Copertina
Autore Philip Roth
Titolo L'umiliazione
EdizioneEinaudi, Torino, 2010, Supercoralli , pag. 116, cop.ril.sov., dim. 14x22x1,5 cm , Isbn 978-88-06-20092-3
OriginaleThe Humbling [2009]
TraduttoreVincenzo Mantovani
LettoreAngela Razzini, 2011
Classe narrativa statunitense
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Indice


  3   I.    In aria sottile

 37   II.   La trasformazione

 75   III.  L'ultimo atto


 

 

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Pagina 3

Capitolo primo

In aria sottile


Aveva perso la sua magia. L'impeto era venuto meno. In teatro non aveva mai fallito, tutto ciò che aveva fatto era stato valido e convincente, poi gli successe una cosa terribile: non era piú capace di recitare. Andare in scena divenne un tormento. Invece di avere la certezza che sarebbe stato magnifico, sapeva che avrebbe fatto fiasco. Accadde tre volte di seguito, e l'ultima volta Axler smise di interessare alla gente, e in teatro non venne piú nessuno. Non era piú capace di conquistare il pubblico. Il suo talento era morto.

Naturalmente, se un tempo ce l'avevi, in te ci sarà sempre qualcosa di diverso dagli altri. Io sarò sempre diverso dagli altri, diceva Axler tra sé, perché sono quello che sono. Me lo porto dentro, e la gente se ne ricorderà sempre. Ma l'aura che lo aveva circondato, tutti i suoi vezzi e le sue eccentricità e le sue personali specificità, tutto ciò che aveva funzionato per Falstaff, Peer Gynt e zio Vanja - ciò che aveva procurato a Simon Axler la reputazione di ultimo dei grandi attori del teatro classico americano -, nulla di tutto questo funzionava piú per alcun ruolo. Proprio ciò che prima aveva fatto di lui quel che era, adesso faceva di lui un pazzo. Era consapevole di ogni momento trascorso in scena, nel senso peggiore.

In passato, quando recitava, non pensava a niente. Ciò che faceva bene, lo faceva per istinto. Ora pensava a tutto, annientando ogni forma di spontaneità e vitalità: cercava di controllarle col pensiero e invece le distruggeva. D'accordo, si diceva Axler, stava attraversando un momentaccio. Anche se aveva piú di sessant'anni, forse gli sarebbe passata mentre era ancora riconoscibilmente se stesso. Non era il primo attore consumato al quale fosse toccata una cosa simile. Capitava a un sacco di gente. Ci sono già passato, pensò, e troverò una soluzione. Non so dove andrò a prenderla, questa volta, ma la troverò: passerà.

Non passò. Non era capace di recitare. Come riusciva a catturare l'attenzione del pubblico, una volta! E ora temeva ogni rappresentazione, e la temeva per l'intera giornata. Prima di una rappresentazione pensava tutto il giorno a cose che non gli erano mai venute in mente in vita sua: non ce la farò, non ne sarò capace, mi hanno dato una parte sbagliata, sto facendo il passo piú lungo della gamba, sono un impostore, non so nemmeno come recitare la prima battuta. E intanto cercava di occupare le ore facendo, per prepararsi, cento cose in apparenza necessarie: devo dare un'altra occhiata a questo monologo, devo riposarmi, devo fare esercizio fisico, devo dare un'altra occhiata a quel monologo, e quando arrivava in teatro era sfinito. E terrorizzato all'idea di andare in scena. Sentiva avvicinarsi sempre piú il momento in cui gli avrebbero dato la battuta e sapeva che non ce l'avrebbe fatta. Aspettava la libertà di iniziare e il momento di diventare reale, aspettava di scordare chi era e diventare la persona che agiva, e invece stava là, completamente svuotato, recitando nel modo in cui si recita quando non sai quello che fai. Non era capace di dare né di trattenere; mancava di fluidità e mancava di riserbo. Recitare era diventata la fatica quotidiana di uno che cerca di passarla liscia.

