Copertina
Autore Philip Roth
Titolo La mia vita di uomo
EdizioneEinaudi, Torino, 2011, Supercoralli , pag. 380, cop.ril.sov., dim. 14x22x2,7 cm , Isbn 978-88-06-20514-0
OriginaleMy Life as a Man [1974]
TraduttoreNorman Gobetti
LettoreLuca Vita, 2012
Classe narrativa statunitense
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Indice


  3   Utili finzioni

  5   Anni verdi
 38   Corteggiare il disastro (ovvero: Serio negli anni '50)


111   La mia vera storia

115   Peppy
145   Susan: 1963-1966
192   Matrimonio «à la mode»
230   Il dottor Spielvogel
302   Libero


 

 

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Pagina 5

Anni verdi


Prima, innanzitutto, l'educazione protetta da cucciolo viziato. A diciassette anni adorato antagonista di quel tenace e irruente ciabattino (tutto qui, amava dire, un umile ciabattino, ma aspettate e vedrete), un uomo che al figlio dava da leggere Dale Carnegie per temperarne l'arroganza, e il proprio esempio per ispirarla e rafforzarla. «Se non la pianti di guardare tutti dall'alto in basso, Natie, finirai per diventare un eremita, una persona odiata, il nemico del mondo...» Nel frattempo, nel suo negozio al piano di sotto, quel Polonio non mostrava altro che disprezzo per qualunque dipendente la cui ambizione fosse meno sfrenata della sua. Mr Z. - come veniva chiamato in negozio, e a casa dal figlio minore quando il giovanotto era su di giri - Mr Z. si aspettava, pretendeva, che entro la fine della giornata lavorativa il commesso e il magazziniere avessero entrambi un mal di testa altrettanto colossale del suo. Restava sempre sorpreso quando, al momento di licenziarsi, immancabilmente i commessi gli rivelavano quanto lo avessero odiato: si aspettava che un giovane non dovesse mostrare altro che gratitudine nei confronti di un capo che lo spronava incessantemente ad aumentare le proprie commissioni. Non riusciva a capire come qualcuno potesse preferire guadagnare meno quando avrebbe potuto avere di piú, semplicemente, come diceva Mr Z., «insistendo un pochetto». E se loro non insistevano, ci pensava lui: «Non ti preoccupare, - ammetteva con orgoglio, - non sono orgoglioso», con ciò intendendo, a quanto pareva, che non gli costava andare in collera al cospetto dell'imperfezione altrui.

E ciò valeva tanto per la manodopera salariata quanto per il sangue del suo sangue. Per esempio ci fu la volta (e il figlio non se ne sarebbe piú dimenticato... anzi, è possibile che la cosa abbia contribuito a spronarlo a diventare «uno scrittore»), ci fu la volta in cui il padre intravide la firma del suo piccolo Nathan nella prima pagina di un libricino che aveva preparato per la scuola, e si mise a fare il diavolo a quattro. Quel moccioso di nove anni si era montato la testa e dalla firma lo si capiva subito. E il padre lo sapeva. «È questo il modo in cui ti hanno insegnato a scrivere il tuo nome, Natie? Sarebbe questa la firma che la gente dovrebbe leggere e rispettare? Chi cavolo la può leggere una cosa che sembra la carcassa di un treno deragliato! Dio santo, ragazzo, questo è il tuo nome. Scrivilo bene!» In seguito il figlio presuntuoso del ciabattino presuntuoso restò per ore chiuso in camera a piangere a squarciagola, strozzando nel frattempo il cuscino a mani nude fino ad ammazzarlo. E tuttavia, quando all'ora di andare a letto venne fuori in pigiama, reggeva dagli angoli superiori un foglio bianco con impresse al centro in inchiostro nero le lettere del suo nome, tonde e ben leggibili. Lo porse al tiranno: - Cosí va bene? - e un istante dopo venne innalzato nel paradiso dell'ispida peluria serale sul mento del padre. - Ah, ecco, questa è una firma! Di questa puoi andare fiero! Questa la posso appendere sopra il bancone del negozio! - E fu esattamente quel che fece, e poi invitava i clienti (perlopiú neri) dietro il registratore di cassa, dove potevano dare un'occhiata da vicino alla firma del piccoletto. - Che ne dice di questa! - domandava, manco fosse l'autografo di Abraham Lincoln in calce al Proclama di Emancipazione.

Cosí andavano le cose sotto la protezione di quella sconcertante dinamo. Una volta che erano usciti in mare per pescare lungo la costa, e lo zio Philly ritenne opportuno dare una scrollata a Nathan perché aveva fatto un'imprudenza con l'amo, il ciabattino minacciò di buttare giú Philly dalla barca per aver alzato le mani su suo figlio. - L'unico che ha il diritto di toccarlo sono io, Philly! - Sí, aspetta e spera... - borbottò Philly. - Toccalo ancora una volta, Philly, - disse il padre furioso, - e finisci a parlare con i pesci azzurri, te lo giuro! A parlare con le anguille! - Ma poi, tornati alla pensione dove gli Zuckerman alloggiavano per le due settimane di vacanza, Nathan, per la prima e unica volta nella sua vita, fu percosso con una cintura per aver quasi cavato un occhio allo zio mentre faceva lo scemo con quel dannato amo. Quando ebbe ricevuto i suoi tre colpi, Nathan restò stupefatto al vedere che, al pari del suo, anche il viso del padre era bagnato di lacrime, e poi - cosa ancora piú stupefacente - si trovò stritolato dal suo abbraccio. - Un occhio, Nathan, l' occhio di una persona... lo sai cosa significa per un uomo fatto affrontare la vita senza occhi?

No, non lo sapeva; non piú di quanto sapesse cosa significhi essere un bambino senza padre, e non piú di quanto volesse saperlo, benché si sentisse il culo in fiamme.

Negli anni fra le due guerre, il padre aveva fatto bancarotta due volte: l'abbigliamento maschile di Mr Z. alla fine degli anni '20, l'abbigliamento per bambini di Mr Z. all'inizio degli anni '30; eppure mai una volta a un figlio di Z. erano mancati tre pasti nutrienti al giorno, pronta assistenza medica, abiti decenti, un letto pulito o qualche monetina in tasca come «paghetta». Gli affari andavano a rotoli, ma la famiglia no, perché non andava a rotoli il capofamiglia. Durante quegli anni bui di stenti e penurie, il piccolo Nathan non aveva la minima idea che in casa sua ci si trovasse sull'orlo di qualcosa di diverso da un perfetto appagamento, tanto rassicurante era la fiducia in se stesso di quel padre vulcanico.

