio e molta esperienza, per i quali finire bruciati o sottoterra è una cazzata... Perché non farsi ibernare?

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Shuskin lo intercettò proprio nel momento in cui andava a prendere il soprabito in quella che adesso era la camera della vedova. Salirono le scale insieme, Zuckerman pensando fosse strano che Henry non avesse mai parlato del suo visionario collega, l'implantologo, e che nello stato delirante in cui era non fosse stato mai tentato dalla sua proposta. Ma probabilmente non lo aveva nemmeno sentito. Le illusioni di Henry non si spingevano fino a desiderare di vivere scongelato nel secondo millennio. Già una vita a Basilea con Maria era troppo fantascientifica per lui. In confronto, aveva chiesto cosí poco: vivere felice e contento per il resto dei suoi giorni col modesto miracolo di Carol, Wendy e i figli. O questo, o tornare a essere il ragazzo di undici anni nel cottage sulla costa del New Jersey col rubinetto vicino alla porta per lavarsi la sabbia dai piedi. Se Shuskin gli avesse detto che la scienza era al lavoro per tornare all'estate del 1948, forse si sarebbe fatto un cliente.

- C'è un gruppo a Los Angeles, - stava dicendo Shuskin, - le invierò il loro bollettino. Ragazzi molto svegli. Filosofi. Scienziati. Ingegneri. Anche un mucchio di scrittori. Quello che fanno sulla costa occidentale, poiché pensano che non è il corpo che conta, e che la tua identità è tutta quassú, è separare la testa dal corpo. Sanno che allora potranno riattaccare la testa al corpo, riallacciare le arterie, il tronco encefalico e tutto il resto a un corpo nuovo. Avranno risolto i problemi immunologici, o forse saranno in grado di clonare nuovi corpi. Tutto è possibile. Cosí, si limitano a congelare la testa. E piú economico che congelare e mettere in magazzino il corpo intero. Piú rapido. Riduce i costi del magazzinaggio. Nei circoli intellettuali è un'idea che attira. Forse sarà cosí anche per lei, se dovesse trovarsi nei panni di Henry. Io, per me, non ci tengo proprio. Io voglio che mi congelino tutto intero. Perché? Perché personalmente credo che l'esperienza sia molto legata ai ricordi di ogni singola cellula del tuo corpo. Non si può separare la mente dal corpo. Il corpo e la mente sono una cosa sola. Il corpo è la mente.

Questo non si può negare, non oggi, non qui, pensò Zuckerman, e dopo aver individuato il proprio soprabito sul grande letto matrimoniale che Henry aveva scambiato con una bara, scrisse il suo indirizzo. - Se mi troverò nei panni di Henry... - disse, porgendolo a Shuskin.

- Ho detto «Se»? Perdoni la delicatezza. Volevo dire «quando».

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Pagina 61

Il signor Elchanan aveva circa sessantacinque anni e lavorava ancora come saldatore a Haifa. Era emigrato da Odessa nella Palestina del mandato nel 1920, quando la rivoluzione sovietica si stava dimostrando piú ostile agli ebrei di quanto avessero previsto gli ebrei russi suoi sostenitori. - Sono arrivato, - mi disse nell'inglese corretto anche se fortemente accentato che aveva appreso da ebreo palestinese sotto gli inglesi, - ed ero già vecchio per il movimento sionista: avevo venticinque anni -. Non era forte, ma forti erano le sue mani: le mani erano il centro del suo corpo, la cosa veramente eccezionale in tutto il suo aspetto. Aveva due miti occhi nocciola, dolcissimi, ma per il resto tratti comuni e inafferrabili in un viso gentile e perfettamente rotondo. Non era alto come Shuki ma basso, il suo mento non sporgeva eroicamente ma era un tantino sfuggente, e la sua persona era un po' incurvata da una vita di lavoro manuale passata a fare giunti e connessioni. I capelli erano grigiastri. Molto probabilmente non lo avresti neanche notato, se ti si fosse seduto davanti su un autobus. Quanto era intelligente, questo anonimo saldatore? Abbastanza intelligente, pensai, per metter su un'ottima famiglia, abbastanza intelligente per allevare Shuki e il figlio minore, architetto a Tel Aviv, e di sicuro abbastanza intelligente per capire nel 1920 che avrebbe fatto meglio a lasciare la Russia se voleva rimanere socialista ed ebreo. Nella conversazione mostrava una buona dose di robusto umorismo e, quando venne il momento di mettermi alla prova, anche una sorta di allegra immaginazione poetica. Personalmente, non riuscivo a vederlo che come un «comune» operaio, ma io non ero suo figlio. In realtà, non era affatto difficile pensare a lui come a una controparte israeliana di mio padre, che allora faceva ancora il podologo nel New Jersey. Nonostante la differenza di livello professionale, sarebbero andati d'accordo, pensai. Forse poteva addirittura essere questo il motivo per cui Shuki e io ci intendevamo cosí bene.

