Copertina
Autore Alain Rouquié
Titolo L'America latina
SottotitoloIntroduzione all'Estremo Occidente
EdizioneBruno Mondadori, Milano, 2007 [2000], Economica , pag. 392, cop.fle., dim. 14x20,5x2,2 cm , Isbn 978-88-6159-008-3
OriginaleAmérique latine. Introduction à l'Extrême-Occident
EdizioneSeuil, Paris, 1987
TraduttoreLuisa Cortese
LettoreRiccardo Terzi, 2007
Classe storia , storia: America
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Indice

 11 Prefazione

    Introduzione

 17 Che cos'è l'America latina?
 18 Perché latina?
 20 Un'America periferica...
 21 ... che appartiene culturalmente all'Occidente
 22 Parallelismo delle evoluzioni storiche
 24 Analogie dei vincoli e delle strutture
 27 Diversità delle società, particolarità delle nazioni
    ... "Così vicini agli Stati Uniti": potenze emergenti
    e "repubbliche delle banane"
 30 Clima, popolamento e società
 33 Percorsi bibliografici


    I. Caratteri originali degli stati latino-americani


    1. I quadri geografici e l'insediamento umano

 37 Alcune caratteristiche dominanti
    La meridianità del Nuovo Mondo
 39 Le Americhe tropicali ed equatoriali: la "sfida geografica"
 40 Le grandi unità strutturali
 46 Tipi di ambienti naturali e climi: alcune osservazioni
 48 Percorsi bibliografici

    2. L'occupazione dello spazio e il popolamento

 49 Le fasi del popolamento
 50 La catastrofe demografica della conquista
 51 Un mondo vinto
 52 Le immigrazioni: schiavi neri e liberi lavoratori europei
 56 I focolai di popolamento e le loro caratteristiche
 58 L'urbanizzazione precoce
 60 Metropolizzazione e rete urbana
 61 L'esplosione demografica, cause e conseguenze
 62 Disparità quantitative e qualitative
 64 Il pericolo "giovani": sviluppo e geopolitica
 65 Comunicazioni e trasporti
 67 Percorsi bibliografici

    3. Il retaggio storico

 68 Strutture agrarie e società
 70 La grande proprietà e la sua storia
 73 La conquista demaniale continua
 74 "Latifundios" e coercizione extraeconomica
 78 Dipendenza personale e potere privato
    Società postcoloniali
 79 L'indio oggi
 82 Il marchio dell'economia schiavista
 84 Il meticciato ieri e oggi
 85 Conquista e modo di produzione
 87 Società disarticolata e classi sociali
 89 Percorsi bibliografici


    II. Poteri e società: attori e
        meccanismi della vita politica e sociale


    1. Borghesie e oligarchie

 93 Esogeneità e stratificazione sociale: modelli specifici?
 96 Categorie dominanti e ineguaglianze cumulative
 98 Aristocrazia o borghesia internazionale?
104 Stile di dominazione e legittimità sociale
107 La borghesia nazionale tra realtà e dogmi
112 Percorsi bibliografici

    2. Ceti medi

113 Suddivisioni e limiti
116 Composizione e storia
121 Comportamenti e ideologie
124 Atteggiamenti politici, ambienti sociali e
    rapporti di classe
131 Percorsi bibliografici

    3. Gli operai e il movimento sindacale

132 La nascita della classe operaia
137 Le organizzazioni sindacali e la loro evoluzione
151 Mutazioni nella classe operaia e nuovi atteggiamenti
153 Riforme strutturali e crisi del sindacalismo
156 Percorsi bibliografici

    4. Le forze armate

157 Alcune cause presunte del potere militare
161 I dati storici: periodizzazione e
    mutevolezza delle esperienze nazionali
162 La nascita degli eserciti moderni
164 Gli eserciti entrano in scena
166 La guerra fredda nel Nuovo Mondo
170 Modelli e meccanismi della militarizzazione
173 L'era della smilitarizzazione?
179 Percorsi bibliografici

    5. Chiesa e chiese

180 Storia religiosa e società
186 Forze e debolezze del cattolicesimo latino-americano
188 Chiesa e società: dall'aggiornamento alla rottura
199 Le altre chiese: rifugio o liberazione?
203 Percorsi bibliografici

    6. Stili di autorità e meccanismi di dominio:
       caudillos, cacicchi e clientele

204 "Caudillos" e dittatori
208 "Caciquismo", dominazione e reciprocità
214 Dal patrocinio al clientelismo di stato
218 Percorsi bibliografici

    7. Ideologie specifiche

219 I populismi: dispotismo illuminato o
    socialdemocrazia autoritaria?
225 Il "desarrollismo" e la modernizzazione
    capitalistica santificata
227 Le strategie dei socialismi creoli:
    castrismo e sandinismo
236 Percorsi bibliografici

    8. Potere e legittimità

238 I retroscena dell'instabilità politica
240 Cultura politica e legittimità
243 Le dimensioni della violenza
244 La violenza quotidiana
245 La violenza dimostrativa
246 La violenza rivoluzionaria
247 Esclusione e partecipazione
250 In principio era lo stato
252 Un continente democratico
254 Quale democrazia?
257 Percorsi bibliografici


    III. I problemi dello sviluppo


    1. Le fasi dello sviluppo e i processi di
       industrializzazione

261 Le fasi dello sviluppo
265 L'industrializzazione nazionale
269 Risorse e sviluppo
273 Percorsi bibliografici

    2. Livelli e modelli di sviluppo

275 Tipi e livelli di sviluppo
278 L'industrializzazione latino-americana: modelli e limiti
282 La crisi del debito e il "decennio perduto"
288 "Rivoluzione silenziosa" e "consenso di Washington"
290 Integrazione regionale e mondializzazione
296 La via non capitalistica:
    dalla dipendenza alla sopravvivenza
298 Percorsi bibliografici

    3. Problemi agricoli e questione agraria

299 Tipi di agricoltura e modalità di sfruttamento
301 Problemi agricoli, strutture agrarie e sviluppo
304 Conflitti agrari e movimenti contadini
306 Le riforme agrarie
309 La fine dei contadini?
311 Percorsi bibliografici

    4. Questione urbana e marginalità

313 Habitat irregolare e integrazione urbana
317 Iperurbanizzazione marginale e problemi sociali
320 Esplosioni sociali e movimenti urbani
322 Politica della scarsità e clientelismo
324 Percorsi bibliografici