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Pagina 56

Alle sei di sera, dopo cinque ore di lavoro sulla mia narrativa e un'ora passata a rinfrescare il mio francese - avevo in programma un viaggio in Europa durante le vacanze estive - tornavo in bicicletta all'università per cenare in mensa, dove già avevo consumato i miei pasti da studente. Le tonalità scure del legno della pannellatura e i ritratti degli illustri defunti dell'università appesi alle pareti del refettorio soddisfacevano il mio forte gusto per il decoro istituzionale. In un tale ambiente mi sentivo perfettamente appagato dal mangiare in solitudine; anzi, non avrei accolto con sfavore la prospettiva di cenare in quella sala per il resto dei miei giorni mangiando stufati e tortini di carne da un vassoio. Prima di tornare nel mio appartamento per correggere un settimo della pila settimanale di temi delle mie sessanta e qualcosa matricole (tutti quelli che riuscivo ad affrontare in un'unica seduta) e preparare la lezione del giorno successivo, indugiavo per una mezz'oretta nei negozi di libri usati delle vicinanze. Possedere una mia «biblioteca» era la mia unica ambizione materialistica; di fatto, mentre sceglievo i due libri da comprare quella settimana fra le migliaia disponibili, la mia agitazione montava al punto che, quando veniva il momento di concludere l'acquisto, mi toccava usare il gabinetto della libreria. Credo che nessun microbo o lassativo abbia mai avuto su di me un effetto potente quanto scoprire che tutt'a un tratto sarei entrato in possesso di una copia un po' imbrattata dei Sette tipi di ambiguità di William Empson, nell'edizione inglese originale.

Alle dieci, dopo aver terminato di preparare le lezioni, andavo in un locale frequentato dagli studenti degli ultimi anni, dove di solito mi imbattevo in qualcuno che conoscevo e bevevo una birra... una birra, una partita a calcetto e poi di nuovo a casa, perché prima di dormire avevo ancora da sottolineare e annotare cinquanta pagine di una qualche opera fondamentale della letteratura europea che non avevo ancora letto oppure che la prima volta avevo letto male. Lo definivo «colmare le lacune». Leggere - e annotare - cinquanta pagine ogni sera faceva una media di tre libri al mese, ovvero trentasei all'anno. Sapevo anche approssimativamente quanti racconti sarei riuscito a scrivere in un anno, se vi avessi dedicato trenta ore alla settimana; e approssimativamente quanti temi dei miei studenti sarei riuscito a correggere in un'ora; e quanto sarebbe diventata grande la mia «biblioteca» in un decennio, se avessi continuato a potermi permettere lo stesso numero di libri alla settimana. Ed ero compiaciuto dal fatto di sapere tutte quelle cose, e ancora oggi sono compiaciuto dal fatto che allora le sapessi.

Mi consideravo ricco di beni spirituali quanto un giovane poteva esserlo; quanto ai beni mondani, cosa mi sarebbe potuto servire che già non possedessi? Avevo una bicicletta con cui girare per il quartiere e fare esercizio fisico, una Remington portatile (dono dei miei genitori per il diploma), una valigetta (loro dono per la licenza media), un orologio Bulova (loro dono per il bar mitzvah); serbavo ancora dai giorni di studente una giacca di tweed per fare lezione, molto amata e molto usata, con tanto di toppe di pelle ai gomiti, i pantaloni militari per scrivere e bere birra, un abito nuovo di tessuto scozzese marrone quando volevo mettermi elegante, un paio di scarpe da tennis, un paio di scarpe di cuoio cordovano, un paio di pantofole vecchie di un decennio, un maglione con lo scollo a V, qualche camicia e qualche paio di calze, due cravatte a strisce, e lo stesso tipo di slip di cotone e canottiere a coste che portavo da quando mi ero tolto il pannolino, Fruit of the Loom. Perché cambiare marca? Mi ci ero sempre trovato bene. L'unica cosa che volevo per trovarmi ancora meglio erano altri libri su cui apporre il mio nome. E un viaggio di due mesi in Europa per vedere i monumenti celebri e i paesaggi immortalati dalla letteratura. Due volte al mese mi meravigliavo di trovare nella cassetta delle lettere un assegno da centoventicinque dollari da parte dell'università. Perché diamine mi spedivano dei soldi? Sarei stato io a doverli pagare per il privilegio di condurre una vita tanto piena, indipendente e decorosa.

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Pagina 69

Nel secondo semestre di quel - non ci sono altre parole per dirlo; se puzza di soap opera non è per caso - di quell'anno fatale, mi chiesero di insegnare, oltre al mio programma abituale, anche al corso serale di «scrittura creativa» nella sede distaccata dell'università giú in centro, un'unica sessione di tre ore consecutive ogni lunedí sera, per uno stipendio di duecentocinquanta dollari al semestre. Mi parve un'altra manna dal cielo: una traversata andata e ritorno a tariffa turistica sul transatlantico Rotterdam. Quanto agli studenti, erano a malapena al corrente delle regole della sintassi e dell'ortografia, e di conseguenza, scoprii, non capirono un acca del discorso introduttivo alla cui preparazione, con la mia tipica scrupolosità, avevo dedicato un'intera settimana in vista del nostro primo incontro. Col titolo Strategie e intenzioni della narrativa, era pieno di lunghe e (pensavo) «salienti» citazioni dalla Poetica di Aristotele, dalla corrispondenza di Flaubert, dai diari di Dostoevskij e dalle prefazioni critiche di James... Citavo solo dai maestri, mi riferivo solo a monumenti: Moby Dick, Anna Karenina, Delitto e castigo, Gli ambasciatori, Madame Bovary, Ritratto dell'artista da giovane, L'urlo e il furore.

Quello che nell'Arte mi sembra il piú alto e difficoltoso conseguimento non è suscitare in noi riso o lacrime, rabbia o lussuria, ma fare quel che fa la natura: vale a dire colmarci di stupefazione. Le opere piú belle hanno in effetti tale qualità. Sono di aspetto sereno, indecifrabili... spietate.

Flaubert in una lettera a Louise Colet («1853, - spiegai loro in responsabile tono erudito, - da un anno stava scrivendo Madame Bovary»).

La casa della narrativa in breve non ha una sola finestra ma un milione... ognuna delle quali è stata aperta, o è ancora apribile, sulla sua vasta fronte, dalla necessità della visione e dalla pressione della volontà individuale.

James, la prefazione a Ritratto di signora. Conclusi con una lunga lettura dalla fondamentale introduzione di Conrad al Negro del «Narcissus» (1897):

L'artista scende dentro di sé, e nella solitudine di questa regione di travagli e lotte, se ne è degno e se ne ha la fortuna, egli scopre i termini del suo richiamo. È un richiamo rivolto alle nostre facoltà meno palesi: a quella parte della nostra natura che, per lo stato di guerra dell'esistenza, è mestiere tenere nascosta dentro a qualità piú dure e resistenti - come il corpo vulnerabile in un'armatura d'acciaio. Il suo richiamo è meno altisonante, piú profondo, meno preciso, piú toccante - e piú rapidamente dimenticato.