Eravamo appena all'inizio della minestra quando il signor Elchanan mi disse:

- Allora hai intenzione di restare.

- Io? Chi l'ha detto?

- Be', mica vorrai tornare indietro, no?

Shuki continuò tranquillamente a inghiottire le sue cucchiaiate di minestra: evidentemente era una domanda che non lo stupiva.

Sulle prime immaginai che il signor Elchanan volesse burlarsi di me. - In America? - dissi, sorridendo. - Ci vado la settimana prossima.

- Non essere ridicolo. Resterai -. Qui depose il cucchiaio e venne dal mio lato del tavolo. Con una di quelle mani straordinarie mi prese per un braccio, mi sollevò e mi condusse davanti a una finestra della sala da pranzo che attraverso la Gerusalemme moderna dava sulla vecchia città murata. - Vedi quell'albero? - disse. - È un albero ebreo. Vedi quell'uccello? È un uccello ebreo. Vedi, lassú? Una nuvola ebrea. L'ebreo non ha altri paesi che questo -. Poi mi riportò a tavola, dove potei riprendere a mangiare.

Quando fu nuovamente davanti al suo piatto, Shuki disse a suo padre: - Credo che l'esperienza di Nathan gli faccia vedere le cose diversamente.

- Quale esperienza? - La voce era brusca, come non era successo con me. - Lui ha bisogno di noi... - osservò il signor Elchanan rivolto al figlio, - e ancora piú di quanto noi abbiamo bisogno di lui.

- Davvero? - disse Shuki sottovoce, e continuò a mangiare.

Per quanto coscienzioso io potessi essere a ventisette anni, per quanto doverosamente, ostinatamente sincero, non avevo nessuna voglia di dire a quell'uomo ben intenzionato con le spalle curve, il vecchio padre del mio amico, che si sbagliava di grosso, e cosí, per tutta risposta, mi limitai ad alzare le spalle.

- Lui vive in un museo! - disse rabbiosamente il signor Elchanan. Shuki annui a mezzo - sembrava che avesse già sentito anche questo - e allora il signor Elchanan si voltò per dirmelo in faccia. - Sí. Noi viviamo in un teatro ebraico e tu vivi in un museo ebraico!

- Raccontagli, Nathan, - disse Shuki, - del tuo museo. Non temere, discutiamo da quando avevo cinque anni... È un buon incassatore.

Allora feci come aveva detto Shuki e per il resto del pranzo raccontai - com'era nel mio stile a vent'anni (soprattutto con i padri) - mettendoci una passione spropositata e tirandola enormemente in lungo. E non stavo improvvisando: erano le conclusioni alle quali ero arrivato per conto mio negli ultimi giorni, il risultato di un viaggio di tre settimane attraverso una patria ebraica che non avrebbe potuto sembrarmi piú remota.

Per essere l'ebreo che ero, dissi al padre di Shuki, cioè né piú né meno dell'ebreo che volevo essere, non avevo bisogno di vivere in uno stato ebraico piú di quanto lui, da quello che capivo, si sentisse obbligato a pregare tre volte al giorno in una sinagoga. Il mio ambiente non era il deserto del Negev, o le colline della Galilea, o la pianura costiera dell'antica Filistia; era l'America industriale degli immigrati: Newark dov'ero cresciuto, Chicago dove avevo ricevuto un'istruzione e New York dove abitavo in un appartamento al seminterrato in una strada del Lower East Side tra poveri ucraini e portoricani. Il mio testo sacro non era la Bibbia, ma romanzi tradotti dal russo, dal tedesco e dal francese nella lingua in cui cominciavo a scrivere e pubblicare le mie storie: a eccitarmi non era la gamma semantica dell'ebraico classico ma il ritmo nervoso dell'inglese americano. Io non ero l'ebreo sopravvissuto di un campo di sterminio nazista in cerca di un rifugio sicuro e accogliente, né un socialista ebreo per il quale la fonte principale dell'ingiustizia era la malvagità del capitale, né un nazionalista ebreo per il quale la coesione era una necessità politica, né un ebreo credente, un ebreo dotto o uno ebreo xenofobo che non sopportava la vicinanza dei goyim. Ero il nipote nato in America di semplici mercanti galiziani che alla fine del secolo scorso erano arrivati da soli alla stessa profetica conclusione di Theodor Herzl: che per loro non c'era un futuro nell'Europa cristiana, che là non potevano continuare a essere se stessi senza incitare alla violenza forze sinistre contro cui non avevano la minima possibilità di difendersi. Ma invece di battersi per salvare il popolo ebraico dalla distruzione fondando una patria nell'angolo remoto dell'impero ottomano che un tempo era stato la biblica Palestina, si erano semplicemente messi in viaggio per salvare la loro pelle ebrea. Nella misura in cui il sionismo significava assumersi, anziché lasciare ad altri, la responsabilità della propria sopravvivenza come ebrei, questo era il loro tipo di sionismo. E aveva funzionato. Diversamente da loro, io non ero cresciuto circondato da ogni parte da una massa di inquietanti contadini cattolici che potevano essere spinti a odiare gli ebrei con tutto il cuore dal parroco del villaggio o dal possidente locale; per andare ancora piú al sodo, la pretesa dei miei nonni alla legittimazione politica non era stata avanzata in mezzo a un'estranea popolazione indigena che non si sentiva minimamente impegnata a rispettare i biblici diritti degli ebrei e che non aveva alcuna simpatia per le cose che un dio ebraico aveva detto in un libro ebraico su ciò che costituisce in eterno il territorio ebraico. A lungo andare, come ebreo potevo addirittura sentirmi di gran lunga piú al sicuro io nel mio paese di quanto il signor Elchanan, Shuki e i loro discendenti potessero mai esserlo nel proprio.