    IV. L'America latina nel mondo


    1. Le relazioni interregionali e l'egemonia degli
       Stati Uniti

327 La fine dell'America latina?
    Gran Bretagna e Stati Uniti: sostituzione di dominio
329 L'epoca del panamericanismo (1889-1945)
331 Il sistema interamericano istituzionalizzato (1947-1965)
334 La fine delle "relazioni speciali"?
    L'America latina nel conflitto Est-Ovest
338 Il dopo guerra fredda: verso un nuovo panamericanismo?
342 Percorsi bibliografici

    2. "L'America latina entra in scena":
       dalle solidarietà internazionali ai mercati emergenti

343 Coscienza latino-americana e cooperazione regionale
350 I nuovi sodalizi internazionali
352 Potenze emergenti e nuovi attori
355 Mondializzazione e interdipendenza
359 Percorsi bibliografici

    Conclusioni

361 L'Occidente contro le Americhe
362 Sisifo latino-americano?
364 Domani le Americhe?


    Cronologia

365 Argentina
366 Bolivia
368 Brasile
369 Cile
371 Colombia
372 Cuba
374 Ecuador
375 Guatemala
376 Haití
377 Honduras
378 Messico
379 Nicaragua
    Panamá
380 Paraguay
381 Perú
382 Uruguay
383 Venezuela

385 Indice dei nomi

    Indice delle carte
14  Istmo dell'America centrale
15  America del Sud
41  I rilievi dell'America latina

 

 

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Pagina 17

Introduzione


Che cos'è l'America latina?

Può sembrare strano cominciare a trattare di un'"area culturale" riferendosi alla precarietà della sua definizione. Ma per quanto paradossale possa sembrare, è il concetto stesso di America latina a costituire un problema. Per questo non è inutile tentare di precisarlo, di ricordarne la storia e di criticarne l'impiego. Benché attualmente sia di uso corrente nella maggior parte dei paesi del mondo e nella nomenclatura internazionale, tuttavia non è un'espressione rigorosa. Un po' come il più recente e assai ambiguo "Terzo Mondo", questo termine a volte risulta essere fonte di confusione anziché un preciso strumento di delimitazione.

Che cosa si intende per America latina dal punto di vista geografico? L'insieme dei paesi dell'America del Sud e dell'America centrale? Certamente, ma i geografi considerano il Messico un paese dell'America del Nord. Per semplificare dobbiamo allora limitarci a comprendere in tale denominazione le nazioni a sud del Rio Bravo? Ma allora bisognerebbe ammettere che la Guyana e il Belize, dove si parla inglese, e il Suriname, che è di lingua neerlandese, facciano parte dell'America "latina". Di primo acchito si tratta di un concetto culturale e si sarebbe indotti a pensare che riguardi esclusivamente le nazioni di cultura latina dell'America. Ora, benché con il Québec il Canada sia infinitamente più latino del Belize e quanto Puerto Rico, stato libero associato agli Stati Uniti, nessuno ha mai pensato di includerlo, anche soltanto a livello della sua provincia francofona, nel sottoinsieme latino-americano.

Al di là di tali imprecisioni, si potrebbe pensare di scoprirvi un'identità subcontinentale forte, intessuta di solidarietà diverse, indipendentemente dal fatto che si riferiscano a una cultura comune e a legami d'altro tipo. Ma la stessa diversità delle nazioni latino-americane tiene in scarsa considerazione tale giustificazione. La debole intensità delle relazioni economiche, oltre che culturali, di nazioni che per più di un secolo di vita indipendente si sono voltate le spalle, guardando deliberatamente all'Europa o all'America del Nord, le enormi disparità tra un paese e l'altro, sia dal punto di vista delle dimensioni sia da quello del potenziale economico o del ruolo a livello regionale, non favoriscono una reale coscienza unitaria, nonostante le ondate di retorica obbligata che tale tema continuamente suscita.

Per questo ci si interroga sull'esistenza stessa dell'America latina. Gli intellettuali, dal peruviano Luis Alberto Sànchez al messicano Leopoldo Zea, si sono posti il quesito senza fornire una risposta definitiva. Quello che è in discussione non è soltanto la dimensione unitaria della denominazione e l'identità che racchiude di fronte alla pluralità delle società dell'America detta latina. Perché, a questa stregua, per porre l'accento sulla diversità ed evitare qualsiasi tentazione generalizzante, sarebbe sufficiente ribaltare la domanda, parlando, come del resto è stato fatto, delle «Americhe latine». Questa formula ha il vantaggio di dare atto di una delle difficoltà, ma a prezzo di accentuare la dimensione culturale, che, anch'essa, costituisce un problema.


Perché latina?

Che cosa comprende questa etichetta ampiamente accettata ai nostri giorni? Da dove proviene? Le evidenze del senso comune svaniscono presto di fronte ai fatti sociali e culturali. Le Americhe nere descritte da Roger Bastide sono latine? Sono latine la società del Guatemala in cui il 50% della popolazione discende dai maya e parla lingue indigene e quella delle sierras ecuadoriane, dove domina il quechua? Latino il Paraguay guaraní, la Patagonia degli agricoltori gallesi, il Santa Catarina brasiliano abitato da tedeschi come il Sud del Cile? Di fatto ci si riferisce alla cultura dei conquistatori e colonizzatori spagnoli e portoghesi per designare formazioni sociali dalle molteplici componenti. Si comprende così come i nostri amici spagnoli e molti altri parlino di America ispanica, se non addirittura, per non trascurare la componente lusofona di cui è erede il gigantesco Brasile, di Ibero-America. Infatti l'aggettivo latina ha una storia anche se Haití, le cui élite sono francofone, può oggi servirgli da alibi: la denominazione appare in Francia, sotto Napoleone III, ed è connessa al grande progetto di "aiutare" le nazioni "latine" d'America ad arginare l'espansione degli Stati Uniti. La sventurata scorribanda messicana costituì la realizzazione concreta di tale idea grandiosa. La latinità aveva il vantaggio, limitando i legami particolari della Spagna con una parte del Nuovo Mondo, di conferire alla Francia doveri legittimi nei confronti delle "sorelle" americane, cattoliche e romane. Tale latinità fu combattuta da Madrid in nome dell'ispanità e dei diritti della madrepatria, dove il termine America latina non sempre ha diritto di cittadinanza. Gli Stati Uniti, per contro, hanno contrapposto alla macchina da guerra europea il panamericanismo, prima di adottare la denominazione verticale conforme ai loro disegni e che essi hanno contribuito a diffondere.

