Copertina
Autore Paolo Roversi
Titolo Blue tango
EdizioneNuovi Equilibri, Viterbo, 2006, eretica , pag. 206, cop.fle., dim. 120x170x15 mm , Isbn 978-88-7226-902-2
LettoreElisabetta Cavalli, 2006
Classe noir , gialli , narrativa italiana
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Pagina 5

1

Sul campanello c'era scritto semplicemente Fanny.

L'uomo esitò un istante, guardandosi intorno: nessuno in strada, marciapiedi deserti.

Fece scorrere le dita sulla pulsantiera fino ad arrivare all'interno 14, e premette due volte il bottone. La serratura scattò quasi subito. L'uomo lanciò un'ultima un'occhiata in giro, poi si infilò nel portone.

Niente portineria e ascensore fuori servizio, come indicava un foglio scritto a mano e attaccato con il nastro adesivo sulla porta di metallo. A sinistra, una fila di cassette per le lettere e una bacheca con gli avvisi dell'amministratore. Un tappeto rosso, ormai troppo consunto per risultare dignitoso, cercava di conferire un aspetto signorile all'androne.

Luomo si avviò su per le scale, salendo deciso i gradini rosa e lucidi dello stabile. Dopo una manciata di secondi era arrivato: terzo piano, porta di sinistra, interno 14. Si fermò un istante per riprendere fiato e sistemarsi con la mano libera il nodo della cravatta, come se qualcuno avesse dovuto farci caso.

Giunto nei pressi della porta, si frugò in tasca ed estrasse un piccolo ritaglio di giornale. Un paio di righe appena: AAA Fanny, splendida bambolina, sensualissima, raffinata, amplierebbe proprie amicizie. Per appuntamenti 338/2244892.

Gli aveva risposto una voce per nulla scontata. Una ragazza, a giudicare dal timbro e dalla risata spigliata. Lui era rimasto per un attimo interdetto, senza sapere cosa dire. Lei, dal canto suo, non aveva dato segni di nervosismo né mutato il suo tono, mentre domandava ancora una volta chi fosse all'apparecchio. L'iniziale imbarazzo di quelli che telefonavano per fare amicizia, come recitava l'annuncio, per Fanny era ordinaria amministrazione.

Lui era rimasto in silenzio, ma il suo respiro si era fatto più affannoso. La voce della donna aveva interpretato bene questo segnale.

"Vuoi incontrarmi?", gli aveva chiesto suadente. "Ho una casa comoda sai? Se mi vieni a trovare possiamo fare due chiacchiere e poi rilassarci un po'".

L'uomo, allora, non ce l'aveva più fatta e aveva parlato. La ragazza gli aveva dato l'indirizzo, senza dimenticare d'informarlo sulle sue tariffe. Nessun accenno al denaro, solo metafore floreali. Cento, centocinquanta o duecento rose, a seconda dei casi. Ora, davanti alla sua porta, rimise in tasca il ritaglio e diede una rapida occhiata all'orologio. Le quattro e un minuto.

"Perfetto".

Raccolse da terra la ventiquattrore e bussò.


Quello che vide quando la porta si aprì non era affatto ciò che si aspettava. Faticò non poco per contenere il suo disappunto. Davanti a lui, al posto della ninfetta che s'era immaginato, comparve un omone coi baffi neri e una testa piena di riccioli dello stesso colore. In bocca, bruciata fino al filtro, una sigaretta. Occhi scuri, semichiusi per il fumo, viso butterato, classico vestito da impresario delle pompe funebri.

"Il signor Giancarlo?".

Giancarlo, un nome naturalmente falso inventato per l'occasione, esitò un istante, poi annuì. La presenza di quel magnaccia complicava le cose.

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Pagina 50

8

Milano è la città degli orologi. Ce ne sono tantissimi disseminati lungo i viali. Presenze costanti che ti osservano dal marciapiede. A prima vista sembrano lampioni o pali del telefono. Sempre in funzione, sotto la pioggia o la neve o nelle afose notti d'estate. Da Lambrate a Ticinese, da Loreto a Brera, da Porta Romana a Sant'Ambrogio, non puoi sfuggirgli. Tondi e luminosi, ti accompagnano ovunque tu vada. Stanno a ogni angolo di strada. Scandiscono il tempo della metropoli, anche se non sono quasi mai giusti. Forse c'è un preciso disegno dietro a tutto questo, forse rappresentano semplicemente l'ossessione meneghina per la puntualità che ruba il tempo. Nella città frenetica, dove tutti corrono, dove tutti scappano verso un appuntamento, nessuno bada agli orologi che, pacifici, segnano l'ora sbagliata.