Insistetti sul fatto che l'America non si riduceva a una semplice contrapposizione tra ebrei e gentili, e che il problema piú grosso degli ebrei americani non erano gli antisemiti. Dire: ammettiamolo, il problema per gli ebrei sono sempre i goyim, per un attimo poteva anche avere il timbro della verità: - Com'è possibile in questo secolo respingere quest'asserzione senza pensarci su? E se l'America dovesse rivelarsi un luogo dove regnano l'intolleranza, l'indecenza, l'apparenza e la brutalità, e dove tutti i valori americani vengono buttati nella fogna, essa potrebbe avere qualcosa di piú del semplice timbro della verità: potrebbe essere la verità -. Ma il fatto era - continuai - che io non potevo pensare a una società nella storia che avesse raggiunto il livello di tolleranza ormai istituzionalizzato in America o che avesse posto il pluralismo giusto al centro dell'immagine pubblica del proprio sogno. Potevo solo sperare che la soluzione di Yacov Elchanan del problema della sopravvivenza e dell'indipendenza degli ebrei potesse avere il medesimo successo che aveva avuto quel «sionismo familiare» di stampo non politico e non ideologico che era stato perpetrato dai miei nonni immigrati quando, al volgere del secolo, erano venuti in America, un paese che al suo centro non aveva il concetto di esclusione.

- Anche se a New York questo non lo ammetto, - dissi, - io sono un po' idealista a proposito dell'America: forse come Shuki è un po' idealista a proposito di Israele.

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Ridendo, mi restituí la foto. - Perché fingi di essere tanto distaccato dai tuoi sentimenti ebraici? Nei tuoi libri sembri preoccuparti solo di una cosa, che diavolo significa essere un ebreo, mentre nella vita fingi di accontentarti di essere l'ultimo anello nella catena ebraica dell'essere.

- Mettilo in conto all'anormalità della Diaspora.

- Sí? Tu credi che ci sia anormalità solo nella Diaspora? Vieni a vivere qui. Questa è la patria dell'anormalità ebraica. Peggio: ora siamo noi gli ebrei dipendenti, dai vostri soldi, dalla vostra lobby, dal cospicuo assegno dello Zio Sam, mentre voi siete gli ebrei che fanno una vita interessante, una vita comoda, senza scuse, senza vergogna, e assolutamente indipendente. Quanto alla condanna di Israele da parte della Londra bene, essa potrà turbare la tua bella moglie, ma in realtà non dovrebbe infastidire te laggiú. I guardiani della virtú nella sinistra non sono una novità. Sentirsi moralmente superiori agli iracheni e ai siriani non è poi cosí divertente, dunque lasciamo che si sentano superiori agli ebrei, se basta questo ad abbellirgli la vita. Francamente, comunque, io credo che l'antipatia degli inglesi per gli ebrei sia per nove decimi snobismo. Rimane il fatto che nella Diaspora un ebreo come te vive sicuro, senza veri timori di persecuzioni o di violenze, mentre qui noi facciamo proprio quella vita rischiosa che avevamo sperato di lasciarci alle spalle venendo in Israele. Ogni volta che vi incontro, voi intellettuali ebrei americani con le vostre mogli non ebree e i vostri buoni cervelli ebrei, uomini educati, affabili, pacati, capaci di ordinare il piatto giusto in un buon ristorante, di apprezzare una buona bottiglia di vino e di ascoltare cortesemente il punto di vista di un'altra persona, ecco cosa penso esattamente: che i piccoli ebrei della Diaspora irascibili, nervosi e ghettizzati siamo noi, mentre voi siete quelli che hanno trovato tutta la sicurezza e la distinzione che vengono dal sentirsi a casa propria dove si è.

- Solo a un israeliano, - dissi io, - un intellettuale ebreo americano potrebbe sembrare un francese con tutto il suo charme.

- Cosa diavolo fai in un posto come questo? - chiese Shuki.

- Sono venuto a trovare mio fratello. Ha fatto la sua aliyah.

- Hai un fratello che è emigrato in Israele? Cos'è, un pazzoide religioso?