Tutto era cominciato con la gente che gli si rivolgeva. Non poteva avere piú di tre o quattro anni, e già era ipnotizzato dalle parole che pronunciava e da quelle che gli venivano rivolte. Gli era sembrato fin dall'inizio di trovarsi in una recita. Sapeva servirsi dell'intensità dell'ascolto, della concentrazione, come gli attori meno grandi di lui si servivano di piú chiassosi virtuosismi. Aveva questo potere anche fuori dalla scena, soprattutto, quando era piú giovane, con le donne, che non si accorgevano di avere una storia fino al giorno in cui era lui a rivelare loro di avere una storia, una voce e uno stile che non apparteneva a nessun altro. Diventavano attrici con Axler, diventavano le eroine della propria vita. Pochi attori teatrali sapevano parlare e ascoltare come lui, ma ormai non era piú capace di fare né l'una né l'altra cosa. Era come se i suoni che un tempo gli entravano nell'orecchio ora ne uscissero, e ogni parola che pronunciava sembrava recitata anziché detta. La fonte originaria della sua recitazione era in ciò che udiva, il nocciolo era la sua reazione a ciò che udiva, e se non era piú capace di ascoltare, se non era piú capace di udire, non aveva piú niente su cui basarsi.

Gli chiesero di interpretare Prospero e Macbeth al Kennedy Center - difficile pensare a un doppio programma piú ambizioso - e lui fece miseramente fiasco in ambedue i ruoli, ma soprattutto in quello di Macbeth. Non era piú capace di fare uno Shakespeare a bassa intensità e non era piú capace di fare uno Shakespeare ad alta intensità, e pensare che aveva fatto Shakespeare per tutta la vita. Il suo Macbeth era ridicolo, e quelli che lo videro lo dissero senza eccezione, e altrettanto fecero molti che non lo avevano visto. «No, non hanno neanche bisogno di esserci stati - diceva lui - per insultarti». Molti attori, per aiutarsi, si sarebbero dati al bere; c'era una vecchia barzelletta su un attore che beveva sempre prima di andare in scena, e che quando lo esortarono a non bere replicò: «Come, dovrei andare là fuori da solo?» Ma Axler non beveva, e cosí invece crollò. Il suo crollo fu monumentale.

La cosa peggiore era che vedeva il proprio crollo con la stessa lucidità con cui si vedeva recitare. La sofferenza era atroce, e tuttavia lui dubitava che fosse genuina, il che la rendeva anche peggiore. Non sapeva come passare da un minuto all'altro, era come se la mente gli si stesse liquefacendo, aveva il terrore di stare da solo, non riusciva a dormire piú di due o tre ore per notte, mangiava appena, ogni giorno pensava di ammazzarsi con l'arma che aveva in solaio - un fucile a pompa Remington 870 che teneva nella casa isolata per autodifesa - e nondimeno gli sembrava tutta una commedia, una commedia recitata male. Quando reciti la parte di uno che sta crollando, la tua interpretazione ha un ordine e una coerenza; quando la persona che vedi crollare sei tu, e quella che stai recitando è la tua fine, è tutta un'altra cosa, una cosa spaventosa e terrorizzante.

Non riusciva a convincersi di essere impazzito, non piú di quanto fosse riuscito a convincere se stesso o chiunque altro di essere Prospero o Macbeth. Era artificiale anche come pazzo. L'unica parte disponibile per lui era quella di uno che interpreta una parte. Un uomo sano di mente nella parte di un alienato. Un uomo equilibrato nella parte di un folle. Un uomo controllato nella parte di un uomo incontrollabile. Un uomo di successo, un interprete di grande notorietà - un attore massiccio e corpulento alto quasi due metri, con una grossa testa calva e il fisico forte e peloso di un attaccabrighe, con una faccia capace di trasmettere una molteplicità di sentimenti, la mascella risoluta, due severi occhi scuri e una bocca piuttosto grande che sapeva torcere in qualunque direzione, e una voce bassa e imperiosa che veniva dai precordi e aveva sempre dentro una sorta di ringhio, un uomo che sapeva di essere grande e sembrava poter affrontare qualunque cosa e corrispondere a tutti i ruoli richiesti a un uomo, personificazione di una forza invulnerabile che pareva aver assorbito in se stessa l'egoismo di un gigante buono - nella parte di un ometto insignificante. Alte grida gli sfuggivano quando si svegliava durante la notte e scopriva di essere ancora imprigionato nella parte di un uomo che era stato privato di se stesso, del proprio talento e del posto che occupava nel mondo, un uomo disgustoso che non era altro che l'inventario dei propri difetti. La mattina se ne stava nascosto a letto per ore ma, invece di nascondersi da quel ruolo, recitava quel ruolo. E quando finalmente si alzava, l'unica cosa a cui riusciva a pensare era il suicidio, e non la sua simulazione. Un uomo che voleva vivere nella parte di un uomo che voleva morire.