Eppure il suo effetto è eterno. La sapienza in continuo mutamento delle generazioni che si susseguono scarta idee, contesta fatti, demolisce teorie. Ma l'artista si richiama a quella parte dell'esser nostro che non dipende da sapienza; a ciò che in noi è dono e non cosa acquisita - piú durevole, quindi, e permanente. Egli parla alla nostra facoltà di gioia e di meraviglia, al senso del mistero che circonda le nostre vite; al senso della pietà, della bellezza, e del dolore; al sentimento latente di comunanza col resto del creato - e all'elusiva ma invincibile fede in una solidarietà che unisce la solitudine di cuori innumerevoli, a quella solidarietà nei sogni, nella gioia, nel dolore, nelle aspirazioni, nelle illusioni, nella speranza, nella paura, che lega gli uomini l'uno all'altro, che lega tutta insieme l'umanità - i morti ai vivi e i vivi a coloro che verranno...

Quando terminai di leggere le mie venticinque pagine e chiesi se c'erano domande, con mia sorpresa e delusione ce ne fu solo una; dato che la persona con la mano alzata era l'unica nera della classe, mi domandai se, dopo tutto quel che avevo detto, lei avesse intenzione di spiegarmi che era stata offesa dal titolo del romanzo di Conrad. Stavo già preparandomi una risposta che prendesse spunto dalla sua suscettibilità per affrontare il tema della franchezza nella narrativa - della narrativa come smascheramento dei segreti e dei tabú - quando quella donna magra di mezza età in severo abito scuro e berretto senza tesa si alzò in piedi mettendosi sull'attenti in segno di rispetto: - Professore, so che quando si scrive una lettera amichevole a un bambino, sulla busta si scrive «Signorino». Ma se si scrive una lettera amichevole a una bambina? Si scrive «Signorina»... o cosa si deve scrivere?

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Pagina 104

Nel corso di un'unica domenica pomeriggio potevano svolgersi anche due o tre scene orribili come questa: amalgami, a mio modo di vedere, di soap opera (di nuovo quel genere), di Dostoevskij e delle leggende sulle famiglie dei gentili che mi venivano raccontate da bambino, di solito dai miei nonni immigrati, che non avevano mai dimenticato la vita che avevano fatto fra i contadini polacchi. Come negli alterchi delle soap opera, la ferocia emotiva della litigata eccedeva di anni luce la questione del contendere, che quasi sempre di per sé avrebbe potuto essere risolta con un minimo di logica, di umorismo o di buon senso. E invece, come nelle scene di conflitti familiari in Dostoevskij, in quelle domeniche c'era una violenza omicida nell'aria, di cui non ci si poteva sbarazzare con una risata o un ragionamento: fra quelle due femmine dello stesso sangue correva un'animosità cosí profonda che, benché la loro fosse la classica diatriba americana sui compiti a casa (il soggetto non dei Demoni o dei Fratelli Karamazov ma delle trasmissioni radiofoniche di Henry Aldrich o dei film di Andy Hardy), non era impossibile (da un'altra stanza) immaginare che si stessero affrontando con una pistola, un'accetta, un capestro o un tizzone ardente. Di fatto la scaltrezza e la devastante cocciutaggine della bambina non mi infastidivano quanto l'insistenza di Lydia. Potevo facilmente figurarmi, e anche comprendere, una Monica che premeva il grilletto - bang, bang, sei morta, basta sottrazioni indebite - ma a turbarmi e terrorizzarmi era l'immagine di Lydia che cercava di costringere con la forza a una vita migliore la bambina urlante.

Era Ketterer a farmi tornare in mente quei racconti con morale a proposito della brutalità dei gentili che, alla fine dell'adolescenza, avevo cominciato a rifiutare come irrilevanti per il tipo di vita che intendevo condurre. Per quanto emozionanti e avvincenti per un bambino indifeso - storie che facevano rizzare i capelli, storie del «loro» alcolismo, della «loro» violenza, del «loro» imperituro odio per noi, storie di criminali oppressori e vittime innocenti che non potevano non esercitare una forte attrazione negativa su qualunque bambino ebreo, e soprattutto su uno il cui corpo era quello di un perdente -, quando divenni grande e mi sforzai di disfarmi della psicologia e del fisico della mia infanzia di invalido, allontanai da me quei racconti con tutta la veemenza resa necessaria dalla mia missione. Non dubitavo che si trattasse di descrizioni accurate di quel che avevano patito gli ebrei; avendo alle spalle i campi di sterminio, non avrei mai osato dire, neppure sull'onda della rettitudine adolescenziale, che quelle storie fossero esagerate. Nondimeno (comunicai alla mia famiglia), dal momento che ero un ebreo nato non nella Norimberga del ventesimo secolo, o nella Leopoli del diciannovesimo secolo, o nella Madrid del quindicesimo secolo, ma nello stato del New Jersey nello stesso anno dell'insediamento di Franklin Roosevelt... eccetera eccetera. Ormai la diatriba del figlio americano di seconda generazione è sufficientemente nota. La veemenza con cui facevo presente la mia posizione mi portava a difendere posizioni ridicole: per esempio, quando mia sorella sposò il suo primo marito, un uomo che chiunque avrebbe considerato indegno (e che di sicuro a quindici anni io trovavo ripugnante, con i polsini della camicia bianca rimboccati due volte, i mocassini bianchi in pelle di vitello, l'anello d'oro al mignolo e il modo in cui quelle mani abbronzate toccavano ogni cosa, il portasigarette, i suoi capelli, la guancia di mia sorella, come se fosse di seta: l'intera versione effeminata del teppismo), nondimeno rimproverai aspramente i miei genitori per la loro opposizione alla scelta di Sunny, sostenendo che, se voleva sposare un cattolico, era suo diritto. Nell'angoscia del momento, loro non compresero il mio punto di vista, cosí come io, nella mia nobile permissività, non compresi il loro; alla fine naturalmente furono loro a rivelarsi profetici, e si presero la propria rivincita. Solo qualche anno dopo, quando anch'io disponevo finalmente di me stesso, riuscii ad ammettere che l'aspetto desolante e ridicolo dei matrimoni di mia sorella non era tanto il suo debole per i ragazzi italiani di South Philadelphia, ma il fatto che entrambe le volte avesse scelto i due che confermavano, quasi in ogni dettaglio, i pregiudizi della mia famiglia verso di loro.

Per quanto a posteriori possa apparire ottuso - come molti altri aspetti della mia vicenda -, solo quando Ketterer e Monica entrarono nella mia vita cominciai a dubitare di essere meno perverso di mia sorella; lo ero anzi di piú, perché, a differenza di Sunny, io perlomeno ero cosciente di quali avrebbero potuto essere le conseguenze. Non che fossi mai stato all'oscuro di tutto ciò che, nel retroterra di Lydia, convalidava le osservazioni delle mie nonne a proposito del disordine e della corruzione dei gentili. Quand'ero bambino, naturalmente nessuno mi aveva mai menzionato l'incesto, ma è evidente che se una di quelle due semplici immigrate fosse stata ancora viva per apprendere nella sua interezza la storia dell'orrore di Lydia, non sarebbe rimasta scioccata quanto me, il loro nipote professore al college, dai suoi piú raccapriccianti dettagli. Ma anche senza un caso di incesto in famiglia, ce n'era piú che abbastanza per mettere in crisi un ragazzo ebreo: la madre per nulla materna, il padre per nulla paterno, le zie bigotte e incapaci di amore... Le mie nonne non avrebbero potuto inventare una shiksa con un curriculum piú sinistro e, a loro modo di vedere, piú rappresentativa rispetto a quella scelta dal loro gracile Nathan. Certo, il dottor Goebbels o il maresciallo dell'aria Göring magari avevano una figlia in qualche angolo del mondo ma, come perfetto esemplare della sua specie, anche Lydia faceva la sua figura. Questo lo sapevo; però la Lydia che io avevo scelto, a differenza degli eletti di Sunny, detestava anche lei il proprio retaggio. In parte, quel che in lei era tanto attraente (per me, per me) era proprio il prezzo che aveva pagato per disconoscerlo: quel retroterra l'aveva fatta diventare pazza, eppure era sopravvissuta e aveva raccontato la storia, l'aveva scritta, e scritta per me.