- No, un dentista affermato. O meglio lo era. Vive in un piccolo insediamento di frontiera nella West Bank. Sta imparando l'ebraico.

- Te lo stai inventando. Il fratello di Carnovsky nella West Bank? Questa è un'altra delle tue idee spassose.

- Mia cognata vorrebbe che lo fosse. No, è stato Henry a inventarselo. Pare che abbia lasciato la moglie, i figli e l'amante per venire in Israele e diventare un autentico ebreo.

- Perché dovrebbe aver voglia di fare una cosa simile?

- È quello che sono venuto a scoprire.

- Di quale insediamento si tratta?

- Poco lontano da Hebron, sulle colline della Giudea. Si chiama Agor. Sua moglie dice che vi ha trovato un eroe: un certo Mordecai Lippman.

- Oh, davvero?

- Lo conosci, questo Lippman?

- Nathan, non posso parlare di queste cose. È troppo penoso. Dico sul serio. Tuo fratello è un seguace di Lippman?

- Carol dice che quando Henry telefona per salutare i ragazzi non fa che parlare di questo Lippman.

- Sí? È rimasto cosí colpito? Be', quando vedrai Henry, digli che non deve far altro che andare a farsi un giro in prigione e che là potrà conoscere un mucchio di piccoli gangster altrettanto affascinanti.

- Ha intenzione di restare, di continuare a vivere ad Agor quando avrà finito il corso di ebraico, per Lippman.

- Be', magnifico. Lippman è uno che va a Hebron armato di pistola e dice agli arabi, al mercato, che arabi ed ebrei possono vivere felici fianco a fianco purché a comandare siano gli ebrei. Muore dalla voglia che qualcuno gli tiri una molotov. Cosí i suoi teppisti potranno fare fuoco e fiamme.

- Carol mi ha parlato della pistola di Lippman. Henry ha detto tutto ai ragazzi.

- Naturalmente. Deve trovarlo molto romantico, - disse Shuki. - Gli ebrei americani sono elettrizzati dalle pistole. Vedono gli ebrei che vanno in giro armati e si credono in paradiso. Persone ragionevoli che provano una giusta ripugnanza per la violenza e il sangue vengono dall'America a fare un giro turistico, vedono le armi e tutte quelle barbe e diventano matti. La barba gli ricorda la santa debolezza yiddish e le armi li rassicurano sull'eroica forza ebraica. Ebrei che non conoscono né la storia né l'ebraico né la Bibbia, che non sanno niente né dell'Islam né del Medio Oriente, vedono le armi e tutte quelle barbe e si abbandonano a ogni emozione sentimentale che può scaturire dall'esaudirsi di un desiderio. Un autentico pudding di emozioni. Le fantasie che circolano su questo paese mi fanno vomitare. E le barbe? Tuo fratello è affascinato dalla religione tanto quanto lo è dagli esplosivi? Questi coloni, sai, sono i nostri grandi credenti messianici ebrei. La Bibbia è la loro bibbia: questi idioti la prendono sul serio. Te lo dico io, nella santificazione di quel libro c'è tutta la follia della razza umana. Tutto quello che non va in questo paese si trova nei primi cinque libri dell'Antico Testamento. Sbaraglia il nemico, sacrifica tuo figlio, il deserto è tuo e di nessun altro fino all'Eufrate. Ogni due pagine si contano i cadaveri dei filistei: ecco la saggezza della loro fantastica Torah. Se ci vai, domani va' ad assistere alla funzione del venerdí sera e guarda come se ne stanno tutti lí a baciare il culo a Dio dicendogli quant'è grande e meraviglioso... e dicendo al resto di noi quanto sono meravigliosi loro, a sbrigare con coraggio il suo lavoro da eroici pionieri nella biblica Giudea. Pionieri! Lavorano tutto il giorno negli uffici del governo a Gerusalemme e la sera pigliano la macchina e tornano a casa a cena nella biblica Giudea. Solo mangiando fegatini di pollo accanto alla fonte biblica, solo andando a letto nei luoghi biblici, l'ebreo può trovare il vero giudaismo. Be', se ci tengono tanto a dormire vicino alla fonte biblica perché è là che Abramo si allacciava i calzari, allora ci possono anche dormire, sotto il dominio degli arabi! Per piacere, non parlarmi di quello che combina questa gente. Mi fa diventar matto. Mi ci vorrebbe un anno intero a Oxford.

- Dimmi qualcosa di piú dell'eroe di mio fratello.

- Lippman? Sento puzza di fascismo negli uomini come Lippman.

- Com'è quella puzza, qui?