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Pagina 37

Capitolo secondo

La trasformazione


I genitori di Pegeen li conosceva, ed erano suoi buoni amici, da prima che Pegeen venisse al mondo, e lei l'aveva vista per la prima volta all'ospedale, appena nata, mentre prendeva il latte al seno della madre. Si erano incontrati quando Axler e gli Stapleford, sposati da poco - lui del Michigan, lei del Kansas -, erano apparsi insieme in una messinscena del Furfantello dell'Ovest nel seminterrato di una chiesa del Greenwich Village. Axler aveva interpretato il magnifico ruolo dello scatenato protagonista Christy Mahon, l'aspirante parricida, mentre la protagonista femminile, Pegeen Mike Flaherty, energica barista nel pub di suo padre sulla costa occidentale della contea di Mayo, era stata interpretata da Carol Stapleford, allora incinta di due mesi del primo figlio; Asa Stapleford aveva interpretato Shawn Keogh, il promesso sposo di Pegeen. Quando le repliche erano finite, Axler era stato alla festa di chiusura e aveva votato per il nome Christy se era un maschio e per Pegeen Mike se era una femmina, quando fosse arrivato il bambino degli Stapleford.

Era molto improbabile - in particolare perché Pegeen Mike Stapleford era lesbica da quando aveva ventitre anni - che quando lei avesse avuto quarant'anni e Axler sessantacinque sarebbero diventati amanti che si telefonavano tutte le mattine appena svegli e passavano entusiasticamente il tempo libero insieme nella casa di lui, dove, con suo grande piacere, lei si appropriò di due stanze, una delle tre camere da letto al primo piano per la sua roba e lo studio al pianterreno accanto al soggiorno per il suo laptop. Al pianterreno c'erano caminetti in ogni stanza, persino in cucina, e quando lavorava nello studio, Pegeen teneva sempre il fuoco acceso. Abitava a poco piú di un'ora di macchina lungo serpeggianti strade collinari che attraverso il terreno coltivato la portavano fino ai suoi venti ettari di aperta campagna e alla grande e antica fattoria, bianca con le persiane nere, cinta da vecchi aceri, alti frassini e muri di pietra lunghi e irregolari. In tutta quella zona non c'erano che loro. Nei primi mesi raramente si alzavano dal letto prima di mezzogiorno. Non riuscivano a staccarsi l'uno dall'altra.

E pensare che prima del suo arrivo lui era sicuro di avere chiuso: chiuso col teatro, con le donne, con la gente, chiuso per sempre con la felicità. Da oltre un anno aveva gravi disturbi fisici, quasi non riusciva a camminare o a stare in piedi o seduto per molto tempo a causa dei dolori alla colonna vertebrale che aveva dovuto sopportare per tutta la sua vita adulta ma i cui debilitanti progressi si erano accelerati con l'età: per questo era sicuro di avere chiuso con qualsiasi cosa. Ogni tanto gli si addormentava una gamba, cosí che camminando non riusciva ad alzarla abbastanza e inciampava in un gradino o nel marciapiede e cadeva, ferendosi alle mani e a volte sbattendo addirittura la faccia a terra, tanto da perdere sangue dalle labbra o dal naso. Solo qualche mese addietro quello che era il suo migliore nonché unico amico del posto, un giudice ottantenne in pensione da alcuni anni, era morto di cancro; di conseguenza, anche se da trent'anni risiedeva a due ore dalla città tra alberi e campi - vivendo li quando non era in giro per il mondo a recitare -, Axler non aveva nessuno con cui parlare o mangiare un boccone, e tanto meno con cui dividere il letto. Cosí aveva ricominciato a pensare di uccidersi, con la stessa frequenza di prima del ricovero in ospedale un anno addietro. Ogni mattina, quando apriva gli occhi sul suo vuoto, decideva che non avrebbe passato un altro giorno privo delle sue facoltà, solo, disoccupato e soffrendo costantemente. Ancora una volta la strada portava al suicidio; al centro di quella espropriazione non c'era altro.