Invece Ketterer e la figlia Monica, che di fatto facevano parte insieme a Lydia dello stesso pacchetto, non erano né interpreti né cronisti distaccati né nemici del loro mondo. Anzi, erano l'incarnazione di ciò che i miei nonni, e bisnonni, e trisnonni, avevano temuto e detestato: la violenza criminale degli shagitz, la scaltrezza delle shiksa. Per me erano come figure uscite dalle leggende popolari del passato ebraico, solo che erano reali, proprio come i siciliani di mia sorella.

Naturalmente non potevo restare a lungo ipnotizzato da quel fatto senza reagire. Bisognava fare qualcosa. All'inizio questo qualcosa consistette perlopiú nel consolare Lydia dopo i suoi fallimentari approcci educativi; poi cercai di convincerla a lasciar stare Monica, a rinunciare a salvarla nel corso di quelle domeniche e a limitarsi a farla contenta quanto poteva in quelle poche ore che passavano insieme. Era lo stesso tipo di consiglio di buon senso che riceveva dalla dottoressa Rutherford, ma neppure noi due insieme, nonostante la considerevole influenza che avevamo su di lei, riuscivamo a impedire che prima che la giornata terminasse lei cedesse alla sua frenetica pulsione pedagogica, bombardando Monica con un corso accelerato di matematica, grammatica e buone maniere femminili prima che giungesse Ketterer a rapirla e ricondurla nella sua caverna nel sobborgo di Homewood, alla periferia di Chicago.

Poi segui quel che segui. Divenni io l'insegnante domenicale della bambina, quando non ero prostrato da un'emicrania. E lei cominciò a imparare, o a cercare di farlo. Le insegnai semplici sottrazioni, le mostrai semplici addizioni, insieme ai nomi degli stati che confinano con l'Illinois, le insegnai a distinguere l'Atlantico dal Pacifico, Washington da Lincoln, il punto dalla virgola, la frase dal paragrafo, la lancetta grande da quella piccola. Quest'ultima cosa riuscii a esemplificarla facendola stare in piedi muovendo le braccia come se fossero state le lancette dell'orologio. Le feci imparare la poesia che avevo composto a cinque anni mentre ero a letto con la febbre, il mio primo successo letterario, secondo la mia famiglia: «Mogio mogio, Nathan è un orologio». - Mogia mogia, - diceva lei, - Monica è un'orologia», e metteva le braccia nella posizione delle nove e un quarto, cosí che l'abito bianco per la chiesa, che di mese in mese si faceva piú attillato, tirava sulle piccole bolle dei suoi seni. Ketterer finí per odiarmi, Monica per innamorarsi di me e Lydia per accettarmi quantomeno come strumento della sua salvezza. Trovò la via di fuga dall'abiezione della sua vita, e io, al servizio della Perversità o Cavalleria o Morale o Misoginia o Santità o Follia o Rabbia Frustrata o Malattia Psichica o Pura Pazzia o Innocenza o Ignoranza o Esperienza o Eroismo o Giudaismo o Masochismo o Odio Per Me Stesso o Sfida o Soap Opera o Opera Romantica o forse Arte Narrativa, o nessuna di queste cose, o forse tutte e altre ancora, trovai la via d'accesso all'abiezione della mia. Non sarei stato capace, a suo tempo, dopo aver cenato in mensa di spendere cento dollari nei libri di seconda mano he desideravo per realizzate il mio sogno di una «biblioteca» con la disinvoltura e semplicità con cui ho dissipato la mia vita di uomo.

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Pagina 150

L'eventualità che tali episodi avessero a ripetersi in futuro mi allarmava. Mia sorella e mio fratello sosterrebbero, credo, che fosse stata in larga parte proprio la storia dei crolli emotivi di Susan a intrigarmi e attrarmi, e che la mia apprensione per ciò che sarebbe potuto accaderle, date le inevitabili tensioni e pressioni di un matrimonio, fosse il primo segno, da quando ero diventato adulto, del fatto che possedessi un minimo di buon senso riguardo alle donne. Da parte mia, io non considero tali apprensioni in modo altrettanto categoricamente positivo; ancora non capisco, da un giorno all'altro, se debbano essere causa di sollievo o di rimorso.

Poi c'era la penosa faccenda dell'irraggiungibile orgasmo: per quanto lei si sforzasse per raggiungere il climax, «quello» non arrivava mai. E, naturalmente, piú lei si dava da fare, piú la vita erotica diventava una fatica invece che un piacere. D'altro canto, l'intensità del suo sforzo era commovente come ogni altra cosa in lei, perché all'inizio si accontentava di aprire un po' le gambe e starsene lí sdraiata, un pozzo da pompare se qualcuno ne aveva voglia, e lei non riusciva a immaginare perché qualcuno avrebbe dovuto averne voglia, e sí che era avvenente e ben fatta. Ci volle un bel po' di incoraggiamento e, al principio, qualche rimprovero, per convincerla a essere qualcosa di piú di un pezzo di carne su uno spiedo che potevi rigirare di qua e di là finché non concludevi; lei non concludeva mai, anche perché non aveva neppure iniziato.