Questo non accadeva alla fermata della metropolitana di piazzale Loreto.

Il grande quadrante appeso in fondo al marciapiede della linea verde, direzione centro, segnava le otto e quarantadue e, caso strano, era esatto.

Era lunedì 7 novembre, e pioveva forte.

Uffici e negozi stavano per aprire, tangenziali e circonvallazioni erano congestionate dal traffico, come sempre nei giorni di brutto tempo.

La città si rimetteva in moto dopo il weekend, l'esercito dei pendolari prendeva d'assalto i treni della metropolitana.

Il tabellone luminoso indicava un minuto e mezzo all'arrivo del prossimo treno.

Posti a sedere sulle panchine non ne rimanevano, e anche per quelli in piedi si faceva fatica.

Ci saranno state duecento persone gocciolanti ammassate su quel marciapiede. Forse di più.

Un intero mondo. Uomini in giacca e cravatta, donne in tailleur, ragazzi in jeans, ragazze in minigonna di pelle e anfibi. Ragazzini coi videogiochi sotto agli occhi, adulti col palmare in mano. Zingare con gonne variopinte, una donna col passeggino, un tizio con la fisarmonica al collo e un bicchiere di carta per le offerte. Un pakistano con un cartone piegato sotto al braccio e un borsone nero fra le gambe. Un paio di tizi, di quelli che il posto a sedere l'avevano trovato, col portatile già acceso. Una schiera di ragazzi con lo zaino posato a terra e le cuffie ficcate nelle orecchie. Crocchi di colleghi che chiacchieravano del weekend appena trascorso. Neri, cinesi, turisti. Due uomini con l'accento dell'est europeo con secchio e cazzuola. Impegnati e disimpegnati, coscienti e incoscienti, equosolidali ed egoisti, angosciati preoccupati stressati e annoiati, frivoli e gaudenti. Rampanti e sfigati, modelle e cassintegrati, tonificati da saune e fitness center, fanatici del salutismo, schiavi del junk food, anime in pena in cerca del guru, vecchi fricchettoni, punkabbestia coi cani. Nevrotici che somatizzano le cose più insignificanti, igieniste in guanti bianchi, paranoici, psicotici, maniaco-depressivi, ansiose, anoressiche, compulsive con la mania dello shopping, ossessionati dal sesso e dalla carriera, precari in attesa d'un corso che non arriva mai, interinali di megastore sempre aperti, fanatici dell'happy hour, pensionati al minimo e nipotini coatti. Abbonamenti vidimati, cartellini da timbrare, ticket restaurant, gessati, bandane, cappellini, piercing, tatuaggi, nike puzzolenti e mocassini impeccabili, ventiquattrore da manager e da travet, zainetti e tracolle, i-pod e lettori cd e libri e gabbie coi gattini.

L'orologio indicava le otto e quarantaquattro quando tutte le voci vennero inghiottite dallo stridore di freni del convoglio in arrivo dalla galleria. La gente avanzò compatta come se si fosse trasformata in un unico essere. Come gli uccelli quando, a un determinato segnale, si levano tutti insieme in volo.

Le voci ripresero più forti.

La folla spinse, si agitò, si strinse, si aprì in un varco improvviso proprio in testa al binario.

Una donna iniziò ad urlare istericamente.

Spintoni in tutte le direzioni. La luce andò via. Ritornò. I binari rimasero senza tensione.

Il volto bianco come un cencio del conducente fece capolino dal finestrino.

L'altoparlante invitò la gente di mantenere la calma.

Nessuno gli diede retta.

Qualcuno era appena finito sotto al treno.

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Pagina 94

17

Le fotoelettriche illuminavano a giorno i cumuli di rifiuti della Milano dei consumi.