Un gelido e grigio mattino dopo una settimana di pesanti nevicate, Axler usci di casa per raggiungere la tettoia dove teneva l'auto e percorrere i sei chilometri che lo separavano dalla cittadina per andare a fare provviste. Il sentiero intorno alla casa era stato tenuto sgombro ogni giorno da un contadino che gli spalava la neve, ma Axler procedeva comunque con cautela, calzando stivali da neve con grosse suole scolpite, aiutandosi con un bastone e camminando a piccoli passi per non scivolare e cadere. Sotto i vari strati di indumenti portava, per maggiore sicurezza, un busto rigido che gli stringeva la vita. Mentre usciva di casa dirigendosi verso la tettoia, scorse un animaletto biancastro con una lunga coda fermo sulla neve tra la tettoia e il fienile. A tutta prima gli sembrò un enorme topo, ma poi si rese conto, dalla forma e dal colore della coda spelacchiata e dal muso, che era un opossum lungo una trentina di centimetri. Di solito gli opossum sono animali notturni, ma quello, con una pelliccia che appariva ispida e ingiallita, stava immobile sul terreno coperto di neve in pieno giorno. Quando Axler si avvicinò, l'opossum con la sua andatura dondolante si allontanò lentamente in direzione del fienile e sparí in un mucchio di neve contro il muro di pietra delle fondamenta. Lui segui la bestiola - che probabilmente era malata e prossima alla fine - e quando raggiunse il mucchio di neve vide che davanti c'era un buco. Reggendosi con entrambe le mani sul bastone, si inginocchiò nella neve per sbirciare dentro. L'opossum si era spinto troppo avanti nel cunicolo perché lui potesse vederlo, ma sparsa nella parte anteriore di quella cavità cavernosa c'era una raccolta di stecchi. Li contò. Sei stecchi. Allora è cosí che si fa, pensò Axler. Io ne ho troppi. Ne bastano sei.

La mattina dopo, mentre faceva il caffè, vide l'opossum dalla finestra della cucina. Ritto sulle zampe posteriori davanti al fienile, l'animale mangiava la neve che prendeva dal mucchio, ficcandosela in bocca a grumi con le zampe anteriori. In fretta si mise gli stivali e il giaccone, prese il bastone, usci dalla porta e girò intorno alla casa fino al sentiero sgombrato dalla neve che fronteggiava il fienile. Da cinque o sei metri di distanza gridò a voce spiegata all'opossum: - Ti piacerebbe fare la parte di James Tyrone? Al Guthrie -. L'opossum continuò imperterrito a mangiare la neve. - Saresti un magnifico James Tyrone!

Dopo quel giorno, quella sua piccola caricatura sotto forma animale scomparve. Axler non vide piú l'opossum - o era scomparso o era perito - anche se la grotta nella neve con i sei stecchi rimase intatta fino al disgelo successivo.


Poi Pegeen passò di lí. Telefonò dalla casetta che aveva affittato a pochi chilometri da Prescott, un college piccolo e progressista nel Vermont occidentale, dove di recente aveva cominciato a insegnare. Lui viveva un'ora di macchina piú a ovest, oltre il confine nella campagna dello stato di New York. Erano passati vent'anni o piú da quando Axler l'aveva vista, allegra studentessa universitaria in viaggio con i genitori durante le vacanze. Se capitavano da quelle parti, si fermavano un paio d'ore da lui per fargli un saluto. Ogni due o tre anni si ritrovavano tutti insieme. Asa dirigeva un teatro regionale a Lansing, nel Michigan, la città dov'era nato e cresciuto, e Carol recitava nella compagnia di repertorio e teneva un corso di recitazione all'università statale. Axler aveva visto Pegeen anche in precedenza, durante un'altra visita degli Stapleford, quando era una timida e sorridente ragazzina di dieci anni dall'aria dolce che si arrampicava sugli alberi della sua proprietà e nuotava rapidamente avanti e indietro nella sua piscina, un maschiaccio smilzo e atletico che rideva a crepapelle a tutte le battute di suo padre. E ancor prima l'aveva vista poppare nel reparto maternità del St Vincent's Hospital di New York.