Latina, questa America conquistata dagli spagnoli e dai portoghesi, lo è davvero almeno fino al 1930, nella formazione delle sue classi dirigenti, dove la cultura francese regna incontrastata. Ciò significa che questa America è latina solo in virtù dei suoi "onnipotenti" e delle sue oligarchie, che l'America dei primi abitanti e dei "senza importanza" (los de abajo) che raccoglie solo le briciole della latinità e resiste alla cultura del conquistatore rappresenta l'unico elemento autentico del subcontinente? Ne erano convinti gli intellettuali degli anni trenta, soprattutto nei paesi andini, che andavano scoprendo l'indigeno dimenticato, sconosciuto. Haya de la Torre, potente personalità politica peruviana, aveva persino proposto una nuova denominazione regionale: la "Indo-America". L'appellativo avrebbe avuto meno successo dell'indigenismo letterario di cui è parte o del partito politico a vocazione continentale fondato da Haya. Le classi dirigenti americane non tengono in alcun conto l'indio. Emarginato ed escluso dalla società nazionale, è culturalmente minoritario in tutti i grandi stati e persino in quelli delle antiche civiltà precolombiane e a forte presenza indigena. Così, secondo il censimento del 1980, in Messico su 66 milioni di abitanti vi erano solo 2 milioni di non ispanofoni e meno di 7 milioni di messicani che conoscevano una o più lingue indigene. Si può sempre sognare, assieme a Jacques Soustelle, immaginando un Messico «che, come il Giappone moderno, avrebbe potuto conservare l'essenza della propria personalità autoctona pur inserendosi nel mondo attuale». Le cose non sono andate così e questo continente è destinato al meticciato e alla sintesi culturale. Eppure anche nei paesi più "bianchi" il tessuto indigeno non è mai totalmente assente e partecipa nettamente alla formazione della fisionomia nazionale. Questa America, secondo l'espressione di Sandino, è «indolatina».

Così, benché la definizione latina attribuita al subcontinente non abbracci integralmente né adeguatamente realta multiformi e in divenire, tuttavia non si può abbandonare un'etichetta evocatrice, ripresa attualmente da tutti e soprattutto dagli stessi interessati ("nosotros los latinos"). Queste osservazioni sono volte semplicemente a sottolineare come il concetto di America latina non sia né pienamente culturale né solamente geografico. Ci serviremo dunque per comodità di tale termine, ma con cognizione di causa, vale a dire senza ignorarne i limiti e le ambiguità. L'America latina esiste, ma solo per opposizione e dal di fuori. Il che significa che i "latino-americani" in quanto categoria non rappresentano alcuna realtà tangibile al di là di vaghe estrapolazioni o di fiacche generalizzazioni. Il che significa anche che il termine possiede una dimensione nascosta che ne completa l'accezione.

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Pagina 30

Clima, popolamento e società

Non è facile ritagliare all'interno del continente sottoinsiemi regionali dotati di una qualche coerenza, poiché la storia, sovente, smentisce la geografia. Così Panamà, ex provincia della Colombia, non fa più parte, esattamente come il Messico, dell'America centrale che si riduce ai cinque stati federatisi, al momento dell'indipendenza, sul territorio della Capitaneria generale di Guatemala. Ciò non toglie che tra l'America del Sud e gli Stati Uniti esista di fatto una "America intermedia", zona di transizione e di antico insediamento umano, di brillanti civiltà precolombiane su terre di un vulcanesimo non ancora spento e con una personalità propria, da ogni punto di vista. Solitamente, nell'America del Sud si distingue un' America temperata che occupa il "cono sud" del continente e comprende Argentina, Uruguay e Cile, che per clima, culture e popolazioni è la regione più vicina al Vecchio Mondo, e un' America tropicale, all'interno della quale, generalmente, si collocano i paesi andini, il Paraguay e il Brasile. Per altro verso, quest'ultimo è di difficile classificazione. Infatti, si tratta di uno stato-continente, che confina con tutte le nazioni sudamericane, a eccezione dell'Ecuador e del Cile, che comprende un Sud temperato, abitato da europei con cultura mediterranea. Ma il Cile, paese andino per eccellenza, è più temperato che tropicale; e anche la Bolivia, pur essendo sicuramente andina, è in parte tropicale, ma storicamente legata all'America temperata, mentre la Colombia e il Venezuela sono, a livelli diversi, andini e caraibici al tempo stesso. Come si vede, le difficoltà di classificazione sono molteplici.

Si può pensare che il popolamento sia un indicatore più raffinato e duttile per una tipologia rigorosa. Indubbiamente, tra climi e popolazioni vi è una certa corrispondenza, in connessione soprattutto con i tipi di culture storicamente privilegiate. Infatti la distribuzione regionale delle tre componenti del popolamento americano (il substrato amerindo, i discendenti della manodopera schiava africana e l'immigrazione europea del XIX secolo) disegna zone con dominante identificabile. Usiamo il termine dominante perché le nazioni meticce sono le più numerose e, sovente, nelle società a popolamento complesso, spazi etnicamente omogenei si giustappongono. Così in Colombia i resguardos indigeni delle "fredde terre" d'altitudine sono spesso in contatto con vallate "nere" delle "terre calde". Nondimeno, si può individuare approssimativamente una zona di intenso popolamento indio che copre l'America intermedia e il Nord-ovest dell'America del Sud, dove fiorirono le grandi civiltà; delle Americhe nere a nord-est attorno al mar dei Caraibi, le Antille e il Brasile, legate alla grande speculazione zuccheriera principalmente dell'epoca coloniale; infine un Sud, ma soprattutto un Sud-est "bianco", terra temperata, che accolse la libera manodopera europea, che vi si era riversata a partire dall'ultimo quarto del XIX secolo.