La puzza, nonostante la mascherina incollata al naso, era insopportabile. Sebastiani aveva pensato che il freddo pungente avrebbe attenuato il fetore, invece stare lì era semplicemente intollerabile.

Un elicottero sorvolava la zona. Decine di poliziotti setacciavano il posto. Insieme a loro anche una squadra di artificieri con i cani.

Gli abitanti della zona si assiepavano contro la recinzione cercando di capire cosa significasse quel dispiegamento di forze. Il luogo delle operazioni era il deposito rifiuti dell'Ansa, la municipalizzata meneghina per la raccolta della spazzatura. Un'enorme distesa situata nella zona nord-ovest della città, nei pressi di Figino. Oltre alla spazzatura, lì si trovava l'impianto di smaltimento denominato, forse per le reminiscenze storiche di qualche assessore, Silla Due. Pur progettato da uno studio di grido, che aveva posto particolare attenzione all'impatto ambientale che un impianto di così grandi dimensioni avrebbe avuto sul territorio, quello che Sebastiani vedeva era uno sterminato e nauseabondo immondezzaio, vicino al quale non avrebbe mai voluto abitare.

Il motivo di tutto quel trambusto era ovviamente la mappa ritrovata in casa di Marchese. Il vicequestore ci si era incaponito. Non solo lui, in verità. Anche Pietro Ginestri, uomo di punta dell'antiterrorismo, aveva voluto andare a fondo della faccenda.

"Nei tempi in cui viviamo", aveva pontificato, "il nostro non può, e non deve, rimanere soltanto un sospetto. Controllare è necessario".

Sebastiani si era trovato d'accordo.

Purtroppo, quando si erano decisi, non si poteva più rovistare nel cestino: la nettezza urbana ne aveva già rovesciato il contenuto in quella discarica. L'unica consolazione era che non dovevano controllare tutta la distesa di ciarpame. I rifiuti raccolti dal camion 67, quello che si occupava di ritirare i sacchi a Loreto, venivano scaricati sempre nello stesso posto, sul lato ovest. Da lì, nel giro di qualche giorno, sarebbero passati nell'inceneritore per venire trasformati in energia.

Gli uomini setacciavano la spazzatura ormai da due ore.

Sebastiani studiava Ginestri impegnato in un'interminabile conversazione telefonica. Alto e secco, occhi scavati, capelli rasati. Pur essendo distaccato a Milano, dipendeva direttamente da Roma, dalla Direzione Centrale Anticrimine della polizia di Stato. La Dac è una struttura che si occupa di crimine organizzato internazionale in collaborazione con le polizie locali. Interviene ogni volta che l'efferatezza del crimine o la pericolosità dell'organizzazione che si ha di fronte non possono essere affrontati con i mezzi ordinari. Sebastiani li aveva interpellati per Marchese.

Dalla perquisizione dell'appartamento in realtà non era saltato fuori niente che confermasse i loro sospetti: né armi né esplosivi. Tutto quello che avevano sequestrato era un'agenda, i cui indirizzi stavano controllando, i manuali di criminologia, e una pila di vecchi giornali. Marchese non possedeva né cellulare né telefono.

Sebastiani camminava su e giù per il piazzale. Non si azzardava a togliersi la mascherina, anche se moriva dal desiderio di mordicchiare un sigaro. Rimuginava.

Quel cerchio rosso stava a indicare un obbiettivo? Ipotesi: in casa non avevano trovato niente perché quello che c'era da trovare era già stato consegnato. Altra possibilità: durante la consegna qualcosa era andato storto. Per questo l'avevano fatto fuori. Secondo gli standard della Dac, Marchese poteva essere uno di quegli emarginati che si facevano mandare allo sbaraglio per soldi o per fanatismo ideologico. Una pedina manovrata dai poteri forti.

Una volta che aveva portato a termine il lavoro, l'avevano eliminato. Nessuna traccia, nessun testimone.

Sebastiani gettò a terra la mascherina e si mise a masticare un sigaro. Quell'odore nauseabondo lo faceva delirare.

Ginestri cercava di combattere la puzza a colpi di Marlboro. Aveva appena terminato la sua chiamata, quando Sebastiani gli manifestò le sue perplessità.

"Sto pensando a quel cestino. Perché l'hanno scelto appena fuori dalla stazione? Non è una collocazione insolita per un attentato?".