Ora vide una donna di quarant'anni, flessuosa e pettoruta, ma ancora con un che di infantile nel sorriso - un sorriso in cui arricciava meccanicamente il labbro superiore per mostrare gli incisivi sporgenti - e ancora molto del maschiaccio nel passo dondolante. Era vestita da campagna, con scarpe da lavoro consumate e una giacca rossa con la cerniera lampo, e i capelli, che nei suoi imprecisi ricordi erano biondi come quelli di sua madre, erano castani e tagliati molto corti, cosí corti sulla nuca da sembrare sfumati dalla macchinetta di un barbiere. Aveva l'aria invulnerabile di una persona felice, e anche se il modello a cui si ispirava era quello della monella impertinente, parlava con voce fascinosa, come se volesse imitare la dizione da attrice di sua madre.

Come Axler infine avrebbe appreso, era passato un certo tempo da quando Pegeen aveva avuto ciò che voleva, e non la sua grottesca inversione. Aveva passato gli ultimi due anni di una relazione che ne era durati sei soffrendo in una casa penosamente solitaria a Bozeman, nel Montana. - I primi quattro anni, - gli raccontò una sera dopo che furono diventati amanti, - tra me e Priscilla c'era un modo di stare insieme meravigliosamente intimo. Eravamo sempre da qualche parte a fare escursioni e campeggio, anche quando nevicava. D'estate andavamo in posti come l'Alaska, e campeggiavamo e facevamo escursioni lí. Era emozionante. Siamo state in Nuova Zelanda, siamo state in Malesia. C'era qualcosa di infantile, che amavo, nel vagabondare avventurosamente insieme in giro per il mondo. Eravamo come due ragazzine scappate di casa. Poi, a partire dal quinto anno o giú di lí, lei si è a poco a poco distaccata per immergersi nel computer, e io non ho piú avuto nessuno con cui parlare tranne i gatti. Fino ad allora avevamo fatto tutto fianco a fianco. Stavamo a letto con le coperte rimboccate, a leggere: a leggere ciascuna per conto suo, a leggerci dei brani ad alta voce; per molto tempo è stato un rapporto estatico. Priscilla non diceva mai alla gente: «Quel libro mi è piaciuto», ma piuttosto: «Quel libro ci è piaciuto», o di qualche posto: «Ci è piaciuto andare là», o dei nostri progetti: «Ecco quello che faremo quest'estate». Noi. Noi. Noi. E poi «noi» non siamo piú state noi: noi era finito. Noi era lei e il suo Mac. Noi era lei e il suo segreto, che suppurava e cancellava tutto íl resto: e cioè che avrebbe mutilato il corpo che amavo.

Insegnavano entrambe all'università di Bozeman, e negli ultimi due anni in cui furono una coppia, quando Priscilla tornava dal lavoro se ne stava davanti al computer fino all'ora di andare a letto. Passava i weekend davanti al computer. Mangiava e beveva davanti al computer. Non parlavano piú, non facevano piú sesso; anche le escursioni e i campeggi in montagna Pegeen doveva farli da sola o con persone diverse da Priscilla, persone con cui si trovava per stare in compagnia. Poi un giorno, sei anni dopo essersi incontrate nel Montana e aver messo in comune le loro risorse e deciso di formare una coppia, Priscilla annunciò che aveva cominciato un ciclo di iniezioni ormonali per farsi crescere la barba e rendere piú grave la voce. Il suo progetto era di farsi asportare chirurgicamente i seni e diventare un uomo. In privato, ammise, lo sognava da tempo, e per quanto Pegeen la implorasse non volle tornare indietro. Il giorno dopo Pegeen lasciò la casa che avevano in comproprietà, portando con sé uno dei due gatti - «Per i gatti non era l'ideale, - disse Pegeen, - ma quello è stato il meno» - e si trasferí nella stanza di un motel della zona. Ritrovò a malapena la calma necessaria per affrontare gli studenti del suo corso. Anche se la vita con Priscilla era diventata solitaria, la ferita del tradimento, la natura del tradimento, era molto peggio. Piangeva in continuazione, e cominciò a scrivere lettere a college che si trovavano a centinaia di chilometri dal Montana cercando un nuovo impiego. Si recò a un convegno dove i college sottoponevano a colloqui gli specialisti di scienza dell'ambiente e trovò un posto sulla costa orientale dopo essere andata a letto con la preside di facoltà, che si prese una cotta per lei e successivamente l'assunse. La preside era ancora la devota protettrice e amante di Pegeen quando Pegeen andò a trovare Axler e decise che dopo diciassette anni da lesbica aveva voglia di un uomo: quell'uomo, quell'attore che aveva venticinque anni piú di lei ed era amico della sua famiglia da decenni. Se Priscilla poteva diventare un maschio eterosessuale, Pegeen poteva diventare una femmina eterosessuale.