Che spettacolo era osservare l'appetito che si risvegliava in quella timida e ritrosa creatura! E l'audacia... perché se solo ne avesse avuto l'audacia, avrebbe davvero potuto avere quel che voleva! Me la vedo ancora, in bilico a un soffio dal successo. La gola che pulsa all'impazzata, la mascella tesa e spalancata, gli occhi grigi pieni di brama: manca un metro, dieci centimetri, un centimetro al nastro, alla vittoria sul passato di abnegazione! Oh sí, ci ricordo bene alle prese con le nostre oneste sgobbate: gli inguini che sfregano come per triturare le ossa, le dita aggrappate alle natiche, la pelle lucida di sudore dalla testa ai piedi, le guance avvampate (mentre ci avviciniamo al collasso totale) premute l'una contro l'altra con tale forza che dopo la faccia di lei è livida e chiazzata, mentre la mia mi fa ancora male quando la mattina dopo mi faccio la barba. Sinceramente, ho pensato spesso che sarei morto per un arresto cardiaco. - Ma per una buona causa, - sussurro quando Susan dà infine segno di volere gettare la spugna per quella notte; passando un dito sullo zigomo e sul ponte del naso, controllo se ci sono lacrime, o meglio, se c'è la lacrima; di rado se ne concede piú d'una, quel toccante ibrido di coraggio e fragilità. - Oh, - bisbiglia, c'ero quasi quasi quasi... - Davvero? - Ed ecco la lacrima. - Sempre, - dice, - quasi. - Prima o poi succederà. - No. Lo sai che non succederà. Probabilmente quello che io chiamo «quasi» è il punto da cui tutti gli altri partono. - Ne dubito. - Tu non... Peter, la prossima volta, quello che stai facendo... fallo... piú forte -. E cosí facevo di qualunque cosa si trattasse, piú forte, o piú piano, o piú veloce, o piú lento, o piú in fondo, o meno in fondo, o piú in alto, o piú in basso, secondo le sue indicazioni. Oh, quanto la signora Susan Seabury McCall di Princeton e Park Avenue cercava di essere ardita, di essere vogliosa, di essere volgare («Mettimelo...» «Sí, dillo, Suzie...» «Oh, mettimelo dentro da dietro, ma non farmi male...!») Non che, naturalmente, vivere di benzedrine in un dormitorio di Wellesley nel 1951 non avesse rappresentato un atto ardimentoso da parte di una giovane ereditiera educata in società, disciplinata dalla madre e viziata dal padre, proveniente da un'esimia famiglia del New Jersey che vantava, da parte di padre, un senatore degli Stati Uniti e un ambasciatore in Inghilterra e, da parte di madre, diversi baroni dell'industria del diciannovesimo secolo. Ma quello stratagemma era stato architettato per annientare la tentazione; ora invece lei voleva volere... A prima vista era una cosa esaltante, ma alla lunga anche estremamente spossante, e la verità era che, al terzo anno della nostra relazione, eravamo entrambi ridotti allo stremo e andavamo a letto insieme come operai di un'industria bellica costretti a fare ogni notte gli straordinari: per una buona causa, per un buon compenso, ma, Cristo, quanto ci sarebbe piaciuto che la guerra fosse conclusa e vinta e che noi potessimo riposare felici e contenti.

Naturalmente adesso mi domando se per Susan non sarebbe stato meglio se l'avessi lasciata in pace e avessi smesso di insistere perché venisse. - A me non importa, - mi aveva detto quando per la prima volta avevo messo in tavola quello scottante argomento. Io suggerii che forse avrebbe dovuto importarle. - Perché non pensi a divertirti tu... - disse lei. Io precisai che la questione non era «divertirmi». - Oh, non farla tanto grossa, - osò mormorare lei... poi, supplichevole: - Ti prego, che differenza fa per te in fondo? - Avrebbe fatto differenza, dissi, per lei. - Oh, piantala con questo tono da buon samaritano del sesso, per favore. Semplicemente non sono una ninfomane e non lo sono mai stata. Sono quel che sono, e a tutti gli altri è sempre andata bene cosí... - Ah, sí? - No! - ed ecco la lacrima. Cosí le sue resistenze presero a sgretolarsi, e la lotta, cui avevo dato inizio io e di cui io ero complice e istigatore, cominciò.

A questo punto dovrei precisare che lo scottante argomento era stato fonte di problemi già fra me e Maureen: anche lei non riusciva a raggiungere il climax, ma sosteneva che ciò che glielo impediva era il mio «egoismo». Tipicamente, aveva confuso le acque portandomi a credere per lunghissimo tempo che lei e gli orgasmi fossero in ottimi rapporti, e che io non potessi trattenerla dal venire piú di quanto uno steccato di paletti potesse fermare una valanga. Per quasi un anno di matrimonio, continuai ad assistere meravigliato al crescendo di passione che sarebbe culminato in un sostenuto grido d'estasi quando io iniziavo a eiaculare; diciamo pure che le mie eiaculazioni impallidivano al cospetto dei suoi chiassosi contorcimenti. Venne dunque come un fulmine a ciel sereno (per coniare una frase appropriata a queste avventure) scoprire che in realtà fingeva, simulando quei melodrammatici orgasmi, mi spiegò, per non mettermi di fronte alla realtà della mia inadeguatezza come amante. Ma per quanto avrebbe potuto sostenere quella finzione pur di rafforzare il mio senso di virilità? A lei chi ci pensava? Voleva proprio saperlo. Dopodiché mi toccò sentirmi ripetutamente dire che persino Mezik, il bruto che era stato il suo primo marito, persino Walker, l'omosessuale che era stato il secondo, sapevano soddisfare una donna piú di quell'egoista, inetto, dubbio eterosessuale che ero io.

Oh, troia squilibrata (se il vedovo può concedersi un istante per rivolgersi al fantasma della moglie), la morte per te è troppo poco. Perché non esiste davvero un inferno con tanto di fuoco e zolfo? Perché non esistono il diavolo e la dannazione? Perché non esiste piú neppure il peccato? Oh, se solo io fossi Dante, Maureen, allora sí che saprei come scrivere di te!

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Pagina 230

Il dottor Spielvogel


                    Possiamo suscitare [nel paziente] la gelosia o infliggergli
                    il dolore della delusione amorosa, ma a tal fine non è
                    necessario alcuno speciale accorgimento tecnico. Nella
                    maggior parte delle analisi tali cose accadono
                    spontaneamente.

                    SIGMUND FREUD, Analisi terminabile e interminabile, 1987.



Incontrai per la prima volta il dottor Spielvogel l'anno in cui io e Maureen ci sposammo. Avevamo lasciato il mio appartamento nel Lower East Side per trasferirci in una piccola casa in campagna nei pressi di New Milford, Connecticut, non lontano da dove Spielvogel e la sua famiglia stavano passando l'estate sul lago Candlewood. Maureen avrebbe coltivato l'orto e io avrei scritto i capitoli finali di Un padre ebreo. Di fatto, i semi nella terra non ci finirono mai (e nemmeno il pane nel forno, o le conserve nei barattoli) ma, dal momento che ai margini del bosco sul retro della casa c'era una baracca di quattro metri per quattro con il lucchetto alla porta, in qualche modo il libro giunse al termine. Quell'estate vidi Spielvogel due o tre volte a qualche festa data dal redattore di una rivista di New York che viveva nei paraggi. A quanto ricordo, io e il dottore non avevamo molto da dirci. Lui portava un berretto da velista, quell'analista newyorkese che passava l'estate nella campagna del Connecticut, ma a parte questo aveva un aspetto dignitoso e insieme modesto: un uomo sui quarantacinque anni, alto, silenzioso e riservato, che stava mettendo su carne, con un lieve accento tedesco e quell'anomalo berretto da velista. Non avevo nemmeno fatto caso a chi fosse sua moglie; in seguito scoprii che lui invece aveva fatto caso a quale fosse la mia.