L'antropologo brasiliano Darcy Ribeiro si è servito delle medesime variabili per proporre una tipologia che ha un certo fascino, anche se la si può giudicare ideologicamente caratterizzata. Egli distingue tre categorie di società: i popoli testimoni, i popoli trapiantati e i popoli nuovi. I popoli testimoni, nelle varietà mesoamericana o andina, sono i discendenti delle grandi civiltà azteca, maya e inca. Corrispondono dunque a paesi in cui la percentuale di indigeni è relativamente elevata, il che significa tra l'altro che una parte considerevole della popolazione parla una lingua vernacolare e che le comunità autoctone non sono state troppo contaminate dalla civiltà europea. Lo stesso dicasi nell'America centrale per il Guatemala con quasi il 50% di indigeni, ma anche pèr il Nicaragua o El Salvador, in cui si limitano al 20%, molto acculturati, oppure l'Honduras con meno del 10% (cifre da usare con tutte le cautele che si devono riservare alla definizione di indigeno su questo continente). Anche il Messico rientra in tale categoria nonostante appena il 15% di cittadini parli una lingua india, peraltro fortemente concentrati in alcuni stati del Sud (Oaxaca, Chiapas, Yucatán), Messico che rivendica il passato dei "vinti" nella propria ideologia nazionale. Nella zona incaica, gli indigeni che parlano quechua e aymarà costituiscono fino al 50% della popolazione di Perú, Bolivia ed Ecuador, anche in questo caso con forti concentrazioni nelle zone rurali montane.

L'America bianca è costituita dai popoli trapiantati, quali i rioplatenses di Uruguay e Argentina, simmetrici agli angloamericani del Nord. In queste terre di popolamento recente, in cui gli indios nomadi di basso livello culturale furono spietatamente eliminati prima dell'ondata migratoria, è sorta una specie di Europa australe. Ma questi spazi apparentemente aperti, simili a quelli di Nuova Zelanda, Australia o Stati Uniti, presentavano caratteristiche sociali differenti, che ne spiegano l'evoluzione successiva. La loro individualità è forte. Gli argentini, al volgere del secolo, erano fieri di essere l'"unico paese bianco a sud del Canada". E queste appendici del Vecchio Mondo, che a lungo hanno ignorato il continente, fino a poco tempo fa non si sentivano per nulla "sudamericane".

Infine i popoli nuovi, tra i quali Darcy Ribeiro annovera Brasile, Colombia e Venezuela, oltre a Cile e Antille, sono il prodotto del meticciato biologico e culturale. L'antropologo brasiliano li considera la vera America, dove, nel crogiolo di razze dalle dimensioni planetarie, si modella la futura "razza cosmica" cantata da José Vasconcelos. Benché tale classificazione sia così gerarchizzata, possiede tuttavia una certa logica e contribuisce a comporre una valutazione globale più chiara della rosa dei venti latino-americana.

Pur non intendendo moltiplicare le classificazioni, non è inutile introdurne un'altra, fondata sull'omogeneità culturale e sull'importanza del settore tradizionale della società. Queste tipologie sono arbitrarie quanto i criteri scelti per elaborarle, ma sono indubbiamente indispensabili per fornire le sfumature necessarie a uno studio trasversale dei fenomeni sociali continentali.

Se si assume come indicatore l'omogeneità culturale, più o meno grande, valutando quest'ultima in funzione del grado di integrazione sociale e dell'esistenza di uno o più culture in seno alla società nazionale, si possono distinguere tre gruppi:

– omogenei: Argentina, Cile, Uruguay, in grado minore: Haiti, El Salvador e Venezuela;

– eterogenei: Guatemala, Ecuador, Bolivia, Perú;

– in via di omogeneizzazione: Brasile, Messico, Colombia.


I criteri di una simile classificazione possono essere considerati eminentemente soggettivi. Il grado di tradizionalismo si può valutare meglio poiché coincide assai spesso con l'importanza del settore agricolo e dell'anafalbetismo. Da questo punto di vista i più tradizionali sarebbero paesi quali Haiti, Honduras, Paraguay, El Salvador, Guatemala e Bolivia, mentre sarebbero moderne le società di Argentina, Cile, Uruguay, Colombia e Venezuela o Cuba.

La molteplicità delle categorie consente di individuare un certo numero di paesi ai due estremi della catena; dà un'idea approssimativa, grossolana, ma utile, dei divari e, pertanto, del ventaglio di realtà sociali disparate che si celano sotto l'etichetta onnicomprensiva di America latina, senza con ciò cedere ai miraggi del particolarismo nazionale e della particolarità storica. Due dimensioni fondamentali, che tuttavia non forniscono le chiavi che stiamo cercando, poiché queste possono provenire soltanto da un incessante andirivieni tra i molteplici livelli di una comprensione globale delle somiglianze e delle differenze, dal continentale al locale, passando dalla nazione e dalla regione.

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2. L'occupazione dello spazio e il popolamento


Gli ambienti naturali e i climi delimitano spazi che l'uomo ha occupato selettivamente. La dimensione storica di tale occupazione è fondamentale per comprendere l'attuale popolamento. Così, la cesura della conquista è ancora visibile nei paesaggi e nella distribuzione degli uomini, per non parlare della loro coscienza o dei loro comportamenti. Le fasi del popolamento, le sue componenti, la sua localizzazione, costituiscono lo sfondo dei due grandi fenomeni contemporanei: la rivoluzione demografica, da un lato, l'ipertrofia urbana e metropolitana, dall'altro. Chi dice spazio dice strumenti per dominarlo: perciò, in questo capitolo parleremo anche del problema delle comunicazioni e dei trasporti.


Le fasi del popolamento

Tutto avviene come se lo spazio americano fosse il dominio privilegiato di migrazioni successive. Il popolamento del continente è tardivo. Si situa attorno agli anni 30.000-40.000 a.C. e, probabilmente, è di origine allogena. L'indio americano proverrebbe da un altrove, certamente dall'Asia. Alcuni antropologi, come Paul Rivet, hanno sottolineato gli innegabili caratteri asiatici di gran parte dei primi abitanti, dal punto di vista sia fisico sia linguistico. Secondo alcune ipotesi, costoro sarebbero giunti attraverso lo stretto di Bering che le glaciazioni avrebbero trasformato in un ampio ponte. Altre migrazioni più limitate si sarebbero verificate attraverso il Pacifico meridionale. Paradossalmente, dunque, Colombo non era del tutto in errore quando, "scoprendo" questo prolungamento dell'Asia credette di aver raggiunto le Indie; e parlare di "Nuovo Mondo" a proposito del continente americano non mancava di un certo senso antropologico dell'opportunità.