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Pagina 97

La mattina dopo, appena Pegeen parti per tornare nel Vermont, lui telefonò a un ospedale di New York e chiese di un medico con cui potersi consultare a proposito dei rischi genetici nel concepire un figlio a sessantacinque anni. Lo mandarono da uno specialista e gli fissarono un appuntamento per la settimana successiva. Non disse nulla di tutto questo a Pegeen.

L'ospedale si trovava a uptown Manhattan e, dopo aver lasciato la macchina in un garage, Axler, sempre piú eccitato, si incamminò verso lo studio del medico. Gli diedero i soliti moduli da riempire e fu ricevuto da un filippino di circa trentacinque anni che si qualificò come l'assistente della dottoressa Wan. Accanto alla sala d'aspetto c'era una stanza con le finestre, e l'assistente lo guidò in quella saletta per poter restare solo con lui. Sembrava un locale destinato ai piú piccoli, con tavolini bassi e seggioline sparsi qua e là e alcuni disegni infantili attaccati a una parete. Si sedettero a uno dei tavolini e l'assistente cominciò a chiedergli di lui e dei suoi familiari e delle malattie che avevano avuto e di quelle di cui erano deceduti. L'assistente scriveva le risposte su un foglio sul quale era stampato lo schema di un albero genealogico. Axler gli disse tutto quello che sapeva fin dove arrivava la sua conoscenza della famiglia. Poi l'assistente prese un altro foglio e gli chiese informazioni sulla famiglia della madre potenziale. Axler poté dirgli solamente che i genitori di Pegeen erano vivi; non sapeva nulla della loro storia clinica, né di quella delle zie, degli zii, dei nonni e dei bisnonni di Pegeen. L'assistente gli chiese qual era il paese di origine della famiglia di Pegeen, come aveva fatto per quella di Axler, e, annotata anche quell'informazione, disse ad Axler che avrebbe passato tutti i dati alla dottoressa Wan e, dopo un consulto tra lui e la dottoressa, lei sarebbe venuta a parlare con Axler.

Rimasto solo nella stanza, Axler si senti estasiato per il ritorno delle sue forze e della sua naturalezza, e per la fine della sua umiliazione e della sua scomparsa dal mondo. Quella non era piú una fantasticheria; la ripresa di Simon Axler era cominciata per davvero. Ed era cominciata nel posto piú improbabile, una stanza piena di mobili per bambini. Le dimensioni del mobilio gli ricordarono la seduta di arteterapia a Hammerton, quando lui e Sybil Van Buren avevano ricevuto pastelli e carta per disegnare dalla loro terapeuta. Ricordò quant'era stato docile nel mettersi a colorare con i pastelli, come il bimbo dell'asilo che un tempo era stato. Ricordò le mortificanti conseguenze dell'essere finito a Hammerton, il modo in cui in quel posto ogni traccia della sua sicurezza era svanita; ricordò di non aver trovato, per liberarsi della sensazione di sconfitta e della paura, altro che le conversazioni che ascoltava nella sala comune dopo cena, le storie di quelli tra i ricoverati ancora infatuati del proprio tentato suicidio. Ora, però, grande e grosso com'era e là seduto goffamente tra quei tavolini e quelle seggioline, Axler si sentiva tutt'uno con l'attore, ed era consapevole dei successi che aveva alle spalle e convinto che la vita poteva ricominciare.