"Per un attentato, sì. Probabilmente serviva per disfarsi di qualcosa. Magari faceva parte del piano di riserva".

"Piano di riserva?".

"Nel caso qualcosa non fosse filato liscio. Una specie di cosafare-in-caso-di".

"Tipo il terrorista a Londra che si è fatto scoppiare sul bus?".

"Qualcosa del genere, anche se forse in quel caso c'è stata più improvvisazione".

"Non vedo il nesso, comunque".

Ginestri accese un'altra sigaretta utilizzando il mozzicone di quella che teneva in bocca.

"Vede Sebastiani, questa gente non opera mai in maniera isolata. Se qualcosa va storto, per una qualsiasi ragione, è importante ripiegare e disfarsi dell'esplosivo. Quella è merce preziosa".

"Tanto preziosa da essere gettata in un cestino?".

"Anche. Un complice, in un secondo tempo, ad acque chete, provvede a recuperarlo".

"Quindi abbiamo scatenato la terza guerra mondiale in questa discarica, casomai il pacchetto non fosse stato recuperato?".

Ginestri annuì.

"È solo un'ipotesi, ma la possibilità che l'ordigno sia qui esiste. Di pericolo, finché è seppellito nella spazzatura non se ne corre, ma se per caso dovesse finire nell'inceneritore, raccoglierebbero i nostri resti col cucchiaino".

Proprio in quel momento, da dietro una lavatrice sventrata, spuntò la testa di un poliziotto. Fece segno che avevano trovato qualcosa.

"Ci siamo", disse Ginestri. "Faccia allontanare tutti. Ora è compito degli artificieri".

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25

Quel giorno, per la prima e forse ultima volta in vita sua, Enrico Radeschi assaporò la piacevole sensazione di essere considerato un interlocutore di tutto rispetto, e non un maledetto ficcanaso.

Si trovava in via Caterina da Forlì, dove era stata trovata assassinata la seconda prostituta, e stava conversando amabilmente col portiere, Gino Pogliaghi.

Quel giorno Radeschi aveva deciso di giocare d'azzardo con la galera: si era presentato all'uomo come ispettore della polizia, esibendo all'americana la sua patacca rubata.

Pogliaghi si era messo sull'attenti, per quanto il suo metro e mezzo d'altezza non gli permettesse di sortire l'effetto desiderato. Aveva un paio di baffetti alla Poirot e indossava un completo chiaro vecchio di chissà quanti anni, corredato da un sfarzosa cravatta gialla. Era un milanese di quelli di una volta. Quando parlava costruiva metà frase in italiano e metà in dialetto. Sarebbe sicuramente andato d'amore e d'accordo con Beppe Calzolari. Stavano seduti in un stanzino dietro la portineria. Pogliaghi aveva lasciato la porta aperta in modo da poter tener d'occhio l'ingresso.

Aveva offerto da bere allo sbirro, e si era stupito che questi avesse accettato un bicchierino di amaro.

Radeschi attaccò con un paio di domande di routine: generalità, da quanti anni lavorava lì e via dicendo. I1 portiere rispondeva ubbidiente, domandandosi perché gli toccasse nuovamente passare sulla graticola visto che quell'altro suo collega, Lonigro, l'aveva già torchiato per bene poco più di una settimana prima.

Dall'interrogatorio non emerse nulla di nuovo. Pogliaghi stava molto sulle sue, rispondeva a monosillabi o utilizzando il minimo indispensabile di parole. Sembrava uno studente pescato impreparato all'interrogazione. Se ne stava lì seduto col suo bicchierino di Braulio, continuamente rabboccato, con lo sguardo perso in direzione dell'ingresso. Prestava la massima attenzione alle domande per poi fornire risposte del tutto deludenti. Ripeté per filo e per segno la versione che aveva raccontato anche ai suoi presunti colleghi.

Aveva visto un uomo arrivare intorno alle sedici, un tizio con un giaccone elegante e una ventiquattrore in mano. Poi l'aveva visto uscire una quarantina di minuti più tardi. Dopo aver atteso una mezz'ora era salito a dare un'occhiata perché in genere la "signorina finiva di ricevere alle cinque; poi se ne andava di corsa a lavorare al pub".