Quando, nel giugno del '62, si rese necessario, a parere di mio fratello, che io restassi a New York e mi rivolgessi a uno psichiatra, tirai fuori il nome di Spielvogel; quell'estate degli amici in Connecticut me ne avevano parlato bene e, se ricordavo giusto, curare le persone «creative» avrebbe dovuto essere la sua specialità. Non che, nelle condizioni in cui mi trovavo, per me facesse una gran differenza. Benché continuassi a scrivere ogni giorno, in pratica avevo smesso di considerarmi una persona capace di creare alcunché, a parte la mia propria infelicità. Qualunque fosse il modo in cui occupavo le ore diurne, non ero piú uno scrittore: ero il marito di Maureen, e non riuscivo a immaginare come avrei mai potuto tornare a essere qualcos'altro.

In quei tre anni il suo aspetto, al pari del mio, era cambiato in peggio. Mentre io combattevo con Maureen, Spielvogel aveva combattuto contro il cancro. Lui era sopravvissuto, però la malattia pareva averlo in qualche modo rimpicciolito. Certo, io lo ricordavo abbronzato e con il berretto da velista; invece nel suo studio indossava un abito scialbo che sarebbe stato meglio a un uomo con una taglia in piú, e una camicia a righe sorprendentemente ardita con un colletto che gli stava larghissimo. Era esangue, e gli occhiali dalla pesante montatura nera rendevano ancora piú clamoroso il suo rimpicciolimento: dietro di essi, sotto di essi, la sua testa pareva un teschio. Inoltre ora camminava zoppicando, o sbandando, un po' a sinistra, dove evidentemente il cancro gli aveva deteriorato l'anca o la gamba. Nel complesso, il medico che mi ricordava di piú era il dottor Roger Chillingworth nella Lettera scarlatta di Hawthorne. Cosa alquanto appropriata, dato che io sedevo di fronte a lui pieno di vergognosi segreti come il reverendo Arthur Dimmesdale.

Io e Maureen avevamo vissuto un anno nel Connecticut occidentale, un anno all'American Academy a Roma e un anno all'università di Madison, e come conseguenza di quei continui trasferimenti non avevo mai trovato nessuno con cui fossi disposto a confidarmi. In quei tre anni mi ero convinto che sarebbe stato «sleale», un «tradimento», raccontare quel che succedeva fra me e Maureen in privato anche al piú intimo degli amici che mi ero fatto nel corso dei nostri vagabondaggi, sebbene immaginassi che chiunque potesse indovinarlo da quel che spesso avveniva in mezzo alla strada o a casa di altra gente. Soprattutto non mi sbottonavo con nessuno perché mi vergognavo della mia impotenza davanti ai suoi scoppi d'ira e avevo paura di ciò che lei avrebbe potuto fare a se stessa o a me, o alla persona con cui mi fossi confidato, se mai avesse scoperto quel che avevo detto. Seduto di fronte a Spielvogel, mentre spostavo lo sguardo imbarazzato dal suo cranio rimpicciolito alla fotografia incorniciata dell'Acropoli che era l'unica immagine sulla scrivania ingombra, mi resi conto che ancora non riuscivo a farlo: raccontare a quell' estraneo l'intera sordida storia del mio matrimonio mi pareva riprovevole quanto commettere un grave crimine.

- Ricorda Maureen? - domandai. - Mia moglie?

- Certo. Molto bene -. La sua voce, in contrasto col suo aspetto, era forte e vigorosa, e mi fece sentire ancora piú patetico e goffo... il canarino pronto a cantare. Mi veniva da alzarmi e andarmene, incapace com'ero di liberarmi della vergogna e dell'umiliazione (nonché del mio disastro), e allo stesso tempo di farmi prendere in braccio.

- Una giovane donna dai capelli scuri, piccola e graziosa, - disse. - Dall'aria molto determinata.

- Molto.

- Un bel fegato, direi.

- Dottore, è una pazza furiosa! - Scoppiai a piangere. Per cinque minuti buoni singhiozzai con la faccia fra le mani, finché Spielvogel domandò: - Ha finito?

Nei miei cinque anni di psicoanalisi ci sono delle battute per me memorabili quanto l'incipit di Anna Karenina: «Ha finito?» è una di esse. Tono perfetto, tattica perfetta. Mi voltai verso di lui, di scatto, o la va o la spacca.

Sí, sí, avevo finito. - Di questi tempi non faccio altro che piangere a dirotto... - Mi asciugai il viso con un Kleenex preso da una confezione che mi aveva allungato e mi disposi a «spifferare», parlando però non di Maureen (non ci riuscivo, cosí di punto in bianco) ma di Karen Oakes, la studentessa del Wisconsin di cui ero stato follemente innamorato nell'inverno e all'inizio della primavera di quell'anno. Da mesi tenevo d'occhio la sua bicicletta in giro per il campus, quando nel secondo semestre si presentò al mio corso di scrittura per gli studenti dei primi anni e si rivelò la ragazza piú in gamba della classe. Educata e di buon carattere, seducente miscuglio di risoluta innocenza e schiva avventatezza, Karen aveva un piccolo talento lirico come poetessa e scriveva acute, talvolta addirittura professorali analisi letterarie dei brani di narrativa che leggevamo a lezione; il suo candore e la sua lucidità, spiegai a Spielvogel, erano per me un balsamo al pari del suo temperamento mite, delle sue gambe affusolate e del suo viso grazioso e regolare da ragazza americana. Oh, mi dilungai su Ka-reen (il nomignolo con cui la chiamavo nell'intimità), sempre piú infervorato, man mano che parlavo, dai ricordi della nostra ardente «passione» e del nostro «amore» traboccante, senza far cenno al fatto che nel corso di tre mesi eravamo stati da soli in tutto per non piú di quarantott'ore, e di rado per piú di tre quarti d'ora di seguito; ci trovavamo o in aula con quindici studenti a farci da chaperon oppure nel suo letto. Nondimeno lei era stata, dissi, «la prima cosa buona» che mi capitasse nell'ambito della vita privata da quando ero stato congedato dall'esercito ed ero arrivato a New York per scrivere. Raccontai a Spielvogel come lei una volta si fosse definita «Miss Mezzafemminilità 1962»; lui non parve affascinato da quell'osservazione nemmeno la centesima parte di quanto lo ero stato io, ma del resto non aveva appena svestito per la prima volta la mezzafemmina che l'aveva pronunciata. Gli riferii i miei dubbi strazianti, e lo struggimento in cui avevo vissuto prima di decidermi, la terza settimana del semestre, a scrivere «Vediamoci» sulla prima pagina di uno dei suoi eccellenti compiti.