Prima dell'arrivo di spagnoli e portoghesi il territorio dell'America latina era popolato assai inegualmente. Le stime retrospettive delle differenti scuole sono decisamente contraddittorie, tuttavia gli esperti concordano nel supporre che i grandi imperi centralizzati avessero densità di popolamento relativamente elevate, grazie a uno sviluppo tecnico avanzato dell'agricoltura e a un alto livello di organizzazione sociale. La padronanza dell'irrigazione, la metallurgia del bronzo, del ferro e dell'oro, un sistema di contabilità e anche di iscrizione a glifi assai vicina alla scrittura consentivano una forte struttura politica nell'impero azteco, presso gli inca e i maya e forse anche tra i chibcha della Colombia. Alcuni hanno ipotizzato che l'altopiano di Anàhuac, in Messico, allora raggiungesse la densità di 50 abitanti per km2. Accanto a tali concentrazioni, si trovava una grande dispersione di popoli cacciatori o raccoglitori, ma anche di agricoltori con tecniche povere, che praticavano colture su terreni debbiati senza irrigazione e che vivevano in uno stato seminomade.

I dati globali della popolazione precolombiana sono significativi. Consentono di valutare l'impatto demografico della conquista. Essi hanno una valenza politica, e da qui derivano senza dubbio le ipotesi contraddittorie e le polemiche. Tradizionalmente si valutava la popolazione dell'altopiano centrale messicano in 10 milioni di abitanti. La scuola demografica di Berkeley (Cook e Borah), sulla base di minuziose ricerche, ha proposto la cifra di 25 milioni. Nel 1530 in Perù vi sarebbero stati 10 milioni di abitanti circa. In seguito la popolazione dell'intero continente prima della conquista è stata valutata tra i 40 e i 60 milioni. A quell'epoca l'Europa aveva 100 milioni di abitanti. Nel 1650, secondo alcuni calcoli, l'insieme del subcontinente, comprese tutte le razze, aveva soltanto 12 milioni di abitanti, e un secolo dopo 11 milioni. E, secondo Humboldt, nel 1810 vi sarebbero stati soltanto 8 milioni di indios. Ecco i rivolgimenti demografici prodotti dalla conquista. La brutale irruzione dei conquistadores spagnoli, in particolare, ha rimesso in discussione l'occupazione dello spazio, provocando la scomparsa di una parte degli abitanti originari (sostituiti da schiavi neri africani), spostando le popolazioni verso nuovi nuclei di produzione, e creando una serie di insediamenti portuali per collegarsi alle metropoli e facilitare così lo sfruttamento del Nuovo Mondo.


La catastrofe demografica della conquista

Il crollo formidabile della popolazione emerge dai dati proposti dagli storici, che non fanno che confermare i documenti e le cronache dell'epoca. La «distruzione delle Indie» denunciata da padre Bartolomé de Las Casas è avvenuta davvero. Gli arawak e i caribi delle isole furono completamente annientati. Secondo i calcoli di Juan Friede, sul territorio dell'attuale Colombia, i quimbaya passano da 15.000 a 69 tra il 1539 e il 1628. Secondo Cook e Borah, in Messico i 25 milioni di indigeni del 1519 si riducono a 1 milione nel 1605. Il Perù scende a 3 milioni di abitanti in cinquant'anni. In alcune zone andine, la popolazione maschile sarebbe diminuita dell'80%, in trent'anni. Le cause di tale salasso demografico sono molteplici; non si limitano ai massacri dell'invasione, anche se, in ragione della superiorità dell'armamento dei conquistatori, essi si sono verificati, soprattutto nei primi decenni: ne è un esempio la vendetta di Cortés sugli aztechi dopo la sconfitta della noche triste, nel 1520. Ma un fenomeno di tali proporzioni ha cause più profonde, più durevoli e irreversibili che si riferiscono a ciò che è stato definito il «trauma della conquista».

La visione che ce ne hanno lasciato i vinti ci consente, ancor oggi, di valutarlo appieno! Per le società autoctone, e principalmente per le più organizzate e centralizzate, l'arrivo degli europei e il crollo degli imperi, con il significato religioso che gli indigeni attribuirono a tali eventi, provocarono una vera e propria disintegrazione culturale. Tutti i sistemi di valori nei quali si inscriveva la vita quotidiana, sia in campo politico, sia morale e religioso, esplosero. La rottura dei quadri sociali tradizionali molto vincolanti comportò a volte "libertà" fatali; una di queste fu l'alcol. Le epidemie di influenza, vaiolo o morbillo produssero stragi spaventose tra popoli che non ne erano immuni. I trasferimenti di popolazione, il ritmo di lavoro imposto dalla cupidigia dei nuovi padroni nelle piantagioni e nelle miniere portarono a termine l'annientamento o almeno provocarono una considerevole mortalità. A volte comportamenti disperati che potevano giungere fino al suicidio costituirono l'unica risposta dei vinti alle nuove condizioni di vita e al disincanto del mondo: automutilazioni, suicidi collettivi furono i tragici strumenti di resistenza usati contro il lavoro forzato e la temibile mita, la corvée nelle miniere d'argento, per la quale si deportavano gli indios peruviani a parecchie centinaia di chilometri dal loro habitat tradizionale.

Questo excursus storico non è affatto ridondante. Non si insisterà mai abbastanza sulla portata e la persistenza di quel cataclisma fondante che è stata l'intrusione coloniale in un mondo chiuso. L'attuale folclore indigeno, con le sue "danze della conquista", ne testimonia la sopravvivenza nella memoria collettiva dei vinti. Ma, oltre a ciò, l'evento ha indotto i meccanismi etnici della stratificazione e della distribuzione del potere sociale, nonché il ricorso ad altre componenti migratorie. Come afferrare altrimenti il fatto che l'indio del Perú o del Guatemala, oggi pauperizzato, deprivato e sottoproletarizzato, è purtuttavia il discendente dei costruttori di Machu Picchu o degli astronomi di Tikal e di Copán, se non prendendo in considerazione l'assassinio di civiltà prodigiose sostenute dal suo lavoro e dal suo fervore?


Un mondo vinto

Se «la popolazione indigena si è sciolta come cera in un braciere a contatto con i conquistatori», secondo l'espressione di Marcel Bataillon, la catastrofe demografica non è stata la sola conseguenza della conquista sul popolamento e le modalità di occupazione dello spazio. Le sue stesse motivazioni hanno contribuito stabilmente a modellare territori e società.