Il Pogliaghi era più sveglio di quel che sembrasse.

Quando era salito aveva trovato la porta socchiusa così, insospettito, aveva chiamato la ragazza dall'uscio. Non avendo ottenuto risposta era entrato e l'aveva trovata stecchita.

Radeschi si versò un altro bicchiere di amaro e fissò in silenzio Pogliaghi. Quello sapeva molto di più di quello che diceva. Il suo istinto di giornalista gli suggeriva che lì c'era qualcosa da scoprire, specialmente se uno si prende la briga di fare quattro piani di scale senza ascensore solo per soddisfare la propria curiosità. Pogliaghi lo guardava tranquillo, gettando di tanto in tanto un'occhiata all'ingresso. Deformazione professionale. Era venuto il momento di cambiare tattica.

"D'accordo Gino", iniziò passando al tu. "Non sono proprio uno sbirro. Diciamo che non lo sono per niente. In realtà, sono un giornalista e volevo semplicemente sapere qualcosa di più sulla faccenda".

Pogliaghi non batté ciglio. Non si scompose, non disse nulla. Continuò a fissare l'ingresso. Aveva il pelo sullo stomaco, quel nano.

"Io sono convinto che tu non mi abbia raccontato tutto".

Il portiere non rispondeva più. Non era più obbligato e anzi si era alzato in piedi e aveva riposto la bottiglia di amaro nella credenza. Non valeva la pena di sprecare il Braulio con lui.

Radeschi sospirò e, suo malgrado, passò al piano B. Cioè al piano A che gli era consueto. Mise mano al portafoglio per cavarne cinquanta euro.

Li appoggiò sul tavolo.

Pogliaghi guardò la banconota, poi l'ingresso. Senza cambiare espressione.

Radeschi aggiunse una banconota da venti.

Il portiere alzò un sopracciglio.

Il giornalista allora si frugò in tasca e ne cavò due monete da cinquanta centesimi.

"È tutto quello che ho, Gino".

Pogliaghi guardò negli occhi Radeschi e decise di credergli. Intascò i soldi.

"Acqua e danee, hin mai asee", sussurrò.

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Pagina 154

30

Il locale era luminoso nonostante fuori fosse buio. Era minimal senza essere freddo, uno di quei posti moderni con tanto spazio vuoto. Stella entrò per prima, seguita a ruota da Radeschi.

Si trovavano al Fastweb Café in zona Porta Romana. Il posto non dispiaceva a Enrico: tavolini in legno chiaro, libri, riviste e, cosa più importante, postazioni internet gratuite a disposizione, senza bisogno di pagare o d'esibire documenti. Unico obbligo: ordinare da bere.

Erano da poco passate le otto e c'era un sacco di gente assiepata al buffet. Nessuno poteva più permettersi di andare al ristorante, così ci si ammazzava di aperitivi a cinque euro, cavalcando l'illusione di mangiare a sazietà.

Stella si procurò un paio di piatti e un libro. Sapeva benissimo perché si trovavano lì, Enrico l'aveva istruita a dovere. Depistare l'attenzione dalla sua febbrile attività alla tastiera, questo era il suo compito. Anche la scelta dell'ora non era stata casuale. Quando il locale è così pieno si diventa invisibili. Nessuno si sarebbe ricordato di quel tizio col pizzo nero, vestito come Dylan Dog, che armeggiava su un pc. Forte di questa convinzione, Enrico inserì la chiavetta usb su cui aveva copiato i programmi suggeriti da Fabio. Doveva bucare il sistema di due dei maggiori gestori di telefonia mobile d'Italia e qualche precauzione bisognava prenderla.

Si mise al lavoro col primo operatore. Il suo intento, una volta entrato nel sistema, era quello di consultare il database delle chiamate e i relativi tabulati telefonici. Il passo successivo sarebbe stato quello d'individuare il punto esatto in cui si trovava una certa persona in un determinato momento.