Lei venne, come le avevo chiesto, nel mio studio, e accettò il mio ossequioso, professionale invito a sedersi. In quei primi momenti gli ossequi si sprecarono. - Voleva vedermi? - Sí, Miss Oakes -. Segui un silenzio di una lunghezza e di una torbida eloquenza degni di Anton Cechov. - Lei da dove viene, Miss Oakes? - Da Racine. - E suo padre cosa fa? - È medico -. Poi, come se mi stessi buttando giú da un ponte, lo feci: allungai un braccio e posai una mano sui suoi capelli biondo paglierino. Miss Oakes deglutí e non disse niente. - Mi scusi, - dissi io. - Non sono riuscito a trattenermi -. Lei disse: - Professor Tarnopol, io non sono una persona sofisticata -. E a quel punto io cominciai a profondermi in scuse. - La prego, non si preoccupi, - disse lei, visto che non la smettevo, - un sacco di professori lo fanno. - Davvero? - domandò il premiato romanziere. - Finora è capitato ogni semestre, - disse lei, annuendo un po' stancamente, - e di solito è l'insegnante di inglese. - E di solito poi cosa succede? - Gli spiego che io non sono una persona sofisticata. Perché in effetti non lo sono. - E poi? - Basta, di solito. - Gli vengono i rimorsi di coscienza e si profondono in scuse. - Ci ripensano, presumo. - Come me. - E anche me, - disse lei senza sbattere le palpebre, - la dottrina dell' in loco parentis vale in entrambi i sensi. - Ascolta... - Sí? - Ascolta, io sono preso da te. Terribilmente preso. - Lei non mi conosce neanche, professor Tarnopol. - Ti conosco e non ti conosco. Ho letto i tuoi compiti. Ho letto i tuoi racconti e le tue poesie. - E io ho letto i tuoi -. Mio Dio, dottor Spielvogel, come può restarsene li seduto come un indiano? Non si rende conto del fascino di tutto ciò? Non capisce cosa significasse una conversazione simile per me, nella mia disperazione? - Ascolta, voglio vederti... devo vederti! - Va bene. - Dove? - Ho una stanza... - Io non posso entrare negli studentati, lo sai. - Sono all'ultimo anno. Non sto piú allo studentato. Mi sono trasferita. - Davvero? - Ho una stanza mia in città. - Posso venirti a parlare lí? - Certo.

Certo! Oh, che parolina meravigliosa, affascinante, disarmante, ammaliante! Per tutto il resto della giornata me ne andai in giro sibilandola fra me e me. - Com'è che sei cosí pimpante? - domandò Maureen. Certo. Cerrto. Cerrrto. Com'era poi che l'aveva pronunciata quella ragazza giovane e bella e acuta e disponibile e sana? Certo! Sí, semplicemente cosí, senza l'erre moscia. Certo! Oh sí, certo come certo è certo, Miss Oakes avrà un'avventura, il professor Tarnopol avrà un esaurimento nervoso... Quante ore erano trascorse prima che decidessi che alla fine del semestre sarei scappato con lei? Non cosí tante. La seconda volta che ci trovammo a letto, proposi l'idea a Ka-reen. A giugno saremmo andati in Italia, prendendo il volo Pan Am da Chicago (avevo già verificato per telefono) la sera stessa del giorno del suo ultimo esame; i voti finali avrei potuto mandarli da Roma. Non sarebbe stato formidabile? Oh, le dicevo con la faccia sepolta nei suoi capelli, voglio portarti da qualche parte, Ka-reen, voglio andar via con te! E lei mormorava piano: - Mmmmmm, mmmmmm, - un sussurro da me interpretato come deliziosa acquiescenza. Le raccontai delle adorabili piazze italiane in cui io e Maureen ci eravamo azzannati a sangue: Piazza San Marco a Venezia, Piazza della Signoria a Firenze, Piazza del Campo a Siena... Karen andò a casa per le vacanze primaverili e non tornò piú. Tanto mi ero trasformato in un personaggio opprimente e spaventevole. Quel sussurro era il suono che produceva la sua mente sana mentre valutava le terribili conseguenze dell'aver scelto, per cominciare una vita sofisticata fuori dallo studentato, quel particolare membro del corpo docente ossessionato dalla propria coscienza. Una cosa era leggere Tolstoj a lezione, un'altra recitare Anna e Vronskij con il professore.

Quando non tornò dalle ferie primaverili, telefonai quasi ogni giorno a Racine in preda alla disperazione. Quando chiamo all'ora di pranzo, mi dicono che è «fuori». Mi rifiuto di crederci: allora dov'è che mangia? - Mi scusi, chi parla? - mi chiedono. Borbotto: - Un amico del college... È certo che non ci sia? - Le spiacerebbe lasciarmi il suo nome? - Sí -. Ogni sera dopo cena resisto circa dieci minuti in soggiorno con Maureen prima di sentirmi sull'orlo di una crisi di nervi; alzandomi dalla poltrona su cui leggo, poso libro e matita e, nemmeno fossi Rudolf Hess dopo vent'anni nel carcere di Spandau, urlo: - Devo uscire a fare due passi! Devo vedere qualche faccia nuova! Qui mi sento soffocare! - Appena fuori dalla porta, mi metto a correre e, attraversando i prati sul retro delle case e superando d'un balzo le basse staccionate dei giardini, punto allo studentato piú vicino, dove al primo piano c'è un telefono pubblico. Beccherò Karen a casa per cena e la supplicherò almeno di tornare al college per finire il semestre, se anche a giugno non vuole fuggire con me per andare a vivere a Trastevere. Lei dice: - Resta un secondo in linea... prendo l'altro telefono -. Qualche istante dopo, la sento che grida: - Per favore, mamma, mi riagganci il telefono di sotto? - Karen, Karen! - Sí, ci sono. - Ka-reen, non ce la faccio... Vengo da te a Racine! Faccio l'autostop! Per le nove e mezza sono lí! - Ma lei era davvero la ragazza piú in gamba della mia classe, e non aveva alcuna intenzione di farsi rovinare la vita da un insegnante di scrittura creativa con i nervi a fior di pelle per un pessimo matrimonio e una carriera allo sbando. Non poteva essere lei a salvarmi da mia moglie, disse, dovevo farlo da me. Alla sua famiglia aveva raccontato di aver avuto una storia d'amore infelice ma, mi assicurò, non aveva detto con chi, e non aveva intenzione di dirglielo. - Ma devi laurearti... - pretesi io, come se fossi stato il decano degli studenti. - Adesso questo non ha importanza, - disse Karen, parlando dalla sua camera a Racine con la stessa calma con cui parlava in classe. - Ma ti amo! Ti voglio! - strillai all'esile ragazza che, solo la settimana prima, era arrivata in bicicletta al corso di Inglese 312 in scarpe da ginnastica e gonna di popeline, con le trecce color paglierino e nelle viscere ancora il seme del nostro convegno amoroso in pausa pranzo nella sua stanza in affitto. - Non puoi lasciar perdere, Karen! Non ora! È stato troppo meraviglioso! - Io non posso salvarti, Peter. Ho solo vent'anni -. In lacrime, strillai: - Io ne ho solo ventinove! - Peter, non avrei mai dovuto cominciare questa storia. Non avevo idea di quel che c'era in gioco. È colpa mia. Perdonami. Non sai quanto mi dispiace. - Cristo, non stare lí a «dispiacerti»... torna qui! - Una sera, quando uscii di casa, Maureen mi seguí attraverso i cortili e fino allo studentato e, dopo essere rimasta nell'ombra a origliare per un minuto fuori dalla cabina telefonica, spalancò la porta mentre io stavo per l'ennesima volta implorando Karen di cambiare idea e venire con me in Europa con il volo notturno della Pan Am dall'aeroporto di O'Hare. - Bugiardo! - gridò Maureen, - puttaniere bugiardo! - e tornò a casa di corsa a ingollare una manciatina di sonniferi.