Infatti, una delle molle più potenti della conquista, non solo spagnola, checché ne dicano gli ammiratori delle gesta iberiche, era il rapido arricchimento tramite la scoperta dei metalli preziosi, in un primo tempo con il furto, poi con lo sfruttamento intensivo delle miniere. Certo, la diffusione del cristianesimo e la conversione degli indigeni pagani erano in cima ai pensieri delle massime autorità, ma, di fatto e malgrado gli sforzi della chiesa, l'oro aveva la meglio sui vangeli.

Così, a differenza della metodica colonizzazione della "frontiera" sul fronte pionieristico dell'America del Nord, a sud del Rio Bravo prevalse l'impresa rischiosa alla ricerca di metalli preziosi o di indios da ridurre in schiavitù. Alle cabalgatas ispaniche corrispondono le bandeiras paulistas in Brasile. Il «miraggio bandeirante della fortuna facile», evocato da Vianna Moog, non si applica esclusivamente all'America portoghese, ma condiziona anche più tardi, e per tutto il subcontinente, un'appropriazione delle terre che ne precede di molto lo sfruttamento. La hacienda coloniale valeva per la popolazione vassalla più che per le sue potenziali ricchezze. Come si vede, la conquista non appartiene soltanto alla storia.

Inoltre, a partire dall'inizio del XVI secolo, tutta l'organizzazione della vita collettiva del Nuovo Mondo non è più orientata verso i bisogni delle popolazioni locali, ma in funzione degli interessi delle élite europee. Si stabilisce un'economia esogena, che influenza anche il sociale, da cui il continente non è ancora uscito. Poiché gli obiettivi produttivi erano diretti dall'Europa, i dominatori iberici, poi creoli, sacrificano tutto alla speculazione, al prodotto con alte quotazioni sul mercato mondiale. Il profitto immediato, anche senza futuro, è preferito da tutti. Si distrugge la vegetazione e si usurano i terreni, così come si inaridisce un filone di minerale, poi si abbandonano i luoghi alla ricerca di altre terre. Il popolamento stabile che antropizza il paesaggio non è la nota dominante di una simile logica produttiva. I cicli dei prodotti principe in Brasile, dallo zucchero al caffè, passando per l'oro, hanno prodotto lo spostamento del centro di gravità del paese e persino della capitale. Anche l'America ispanica porta le stigmate dei boom che si sono succeduti l'un l'altro e delle corse verso prodotti nuovi determinate dalla domanda esterna. La popolazione segue e si adatta.


Le immigrazioni: schiavi neri e liberi lavoratori europei

Per ovviare alla scarsità di lavoratori indigeni, i colonizzatori si volsero verso altre fonti di manodopera: in primo luogo, verso l'immigrazione forzata di schiavi africani, e poi, dopo l'abolizione della tratta e della schiavitù, al reclutamento di lavoratori liberi provenienti dall'Europa, ma anche dall'Estremo Oriente. Tanto che, fino all'inizio del XX secolo, la dinamica demografica del subcontinente è sostanzialmente basata sull'immigrazione.

L'immigrazione degli schiavi neri africani è la più antica, tanto che a volte si dimentica che si tratta di un fenomeno migratorio, anche se il viaggio era senza ritorno e avveniva in condizioni atroci. La deportazione cominciò assai presto. Nel 1650 in America meridionale ci sarebbero stati già 380.000 neri, vale a dire quasi quanto i bianchi. Nel 1829, secondo le stime di Humboldt, nelle due Americhe vi erano 6.433.000 di neri, vale a dire 4.483.000 in quella che oggi chiamiamo America latina, 1.960.000 dei quali nel solo Brasile (a esclusione dei mulatti). A causa della distribuzione ineguale dei sessi e dunque del basso tasso di riproduzione di una popolazione a maggioranza maschile, si può pensare che tale dato corrisponda all'arrivo nei paesi del subcontinente di circa 6,5 milioni di africani, 3,5 milioni dei quali in Brasile. Conoscendo le terribili condizioni di deportazione del "legno d'ebano" sui vascelli negrieri e l'elevata percentuale di mortalità durante il viaggio (il 20% di perdite circa), si possono stimare in 9/10 milioni i neri strappati all'Africa dal "traffico infame".

I neri furono convogliati soprattutto verso le zone senza nativi oppure verso quelle in cui gli indios avevano capitolato sotto il peso delle cattive condizioni di lavoro. Si trovano, quindi, raggruppati nelle terre basse, coste o vallate tropicali, sulle piantagioni di canna da zucchero e nelle miniere delle zone calde. A giudicare dai dati dell'inizio del XIX secolo, vi è persino una certa coincidenza tra la carta delle zone saccarifere e quella delle concentrazioni di popolazione nera. In Brasile alla fine del ciclo dell'"oro bianco", i neri sono il doppio dei bianchi. A quel tempo si diceva: "Niente neri, niente zucchero, niente Brasile". A Cuba, nel 1817, la popolazione è composta per il 40% di neri puri; a Haiti nel 1804 i neri sono il 90%.

Nelle nuove nazioni indipendenti la tratta è stata abolita tra il 1810 e il 1815; in Brasile è stata praticata fino al 1850, mentre la schiavitù è scomparsa soltanto nel 1888. Ma il traffico clandestino di schiavi è proseguito ben oltre le date di abolizione della tratta, e le ricadute sociali sullo schiavismo sono lungi dall'essere scomparse. L'impatto dell apporto africano ha segnato in maniera indelebile le culture nazionali delle "Americhe nere".

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Conclusioni


«Voi ci parlate dell'America latina. Non è importante. Dal Sud non può venire alcunché di importante. Non è il Sud che fa la storia, l'asse della storia va da Mosca a Washington passando per Bonn. Il Sud non ha importanza.» Henry Kissinger a Gabriel Valdés in S. Hersh, The Price of Power. Kissinger in the Nixon White House, New York 1983.


Un tempo si usava concludere un'opera sull'America latina con slanci calorosi dedicati all'avvenire. Il panorama odierno del subcontinente presenta in egual misura luci e ombre, incertezze e garanzie di un futuro radioso. Secondo gli studi dell'Onu un latino-americano su tre (1990) vive in condizioni di povertà (53% per la popolazione rurale), il 18% dei quali (l'equivalente del Messico) nell'estrema povertà. Chi potrà ancora credere che "Dio è brasiliano" o, come si ripete in Argentina, criollo, vale a dire latino-americano? Il Nuovo Mondo è in primo luogo un'immensa speranza. Stiamo assistendo all'erosione o al declino di tale speranza? Il futuro prodigioso promesso un tempo a questi lidi lontani non potrebbe essere solo un ricordo? L'Eldorado si è trasformato per sempre in "tristi tropici" e in "geografia della fame"? Ormai la terra promessa di migliaia di immigrati europei è ossessionata dalla "cultura della povertà", mentre la seconda indipendenza sempre annunciata si fa attendere e lo sviluppo sembra ristagnare per le casualità delle fluttuazioni dell'economia internazionale.