- È come in ogni altro posto. La situazione diventa cosi complicata che sembra richiedere una soluzione semplice, ed è qui che entra in scena Lippman. Il suo business è speculare sull'insicurezza ebraica. Lui dice agli ebrei: «Ho io la soluzione al problema della paura!» Naturalmente queste persone hanno una lunga storia. Mordecai Lippman non viene dal nulla. In ogni comunità c'è sempre stato un uomo cosí. Cosa potrebbe fare il rabbino per i loro timori? Il rabbino somiglia a te, Nathan: il rabbino è alto, magro, ascetico e introverso, sempre curvo sui suoi libri, e di solito è anche malato. Non è uno che possa vedersela con i goyim. Cosí in ogni comunità c'è un macellaio, un camionista, un facchino, uno grande e grosso: tu vai a letto con una, due, forse tre donne, lui con ventisette, e tutte nello stesso tempo. Alla paura ci pensa lui. Una notte si allontana con l'altro macellaio e quando torna ci sono cento goyim di cui non devi darti piú pensiero. Gli avevano appioppato anche un nome: lo shlayger. Il fustigatore. L'unica differenza tra lo shlayger del Vecchio Continente e Mordecai Lippman è che a un livello superficiale Lippman è molto profondo. Non ha solo un'arma ebraica, ha una bocca ebraica, e persino qualche rimasuglio di un cervello ebraico. Tra arabi ed ebrei c'è ormai un antagonismo cosí forte che anche un bambino capirebbe che la cosa migliore è tenerli separati: allora Lippman prende la macchina e va nella Hebron araba armato di pistola. Hebron! Questo stato non è sorto perché gli ebrei presidiassero Nablus e Hebron! L'idea sionista non era questa! Senti, io non mi faccio illusioni sugli arabi e non mi faccio illusioni sugli ebrei. Solo, non voglio vivere in un paese completamente impazzito. Ti entusiasma sentirmi parlare cosí, lo vedo. Tu mi invidi, e pensi: «Pericolo e follia... C'è da spassarsela!» Ma credimi, quando ci sei dentro da cosí tanti anni che persino il pericolo e la follia diventano una noia, allora sí che le cose sono davvero pericolose. Qui la gente ha paura da trentacinque anni: quando scoppierà un'altra guerra? Gli arabi possono perdere una volta, due, tre, ma noi possiamo perdere una volta sola. Tutto questo è vero. Ma qual è il risultato? Entra in scena Menachem Begin, e logicamente, dopo Begin, un gangster come Mordecai Lippman, che dice loro: «Ho io la soluzione al problema ebraico della paura». E peggio è Lippman, meglio è. Ha ragione, dicono, ecco in che razza di mondo viviamo. Se fallisce l'approccio umano, proviamo con la brutalità.

- Eppure lui piace molto al mio fratellino.

- Allora chiedi al tuo fratellino: «Quali sono le conseguenze di quest'uomo delizioso?» La distruzione del paese! Chi viene oggi a stabilirsi e a vivere in questo paese? L'intellettuale ebreo? L'ebreo umano? L'ebreo bello? No, non l'ebreo di Buenos Aires, o di Rio, o di Manhattan. Quelli che vengono dall'America sono o religiosi o fanatici o entrambe le cose. Questo posto è diventato un'Australia ebraico-americana. Oggi quelli che vediamo arrivare sono gli ebrei orientali, gli ebrei russi e gli spostati come tuo fratello, teppisti di Brooklyn con la yarmulke.

- Mio fratello è del New Jersey suburbano. Non potresti assolutamente definirlo uno spostato. Il problema che lo ha portato qui forse è stato proprio quello opposto: si è adattato fin troppo bene alla sua confortevole esistenza.

- Allora cos'è venuto a cercare? Le tensioni? Lo stress? I problemi? Il pericolo? Allora è proprio un meshugge. Tu sei l'unico che ha la testa a posto: sorprendentemente, proprio tu sei l'unico ebreo normale, tu che vivi a Londra con una moglie inglese gentile e che mediti di non disturbarti neanche a circoncidere tuo figlio. Tu che dici: vivo in questo tempo, vivo in questo mondo, e con queste cose costruisco la mia vita. Capisci? Questo doveva essere il luogo dove diventare un ebreo normale era l' obiettivo. Invece, siamo diventati l'ossessiva prigione degli ebrei par excellence! Invece, è diventato il terreno di coltura per ogni ramo di follia che il genio ebraico possa concepire!

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[...] Ripensa a quanta «insensatezza» sei disposto a concedere alla loro dogmatica sfida sionista. Incidentalmente, davvero non ricordo di averti mai sentito usare la parola goy con un'aria di cosí marcata superiorità intellettuale. Mi fa venire in mente quando andavo in giro per Chicago, il primo anno di università, parlando di Lumpenproletariat come se questo attestasse una formidabile estensione della mia conoscenza della società americana. Quando vedevo quei disgraziati davanti ai saloon di Clark Street borbottavo, eccitato: - Lumpenproletariat -. Credevo di saperne qualcosa. Francamente, io penso che sul goy tu abbia imparato dalla tua amichetta svizzera piú di quanto imparerai mai ad Agor. La verità è che tu potresti insegnare a loro. Provaci, un venerdí sera. Parlagli, a cena, di tutte le cose di cui ti sei deliziato nel corso di quella relazione. Sarebbe istruttivo per tutti e renderebbe il goy un po' meno astratto.