Poi, in mutande, si trascinò a quattro zampe fino in soggiorno e rimase lí inginocchiata sul pavimento con in mano il mio rasoio Gillette, in paziente attesa che io finissi di parlare con la mia sgualdrinella e tornassi a casa per assistere al suo nuovo tentativo di uccidersi.

Raccontai a Spielvogel quel che mi aveva confessato Maureen dal pavimento del soggiorno. Poiché ciò era avvenuto solo due mesi prima, scoprii che anche con Spielvogel, come già quella mattina con Moe sul taxi che mi portava in città dall'aeroporto, non riuscivo a raccontare la storia del falso campione di urina senza sentirmi debole e stordito, come se, appena quella storia mi si affacciava alla mente, fosse solo questione di secondi prima che il fuoco della collera divampasse dentro di me inghiottendo ogni forza e vitalità. Ancora oggi per me non è facile raccontarlo senza un leggero senso di vertigine. Non sono mai riuscito a introdurre quell'episodio in un'opera di finzione, e non che non ci abbia piú volte inutilmente provato nei cinque anni trascorsi dalla confessione di Maureen. A quanto pare non riesco a renderlo credibile... Forse perché anch'io non riesco ancora a crederci del tutto. Come ha potuto? A me! Per quanto io mi sforzi di trasformare quella squallida realtà in nobile arte, impresso col sangue sulla superficie della narrazione c'è sempre questo: COME HA POTUTO? A ME!

- E poi, - raccontai a Spielvogel, - lo sa cosa mi ha detto? Era li sul pavimento con la lametta sul polso. In reggiseno e mutandine. E io ero in piedi davanti a lei. Allibito. Allibito. Avrei potuto prenderla a calci in testa. Avrei dovuto farlo!

- E cosa ha detto?

- Cosa ha detto? Ha detto: «Se tu mi perdoni per l'urina, io ti perdono per la tua amante. Ti perdono per avermi tradito con quella ragazza in bicicletta e per averla implorata di fuggire con te a Roma».

- E lei cosa ha fatto? - domandò Spielvogel.

- Se l'ho presa a calci, intende? No. No, no, no, no, no. Non le ho fatto niente... a lei. Sono solo rimasto lí attonito. Non riuscivo a credere a tanta ingegnosità. A tanta implacabilità. Che avesse potuto pensare a una cosa simile e poi farla davvero. Provavo davvero ammirazione. E compassione, compassione! Davvero. Ho pensato: «Cristo santo, che cosa sei? Fare una cosa simile, e poi tenerla segreta per tre anni!» Poi ho colto l'opportunità di una via di fuga. Come se ci fosse stato bisogno di quello, nientemeno, per sentirmi libero di andarmene. Non che me ne sia andato. Le ho detto che me ne andavo, certo. Ho detto: me ne vado, Maureen, non posso piú vivere con una persona capace di fare una cosa simile, e cosí via. Ma lei a quel punto piangeva e ha detto: «Se mi lasci, mi taglio le vene. Sono già imbottita di sonniferi». E io ho detto, ed è vero, ho detto: «Tagliati pure le vene, che me ne importa». Cosí lei ha affondato la lametta... ed è schizzato fuori il sangue. Poi si è rivelato solo un graffio, ma io che diavolo ne sapevo? Avrebbe potuto essere arrivata all'osso. Mi sono messo a gridare: «No... non farlo!» e ho cercato di strapparle il rasoio di mano. Avevo il terrore di tagliarmi le vene anch'io nel mezzo di quel putiferio, però ho continuato a cercare di toglierglielo, di agguantare quella maledetta roba... e intanto piangevo. Questo è ovvio. Ora non faccio altro che piangere, lo sa... E naturalmente piangeva anche lei, e alla fine sono riuscito a prenderle quella cosa e lei ha detto: «Se mi lasci, quella ragazza la rovino! Vedrai quel viso d'angelo su tutti i giornali del Wisconsin!» E poi si è messa a urlare che l'avevo «ingannata» e che di me non ci si poteva fidare e che lei questo l'aveva sempre saputo... Tutto ciò nemmeno tre minuti dopo avermi illustrato nel dettaglio come aveva comprato l'urina di quella donna nera in Avenue B!

- E allora lei cosa ha fatto?

- Se le ho tagliato la gola da un orecchio all'altro? No. No! Sono crollato. Completamente. Ho dato in escandescenze. Eravamo tutt'e due sporchi di sangue: io avevo un taglio sul palmo della mano sinistra, fino al pollice, e lei sanguinava dal polso, e Dio solo sa che effetto facevamo: come una coppia di aztechi che avesse fatto un casino con i riti sacrificali. Voglio dire, a pensarci è comico. Ha presente Blondie, il fumetto? Ecco, io sono il Dagoberto del timore e tremore.

- Ha dato in escandescenze.

- Ed è dir poco. Mi sono inginocchiato, l'ho implorata di lasciarmi andar via. Ho battuto la testa sul pavimento, dottore. Mi sono messo a correre di stanza in stanza. Poi... poi ho fatto quel che faceva sempre Walker. Magari Walker nemmeno l'aveva mai fatto; probabilmente anche quella era una bugia. Comunque, io l'ho fatto. Al principio correvo per la casa in cerca di un posto dove nascondere il rasoio. Ricordo di aver tolto la lametta e di averla lasciata cadere nella tazza del gabinetto, poi di aver tirato e tirato l'acqua, ma quella dannata lametta se ne restava sempre li sul fondo. Allora sono corso in camera da letto... e per tutto il tempo gridavo: «Lasciami andare via, lasciami andare via!» e singhiozzavo e tutto. E intanto mi stracciavo le vesti. L'avevo già fatto, durante un attacco di rabbia contro di lei, ma quella volta mi sono proprio strappato via tutto. E mi sono messo la biancheria di Maureen. Ho aperto il cassettone e mi sono infilato un paio delle sue mutandine... A malapena sono riuscito a tirarmele sull'uccello. Poi ho cercato di mettermi un suo reggiseno. Ho giusto ficcato le braccia dentro le spalline. E me ne sono rimasto lí cosí, a piangere... e a sanguinare. Finalmente lei è entrata in camera... no, si è solo affacciata dalla soglia, restando li a guardarmi. E, vede, anche lei indossava solo quello, la biancheria. Mi ha visto e si è messa di nuovo a singhiozzare, gridando: «Oh, tesoruccio mio, no, no...»

- Ha detto solo questo? - domandò Spielvogel. - L'ha solo chiamata «tesoruccio mio»?

- No. Ha detto: «Togliti quella roba. Non lo dico a nessuno. Però togliti quella roba».

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