L'opulenza dell'America settentrionale sfida l'America sventurata offrendo a portata di mano un modello che sembra sempre inaccessibile. Il divario tecnologico rispetto alle nazioni industrializzate si approfondisce e il recupero rispetto alle economie ipersviluppate del Nord sembra ancora un miraggio. È più di un secolo che ci si interroga sui destini divergenti delle due parti dell'emisfero occidentale. La latinità e il cattolicesimo iberico sono stati messi sotto accusa per molto tempo. Nel momento delle indipendenze dei Caraibi e poi delle crisi finanziarie asiatiche, il "male latino" non è più di moda tra gli osservatori seri e la rozza psicologia dei popoli lascia il posto alla storia e all'analisi economica. Le modalità della colonizzazione, il tipo di inserimento nell'economia mondiale ci illuminano maggiormente sulla specificità dell'Estremo Occidente rispetto agli approcci culturalisti che esprimono soltanto il partito preso dei loro autori. La punta estrema della nostra geografia, in ragione della sua cultura, è soprattutto occidentale per le sue aspettative e i suoi modelli di consumo. È situata alla periferia dell'universo sviluppato in virtù della sua produzione e del suo commercio, al punto che ci si può chiedere se lo slancio di questo singolare Terzo Mondo non sia frenato proprio dalla sua natura ibrida.


L'Occidente contro le Americhe

Borges amava dire, e il paradosso è solo apparente: «Noi siamo gli unici europei veri, perché in Europa si è prima di tutto francesi, italiani, spagnoli...». La continuità culturale con l'Europa presenta enormi facilitazioni per i trasferimenti di scienza e tecnologia. Forse costituisce anche una "scorciatoia" che frena la crescita. Stimolando un certo modello di industrializzazione, l'appartenenza occidentale ha certamente distillato la forma più sottile di dipendenza. L'industrializzazione tardiva dell'America latina non discende infatti né da una mutazione autonoma e spontanea della rivoluzione industriale né dallo sviluppo difensivo guidato dallo stato senza cambiamento di modello di consumo, alla giapponese o alla russa. Lo sviluppo nel subcontinente è stato indotto dall'esterno. Questa "via d'accesso indiretta" è iniziata con il consumo secondo modelli (e prodotti) provenienti dalle economie centrali. La fase di "sostituzione delle importazioni" si è limitata a proseguire sulla stessa strada imitativa. Le distorsioni provocate da questo tipo di crescita sono molteplici: vulnerabilità, dipendenza dall'estero, indebitamento ma anche eterogeneità crescente delle società e aumento delle disuguaglianze, al punto che una persona equilibrata e moderata come Raúl Prebisch ha scritto: «Questo capitalismo imitativo, pretendendo di svilupparsi nei modi dei paesi centrali, alla lunga può sussistere soltanto con il naufragio dei diritti umani e con la sanzione delle disuguaglianze sociali. Bisogna prevedere la trasformazione del sistema [...] risolvere il problema dell'accumulazione e della distribuzione». È un testo amaro, scritto, è vero, nella lunga notte delle dittature militari, ma è anche una diagnosi lungimirante della "modernità senza sviluppo" o del "sottosviluppo industrializzato", cui poche economie latino-americane riescono a sottrarsi. La promozione delle esportazioni opererà il miracolo in conformità con gli auspici di nuovi dirigenti che vedono la salvezza soltanto nella trasformazione dei loro paesi in piattaforma industriale aperta al mondo? Alcuni paesi stanno compiendo tale coraggiosa riconversione. Il successo del Cile, "giaguaro sudamericano", sembra incoraggiante, malgrado la sua fragilità. Il Messico e il Brasile sono diventati, in configurazioni differenti, due grandi esportatori di manufatti. La maggior parte dei paesi della regione è riuscita a diversificare il commercio estero. La monoesportazione (stagno, rame, petrolio o caffè), un tempo la regola, oggi è quasi un'eccezione, anche se alcuni paesi del subcontinente permangono sostanzialmente "produttori di dessert".


Sisifo latino-americano?

Se essere latino-americano oggi non significa, come riteneva prudentemente Borges prima che la dittatura peronista gli facesse scoprire il suo "destino sudamericano", appartenere a un prolungamento dell'Europa oltre oceano, che cosa significa dunque? L'immagine della patria grande e il sogno di Bolívar non resistono all'assillo delle frontiere, di cui è fornito qualsiasi viaggio internazionale in questa America che pure è fraternamente latina. Occidente incompiuto? Terzo Mondo imperfetto? In Africa e in Asia l'imitazione, il prestito riguardano soltanto la civiltà materiale. Un nocciolo duro religioso o culturale resiste a qualsiasi mirabolante tentativo di espropriazione del mondo. Nel "continente dedotto", invece, tutto è di seconda mano. Gli dèi e le parole. L'imitazione spirituale quotidiana non evita sempre il malinchismo originario, compiacente cooperazione con il conquistatore. Il successo delle scuole "americane" in tutto il continente e l'arrivo ai posti di potere di laureati presso le università dell' Ivy League lo dimostrano. I paesi dell'America centrale non sono gli unici in cui si celebra ingenuamente in famiglia Halloween o il Thanksgiving Day, come fossero feste locali. Il protestantesimo e l' American Way of Life stanno facendo progressi devastanti in paesi che hanno conosciuto il capitalismo "postnazionale" prima ancora di aver costruito lo stato-nazione. Miami è oggi la capitale delle economie basate sul dollaro di un nuovo mondo incerto.