Il tuo rapporto col sionismo mi sembra abbia poco a che fare col sentirsi piú profondamente ebrei o col sentirsi minacciati, infuriati o psicologicamente ristretti in una specie di camicia di forza dall'antisemitismo del New Jersey: il che non rende l'impresa meno «autentica». Anzi, la rende assolutamente classica. Il sionismo, come lo vedo io, ebbe le sue origini non soltanto nel grande sogno ebraico di sfuggire al pericolo dell'insularità e alle crudeltà dell'ingiustizia sociale e della persecuzione, ma nel desiderio ben conscio di spogliarsi praticamente di tutto ciò che era venuto a sembrare, tanto ai sionisti quanto ai cristiani europei, un comportamento distintamente ebraico, il desiderio di ribaltare la forma stessa dell'esistenza ebraica. Al nocciolo c'era la costruzione di una controvita che ne fosse l'antimito. Era una specie di favolosa utopia, un manifesto per la trasformazione umana piú estremo - e, agli esordi, piú inverosimile - di qualunque altro mai concepito. L'ebreo poteva essere un uomo nuovo, se voleva. Ai primi tempi dello stato l'idea piacque a quasi tutti tranne agli arabi. In tutto il mondo la gente tifava per gli ebrei e li spronava ad andare avanti e a disebreizzarsi nella loro piccola patria. Io credo che fu questa la ragione per cui il posto fu un tempo universalmente cosí popolare: non piú erei ebraici, magnifico!

In ogni modo, che tu sia stato ipnotizzato dal laboratotio sionista specializzato in autosperimentazione ebraica chiamato «Israele» non è un mistero cosí grande, se la metto in questo modo. La forza di volontà necessaria per ricreare la realtà è impersonata, ai tuoi occhi, da Mordecai Lippman. Superfluo aggiungere che un certo fascino ce l'ha anche la forza della pistola, per ricreare la realtà. Mio caro Hanoch (per invocare il nome di quell'anti-Henry che sei deciso a portare alla luce sulle colline della Giudea), spero che non ti ammazzino nel tentativo. Se era la debolezza che consideravi un nemico quando eri esiliato a South Orange, nella tua nuova patria può essere l'eccesso di forza. Non va minimizzato: non tutti hanno il coraggio, a quarant'anni, di trattarsi come materia grezza, di abbandonare una comoda vita familiare quando è loro diventata irrimediabilmente estranea, e di affrontare spontaneamente i disagi del profugo. Nessuno, come te, fa un viaggio che lo porta cosí lontano, e stando alle apparenze se la cava cosí bene cosí in fretta contando solo sull'audacia, sull'ostinazione o sulla semplice follia. Un bisogno irresistibile di palingenesi (o, agli occhi di Carol, di autodistruzione) non può essere soddisfatto usando i guanti di velluto; è una sfida che richiede buoni muscoli. Malgrado l'inquietante devozione alla carismatica vitalità di Lippman, in realtà tu sembri piú libero e piú indipendente di quanto avrei ritenuto possibile. Se è vero che subivi intollerabili limitazioni e vivevi in angosciosa opposizione con te stesso, a quanto ne so io hai usato la tua forza saggiamente e tutto ciò che dico è irrilevante. Forse è giusto che tu sia finito li; forse era ciò di cui hai avuto bisogno per tutta la vita: un combattivo métier dove ti senti libero da sensi di colpa.

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- La mia ipotesi è che queste potrebbero essere le conguenze di quell'orribile operazione.

- Anche la mia, naturalmente. Io credo che si stia aggrappando a Dio, o a qualche pagliuzza, o a chissà cosa, per la paura di morire. Una specie di amuleto, una forma di pacificazione per avere la certezza che non accadrà mai piú. Una penitenza. Oh, è troppo orribile. E assolutamente insensato. Chi avrebbe mai pensato che sarebbe successa una cosa simile?

- Posso allora suggerirti che se per Pesach tu potessi convincerti a...

- Quando è Pesach? Non so nemmeno quando è Pesach, Nathan. Noi non la celebriamo. Non l'abbiamo mai fatto, nemmeno quando vivevo con i miei genitori. Anche mio padre, che aveva un negozio di calzature, si era liberato di tutto questo. Non gli importava niente della Pasqua ebraica, gli importava del golf, il che ora mi sembra lo collochi sulla scala evolutiva tremila gradini piú in alto di quel fesso di suo genero. La religione! Solo fanatismo, superstizioni, guerre e morte! Stupide sciocchezze medievali! Se demolissero tutte le chiese e tutte le sinagoghe per fare posto a piú campi da golf, il mondo sarebbe un posto migliore!

- Ti sto solo dicendo che se vuoi davvero che torni, un giorno, sulla faccenda di Pesach io non lo contrarierei.