"Ogni telefono cellulare", gli aveva spiegato il buon vecchio Fabio, "ha un nome e un cognome: numero e IMEI. Anche il tuo cellulare, quindi, ha questi due identificativi: il tuo numero di telefono e il codice IMEI che è memorizzato dentro all'apparecchio. Pensa che anche le schede prepagate per le cabine hanno un codice simile. Queste informazioni, insieme ai tuoi dati personali, sono memorizzate negli archivi delle compagnie telefoniche. Ogni operazione compiuta dal tuo telefono, dalla ricerca di campo all'invio di un sms, rimane registrata per mesi, se non per anni, insieme al numero delle persone che chiami. Quindi, se devi fare qualcosa di non proprio pulito, sappi che l'unica cosa per rendersi davvero invisibili è tenere il telefono spento. Soprattutto perché il tuo cellulare, caro vecchio compagno di mille avventure, parla troppo e segnala costantemente dove ti trovi. Come certo saprai, il giocattolino emette continuamente un segnale che viene ricevuto dal ripetitore più vicino. Il ripetitore può calcolare la tua distanza in base alla forza del segnale e, in questo modo, bastano tre soli ripetitori, un comune compasso e una carta geografica per essere certi della tua posizione con l'approssimazione di qualche metro. Avere con sé un telefono cellulare acceso", aveva continuato Fabio, "significa comunicare costantemente la propria posizione e, in caso di denuncia, diventa difficile, se non impossibile, negare la propria presenza nei luoghi dove sono avvenuti i fatti".

La lezione era stata illuminante, e lui la stava mettendo a frutto. Stella si mise a leggere, Enrico, snobbando il mouse, iniziò a battere sulla tastiera aprendo una finestra di prompt, ovvero una di quelle schermate nere con le scritte bianche diventate tanto famose col film War Games. Davanti ai suoi occhi solo codice. Nessuna icona: più i cervelloni elettronici sono potenti più l'interfaccia grafica tende a ridursi, fino a scomparire del tutto. Gli hacker utilizzano soltanto linee di comando, niente ghirigori né sfondi. Un cursore bianco lampeggiante su schermo nero: il campo di battaglia del pirata informatico è del tutto simile a una scacchiera.

Si collegò via Telnet all' host del primo gestore, cioè si vestì di stracci per non farsi riconoscere e arrivò, attraverso una stradina secondaria, nei pressi dell'abitazione in cui si voleva introdurre. Era venuto il momento di bussare alla porta del cervellone telefonico. Toc toc. In ogni attacco hacker questa fase rappresenta il momento della verità. Per bucare un sistema non ci vuole solo tecnica e conoscenza approfondita della materia, ma anche, sembra incredibile a dirsi, psicologia. Proprio come negli scacchi. Le regole sono chiare: sai benissimo come si possono muovere il cavallo e la torre. Quello che non sai, e che devi cercare di prevedere, è il fattore umano: come, e quando, il tuo avversario deciderà di adoperarli. Prima di rischiare qualsiasi mossa, dunque, specialmente quella d'apertura, meglio studiare il proprio contendente per capire come intenderà impostare la partita.

L'avversario di Enrico, o meglio gli avversari, erano gli amministratori di sistema, ovvero le persone che si occupavano della sicurezza informatica delle due compagnie telefoniche. Sarebbe stato un gioco di nervi per il nostro, visto che questo genere di partite si combattono quasi esclusivamente a senso unico. Radeschi sarebbe partito a testa bassa, cercando di fare scacco matto in poche mosse. Laltro si sarebbe difeso a oltranza, nel tentativo di fargli commettere un'ingenuità e, quindi, batterlo. Per questa ragione il primo comandamento dell'hacker è: non avere fretta. Raccogliere informazioni sull'avversario è vitale per vincere ed è, al contempo, la cosa più semplice del mondo. Ogni computer collegato alla rete, infatti, è identificato da un numero univoco chiamato indirizzo IP, che potremmo paragonare a un semplice numero di telefono. Nella vita normale quando si ha un numero di telefono ma non si sa a chi appartiene, cosa si fa? Si telefona alla Telecom, oppure si cerca sugli elenchi che si trovano sul web, il gioco è fatto: l'operatore o il sito vi forniscono i dati dell'abbonato. Per i computer è lo stesso. Sul sito dell' authority italiana, inserisci l'indirizzo IP del computer che ti interessa e in un secondo hai sotto agli occhi nome, cognome, indirizzo mail, numero di telefono e fax del responsabile sicurezza di quello specifico computer. Il tuo avversario.

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