Eppure mentre le élite affrontano temibili crisi di identità, tutti i paesi dell'America latina possiedono una personalità nazionale forte. Nessuno può metterlo in dubbio. Ma di fatto lo sviluppo imitativo è anche associativo. Per questo certi strati di popolazione sono integrati nell'universo dei paesi ricchi. La diffusione di modelli sofisticati di consumo costituisce la causa fondamentale di una eterogeneizzazione sociale che, per essere sempre esistita, è più massiccia che in passato e a volte si apparenta alla situazione coloniale. I beneficiari di una ridistribuzione regressiva del reddito nazionale vivono nel tempo delle metropoli e sovente ad anni luce dai loro concittadini meno favoriti e dal paese profondo. Il Brasile non è l'unico stato in cui i simboli nazionali sono paradossalmente presi a prestito dai ceti e dalle razze dominate della popolazione. Il nero e l'indio umiliati e repressi quasi ovunque sono i portabandiera dell'identità nazionale. Questa tensione sociale se non addirittura razziale è l'espressione di una crisi e, nel contempo, un tratto fondamentale del profilo delle società latino-americane.

La sbalorditiva fioritura del romanzo a partire dagli anni sessanta aveva un nesso con tale scissione. Il boom latino-americano esprime il talento multiforme, la creatività delle società ma anche e soprattutto il malessere degli intellettuali alla ricerca delle proprie radici. L'anti-Miami in qualche modo.

Il romanzo latino-americano, tellurico o magico, esprime, da Sàbato a García Márquez, da Vargas Llosa a Benedetti, la coscienza infelice di una generazione che ha tentato di colmare il divario tra cultura popolare ed élite. Alla ricerca di un radicamento che vada al di là delle frivolezze folcloristiche. Alcuni, stanchi di trovarsi tra due fuochi, hanno creduto di vedere nella "rivoluzione" e nella sua lirica illusione la soluzione che avrebbe riconciliato la cultura e il popolo e avrebbe modellato la nazione. Ma tutti sanno che è tipico di costoro evitare la dissoluzione della personalità nazionale in una mediocrità mercantile e cosmopolita che passa per modernità.

I paesi del continente si trovano di fronte a sfide formidabili. La questione politica sembra presentarsi sotto buoni auspici, ma il progredire delle disuguaglianze aggravato durante il "decennio perduto" dal massiccio disimpegno dello stato che a volte ha abbandonato missioni essenziali di servizio pubblico, costituisce un freno alla crescita e un pericolo per la stabilità socio-politica. I ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri più poveri. In Messico nel 1994 vi erano 24 miliardari in dollari (rispetto ai 2 del 1988), mentre il 30% dei posti di lavoro è nel mercato sommerso. In tutto il continente 18 milioni di bambini lavorano in mansioni da adulti, e 200.000 bambini di strada "sopravvivono" nelle città brasiliane. Le spese per l'istruzione insufficienti, il basso tasso di scolarizzazione contribuiscono a riprodurre e ad accrescere la povertà nel contesto di economie che continuano a essere indebolite da vincoli esterni. L'afflusso di capitali mobili può mascherare temporaneamente gli squilibri economici, ma non può esservi sviluppo duraturo senza l'aumento del risparmio interno e senza investimenti significativi in capitale umano. E come riconciliare la democrazia con l'economia di mercato in società profondamente ineguali? Come consolidare l'ordine costituzionale quando la qualità della vita della maggior parte dei cittadini si degrada e mentre l'intervento militare, i movimenti di guerriglia o le alternative populiste fanno parte tradizionalmente dell'offerta politica?


Domani le Americhe?

Sicuramente ci verrà rimproverato il tono pessimista di questa conclusione, che non concede nulla al lirismo obbligato e cortese che le Americhe suscitano abitualmente. A che pro confondere l'estensione e la grandezza, la tabula rasa e l'avvenire colmo di promesse? Sottolineare che questo subcontinente conquistato e mimetico non dispone di carte vincenti non significa recargli offesa. La lucidità è un omaggio in cui l'adulazione dissimula soltanto un condiscendente disprezzo. I disastri del recente passato vissuti da certe nazioni, e non tra le meno ricche in risorse materiali e umane, non derivano forse dall'ignoranza o dall'indifferenza rispetto agli ostacoli e alle strozzature che abbiamo indicato? La geografia e la storia non si possono reinventare. L'"implacabile fatalità" è fatta solo di sfide da superare. La "razza cosmica" evocata da Vasconcelos non si è ancora affermata. Il miraggio dell'Europa e degli Stati Uniti, insomma dell'Occidente, le impedisce di consolidare il proprio prezioso ibridismo. Le più grandi società multietniche del mondo assomigliano ancora a delle giustapposizioni di nostalgici naufraghi. Queste Americhe non sono ancora uscite dal labirinto della solitudine.

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Cronologia


Argentina

1816 Proclamazione dell'indipendenza.

1916 Presidente Hipólito Irigoyen, leader della Unión civica radical.

1930 Irigoyen costretto alle dimissioni da un colpo di stato capeggiato da J.F. Uriburu, espressione di un blocco di generali e di estancieros.

1932-38 Al governo A. P. Justo, che nel 1932 conclude con la Gran Bretagna l'accordo Roca-Ruciman.

1938 Roberto Ortiz si insedia alla Casa Rosada; per motivi di salute è costretto a farsi sostituire nel 1940 dal conservatore Ramón Castillo.

1943 Nel giugno, sollevazione contro Castillo capeggiata da giovani ufficiali filofascisti (Lega dei colonnelli) tra cui Pedro Ramirez, che diventa presidente.

1944 Febbraio Ramirez è costretto a dimettersi da ufficiali dell'esercito e rimpiazzato da una figura minore. Il vero ispiratore è Juan Domingo Perón, che avrebbe fondato il giustizialismo.

1945 Perón viene arrestato, ma una grande manifestazione ne ottiene la liberazione.

1946 Perón viene eletto presidente con l'appoggio della chiesa.

1947 Perón lancia il primo piano quinquennale (1947-51); pronuncia la "Dichiarazione di indipendenza economica" e vara il "Decalogo del lavoro"; passa la legge per il diritto di voto alle donne, per cui si era battuta la moglie Eva Duarte (Evita).

1949 Promulgata la nuova costituzione; la forte crisi economica costringe Miranda, ministro dell'economia, alle dimissioni

1951 Le elezioni confermano Peron alla presidenza.

1952 Grave crisi economica; Perón lancia il secondo piano quinquennale (1953-57); muore Eva Duarte Perón.

1955 Un colpo di stato guidato dal generale Aramburu rovescia Perón.

1958 Vince le elezioni il radicale Arturo Frondizi.

1961 Frondizi, alleandosi agli Usa, rompe le relazioni con Cuba.

1962 Con un colpo di stato José Maria Guido depone Frondizi.

1963 Elezione di Illía. Perdura l'instabilità politica.

[...]

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