- Ma io non voglio che torni, se è cosí fuori di testa. Non voglio vivere con un ebreo fuori di testa. Poteva andar bene per vostra madre, ma non va bene per me.

- Quello che potresti dire è: «Guarda che puoi esser ebreo anche nella Essex County».

- Non con me, no.

- Ma in fondo hai sposato un ebreo. E lui ha sposato un'ebrea.

- No. Ho sposato un dentista molto bello, alto, atletico, dolcissimo, molto sincero, molto apprezzato, un uomo responsabile. Non ho sposato un ebreo.

- Non sapevo che tu la pensassi cosí.

- Dubito che tu abbia mai saputo qualcosa di me. Io ero solo la mogliettina scema di Henry. Sí, superficialmente ero ebrea, ma non me ne sono mai data pensiero. E l'unico modo decente di essere una di queste cose. Ma Henry ha fatto qualcosa di piú che graffiare la superficie, con la bella pensata che ha avuto. Io, semplicemente, non voglio avere piú niente a che fare con le stronzate di questa gente gretta, fanatica, superstiziosa e assolutamente inutile. Di sicuro non voglio che vi abbiano a che fare i miei figli.

- Allora, per tornare a casa Henry dovrà essere «non ebreo» almeno come te.

- Esatto. Senza i suoi ricciolini e il suo zucchetto. Per questo ho studiato letteratura francese all'università, perché potesse andare in giro con lo zucchetto? Dove vuole mettermi adesso, su in galleria con le altre donne? Io non la sopporto, questa roba. E piú seriamente la gente la prende, piú sgradevole è tutto l'insieme. Meschino, coercitivo e rivoltante. E compiaciuto. Non mi lascio accalappiare.

- Comunque sia, se vuoi rimettere insieme la famiglia, un approccio potrebbe essere questo. Dirgli: «Torna indietro e continua qui i tuoi studi sull'ebraismo, continua pure a imparare l'ebraico, a studiare la Torah...»

- Lui studia la Torah?

- La sera. Per diventare un autentico ebreo. «Autentico» è la parola che usa lui: in Israele può essere un autenco ebreo e attorno a lui ogni cosa ha un senso. Essere ebreo in America lo faceva sentire artificiale.

- Si? Be', sarà stato anche artificiale, ma a me andava bene cosí. Lo stesso valeva per tutte le sue amichette. Guarda, ci sono milioni di ebrei che vivono a New York: sono artificiali? Questa cosa mi riesce totalmente incomprensibile. Io voglio vivere come un essere umano. L'ultima cosa che voglio è sentirmi incatenata a questo suo voler essere un autentico ebreo. Se è quello che vuole, lui e io non abbiamo piú niente da dirci.

- Cosí, solo perché tuo marito vuoi essere un ebreo, sei pronta a lasciare che la famiglia vada a rotoli.

- Cristo, ora non farmi, proprio tu, una predica sulla «famiglia». O sull'essere ebrei. No, guarda: perché mio marito, che è un americano, che io credevo, come quelli della mia generazione, della mia epoca, senza tutta quella zavorra, ha fatto un enorme passo indietro nel tempo, ecco perché lascio che la famiglia vada a rotoli. Quanto ai miei figli, la loro vita è qui, i loro amici sono qui, le loro scuole sono qui, le loro future università sono qui. Non hanno lo spirito pionieristico che ha Henry, non hanno il padre che ha avuto Henry, e per Pesach non andranno nella patria della Bibbia, e nemmeno in una sinagoga di qui. Non ci saranno sinagoghe in questa famiglia! Non ci sarà cucina kosher in questa casa! Non potrei assolutamente fare quella vita. Vada a farsi fottere, resti pure là se è l'autentico giudaismo che vuole, resti là e si trovi un'altra ebrea autentica con cui vivere, e insieme potranno metter su una casa con un tabernacolo dove celebrare tutte le loro festicciole. Ma qui è assolutamente escluso: nessuno andrà in giro per questa casa suonando la tromba della redenzione ebraica!

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Capitolo quinto

Cristianità


Alle sei di sera, poche ore dopo aver lasciato Henry ad Agor ed essere arrivato a Londra con gli appunti presi durante il tranquillo volo da Tel Aviv, la mente ancora piena di tutte quelle voci implacabili, dissidenti, bellicose, e delle ansie che risvegliavano le loro paure e le inducevano alle loro decisioni - tornato in meno di cinque ore da quel disarmonico paese dove sembra che nulla, dalle polemiche al tempo, sia mai incerto o indietro di cottura - sedevo in una chiesa del West End londinese. Con me c'erano Maria, Phoebe e tre o quattrocento altre persone, molte delle quali avevano lasciato in fretta il lavoro per arrivare in tempo alla funzione religiosa con i canti natalizi. Mancavano due settimane giuste a Natale; sullo Strand il pesante traffico era ingolfato e le vie che portavano fuori dal West End erano piene di veicoli e di gente che andava a fare acquisti. Dopo un pomeriggio mite, la sera si era raffreddata, e una leggera nebbia diffondeva i coni di luce dei fari delle macchine. Phoebe era cosí eccitata dal traffico, dai semafori, dalle luminarie natalizie e dalla fitta folla che dovette essere accompagnata al bagno nella cripta mentre io trovavo i nostri posti sul banco prenotato, nella stessa fila di Georgina e Sarah, le sorelle di Maria. In qualità di membro del consiglio dell'opera pia per cui si sarebbe fatta la questua, al quale apparteneva da molto tempo, la signora Freshfield, madre di Maria, doveva leggere un passo delle Scritture.