La dottoressa Wan era una giovane donna esile e minuta che disse di aver bisogno, naturalmente, anche della storia clinica di Pegeen, ma che intanto poteva almeno iniziare ad affrontare i suoi timori sui difetti congeniti nella prole dei padri non piú giovani. Gli spiegò che anche se per i maschi l'età ideale per concepire dei figli è tra i venti e i trent'anni, e anche se il rischio di trasmettere vulnerabilità genetica o disturbi dello sviluppo come l'autismo aumenta in modo significativo dopo i quaranta, e anche se nello sperma degli uomini anziani c'era piú Dna danneggiato che in quello dei giovani, le probabilità di concepire figli normali senza difetti congeniti non erano necessariamente cosí basse per un uomo della sua età e nel suo stato di salute, soprattutto perché certi difetti congeniti, ma non tutti, potevano essere individuati durante la gravidanza. - Le cellule testicolari che producono lo sperma si dividono ogni sedici giorni, - gli spiegò la dottoressa Wan mentre sedevano l'uno davanti all'altra al tavolino basso. - Ciò significa che entro i cinquant'anni le cellule si sono divise circa ottocento volte. E a ogni divisione delle cellule aumenta il rischio di errori nel Dna dello sperma -. Una volta che Pegeen le avesse fornito l'altra metà della storia, avrebbe potuto valutare in modo piú completo la situazione e collaborare con loro se avessero voluto andare oltre. Gli diede il suo biglietto, e un opuscolo che spiegava minuziosamente natura e rischi dei difetti congeniti. Spiegò anche che alla sua età la fertilità poteva essere minore, e cosí, su sua richiesta, lo indirizzò a un laboratorio dove farsi analizzare lo sperma. A quel modo avrebbero potuto prevedere eventuali difficoltà per il concepimento. - Può esserci un problema - gli disse - di numero, motilità o morfologia dello sperma. - Capisco, - disse lui e, per esprimere il suo incontenibile senso di gratitudine, le afferrò la mano e la strinse. La dottoressa gli sorrise come se fosse lei la piú vecchia dei due e disse: - Mi chiami se ha qualche domanda.

Tornato a casa, Axler senti un bisogno impellente di telefonare a Pegeen per raccontarle la grande idea che si era impossessata di lui e ciò che aveva fatto per metterla in pratica. Ma quella conversazione avrebbe dovuto aspettare fino a quando si fossero incontrati il weekend successivo, e allora avrebbero avuto ore e ore per parlare. Solo nel suo letto, quella sera, lesse l'opuscolo che gli aveva dato la dottoressa Wan. «Per avere un bambino sano ci vuole sperma sano... Dal 2 al 3 per cento di tutti i bambini nasce con gravi difetti congeniti... Piú di 20 disturbi genetici, rari ma devastanti, sono stati collegati a padri non piú giovani... Piú vecchio è l'uomo quando concepisce un bambino, maggiore la probabilità che la sua partner abortisca... I padri piú anziani hanno maggiori probabilità di avere figli che soffrono di autismo, schizofrenia e sindrome di Down...» Lesse una volta l'opuscolo da cima a fondo, poi una seconda volta, e anche se certe informazioni lo costrinsero a riflettere, consapevole com'era ormai dei rischi, non permise a ciò che lesse di distoglierlo dai suoi progetti. Troppo eccitato per riuscire a prender sonno, pensando che stava succedendo qualcosa di magnifico, fini per trovarsi nel soggiorno e li, ulteriormente rallegrato dalla musica che stava ascoltando, insieme a un coraggio che non provava da anni, senti quel profondo desiderio biologico di un figlio che comunemente viene associato piú alle donne che agli uomini. Gli sembrava che non ci fosse piú nulla di improbabile nel loro stare insieme. Pegeen doveva accompagnarlo dalla dottoressa Wan. Quando ognuno avesse conosciuto tutta la storia, insieme avrebbero studiato seriamente il passo successivo.

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