Maria portò Phoebe dalla nonna, seduta nel primo banco con gli altri lettori, e poi a salutare le due zie. Mi raggiunsero nei nostri posti proprio mentre entrava il coro, prima i ragazzi piú grandi, con il blazer blu, la cravatta a righe e i pantaloni grigi della scuola, poi i ragazzi piú piccoli in calzoni corti. Il maestro del coro, un giovanotto elegante con i capelli prematuramente grigi e occhiali cerchiati di corno, sembrava un incrocio tra un bonario insegnante e il domatore di leoni di un circo: quando, con una piccolissima inclinazione del capo, ordinò ai ragazzi di sedersi, anche i piú piccini reagirono come se la frusta fosse schioccata pericolosamente vicino. Maria indicò a Phoebe l'albero di Natale da un lato della navata; pur essendo di un'altezza impressionante, era decorato piuttosto spartanamente con fili argentati rossi, bianchi e blu, e in cima c'era una stella d'argento sbilenca che sembrava il prodotto di una classe di catechismo. Davanti a noi, proprio sotto il pulpito, c'era una grande composizione floreale circolare di crisantemi e garofani bianchi conficcati in rami di agrifoglio e di altri sempreverdi. - Vedi i fiori? - disse Maria e, un po' confusa ma assolutamente affascinata, Phoebe rispose: - La storia della nonna. - Tra poco, - sussurrò Maria, raddrizzando le pieghe del vestito scozzese della bambina, e poi l'organo cominciò a suonare, da solo, e con esso la lieve corrente di antipatia che mi attraversava.

Non manca mai. Non mi sento mai piú ebreo di quando mi trovo in una chiesa con l'organo che suona le prime note. Posso estraniarmi dal Muro del Pianto, ma senza sentirmi un estraneo: resto fuori ma non mi sento escluso, e anche l'incontro piú ridicolo o impossibile serve a misurare, piú che recidere, la mia affiliazione con gente da cui non potrei essere piú diverso. Ma tra me e la devozione che si riscontra in una chiesa c'è un incolmabile mondo di sentimenti, un'incompatibilità naturale e assoluta: provo le emozioni di una spia nel campo avverso e sento che sto assistendo proprio ai riti che incarnano l'ideologia che è stata responsabile della persecuzione e del maltrattamento degli ebrei. Non mi ripugnano i cristiani in preghiera, è solo che trovo la loro religione estranea nel modo piú assoluto: inspiegabile, sviata, profondamente inappropriata, e mai piú di quando i fedeli osservano al massimo grado il decoro liturgico e il chierico enuncia nel modo piú garbato la dottrina dell'amore. E tuttavia ero là, e mi stavo comportando come aspirano a fare tutte le spie ben addestrate: sembravo perfettamente a mio agio, pensai, affabile, per niente impacciato, mentre, strizzata nel banco contro la mia spalla, sedeva la mia moglie inglese cristiana e incinta, la cui madre doveva leggere un passo di san Luca.

Per gli standard convenzionali io e Maria dovevamo apparire certamente, a causa delle origini diverse e della differenza d'età, una coppia stranamente incongrua. Ogni volta che la nostra unione sembrava incongrua persino a me, mi chiedevo se a spiegare la sottostante armonia non fosse per caso un gusto comune per l'incongruenza: il piacere di assimilare un compromesso che sembrava insostenibile, un'inclinazione condivisa per quella sorta di dissomiglianza che però non arriva a trasformarsi in assurdità. Era sempre allettante, per due persone cresciute in circostanze cosí diverse, scoprire in sé interessi cosí sorprendentemente simili: e naturalmente anche le divergenze continuavano a essere piuttosto inebrianti. Maria, per esempio, tendeva ad attribuire la mia «serietà» professionale alla classe sociale da cui provenivo. - Questa tua dedizione artistica è un tantino provinciale, sai. È di gran lunga piú metropolitano avere una visione della vita un po' anarchica. La tua è anarchica solo in apparenza e non nella realtà. In materia di parametri resti un campagnolo. Credendo che le cose contino. - Ma sembra che a farle, le cose, siano proprio i campagnoli che credono che le cose contino. - Come i libri che hai scritto, sí, - diceva lei, - è vero. Ecco perché, tra gli aristocratici, gli artisti e gli scrittori sono cosí pochi: mancano di serietà.

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