Copertina
Autore Fernando Royuela
Titolo La mala morte
EdizioneVoland, Roma, 2007, Intrecci 52 , pag. 328, cop.fle., dim. 14,5x20,5x2,1 cm , Isbn 978-88-88700-39-7
OriginaleLa mala muerte [2000]
TraduttoreFederica Frasca
LettoreElisabetta Cavalli, 2007
Classe narrativa spagnola , paesi: Spagna
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Pagina 11

In vita mia ne ho conosciuti di figli di puttana, però la mala morte non l'ho mai augurata a nessuno. Con lei non farò eccezioni. L'essere umano si mantiene al mondo quasi senza accorgersi della tragedia che lo attende. C'è chi si inventa un dio per sottrarsi all'angoscia e chi, per allontanare l'inevitabile, soddisfa l'immediatezza del piacere; però la morte usa con tutti lo stesso metro. Della fine ero già informato, ma non pensavo che sarebbe andata in questo modo.

So perché è venuto, ma non mi importa. Finora non mi ero mai trovato faccia a faccia con la certezza di dover smettere di esistere, perciò la sua presenza, invece di spaventarmi, mi avvilisce. Adesso so che la mia esistenza era destinata sin dal principio a questo incontro; che i miei passi erano condannati ad arrivare fin qui, che non potevo sfuggire al mio destino, per quanto assurdamente lo pretendessi, e che nessuno, neanche le persone care, potranno mai piangere la mia perdita. So che è venuto a divertirsi con lo spettacolo della mia morte, l'ho capito dalla ruggine dei suoi occhi, dalla muffa della sua curiosità, ma ormai l'inesistenza non mi fa più paura. Dicono che nel momento esatto della morte le scene vissute scorrano vertiginose come i fotogrammi di un film. Dicono che, quando si è finito di vederle tutte, cessi la coscienza. Può darsi che sia vero e che in questo momento io stia assistendo alla precipitosa contemplazione di un passato nebuloso di ricordi. Le appparizioni dei morti testimoniano la persistenza dell'anima e aiutano i vivi a sgrossare le incognite provocate dalla loro finitezza. Questo sarà il mio magistero. Il resto non conta, non è altro che perplessità o passatempo.

So che è venuto a divertirsi con lo spettacolo della mia morte e che a nulla servirebbe, ora, fare appello alla sua pietà, tenerezza o compassione. So anche che non cova odio e che non è in malafede, ma che vuole solo cavarsi con me la sua curiosità prima di giungere all'inesorabile finale. Si accomodi, dunque; eccomi qui, spalancato come un libro da iniziare. Le mie ore saranno le sue pagine, i miei ricordi la ragion d'essere della sua lettura, la mia estinzione il punto finale dove dovrà fermarsi.

In vita mia ne ho conosciuti figli di puttana, però la mala morte non l'ho mai augurata a nessuno. Eppure toccò a mio fratello Tranquilino. Un treno merci lo travolse. Accadde un mese di luglio screpolato dalla siccità. Aveva addosso l'allegria dei quindici anni appena compiuti e, ancora prima di rendersene conto, la locomotiva gli si era già stampata in fronte. Il suo cervello impataccò le traversine dei binari e le formiche fecero festa. Le formiche accumulano provviste per l'inverno, sono previdenti, ma alla fine muoiono proprio come le cicale, ecco dov'è la fregatura. Mio fratello Tranquilino si divertiva a vederle bruciare. Scapocchiava una scatoletta di fiammiferi all'ingresso del formicaio e gli dava fuoco. Rimaneva così, assorto, a guardare la chitina ardere, preda dell'odore infernale emanato dalla vita abbrustolita; lunghi istanti finché il fumo non gli si dissolveva nell'olfatto e non aveva più saliva da secernere. Uno dopo l'altro, fece fuori tutti i formicai del paese finché il treno non gli scippò la vita con un colpo secco di locomotiva che rimbombò a vuoto sotto il cielo sconfinato della Mancia.

Mio fratello Tranquilino, nella sua beata semplicioneria, ignorava che ognuno di noi ha una fine che lo aspetta secondo i disegni della provvidenza, e che, sebbene qualcuno sostenga il contrario tanto per affermare la propria libertà, vuoi o non vuoi, le cose stanno in questo modo. C'è chi se la cava con l'inganno e chi con la mansuetudine; a conti fatti, però, il risultato è lo stesso. Fa parte della natura dell'uomo ribellarsi al proprio destino, ma alla fine si muore comunque. Le formiche non fecero che adempiere alla propria missione, quando si papparono le cervella di mio fratello. Avrebbe potuto andare peggio, ma non fu così. Le cose vanno come devono andare e non come vorremmo noi. Guardi me, se non ci crede; nano dai piedi alla punta dei capelli, braccine corte, gambe arcuate, brachicefalo, un aborto di natura, ma reso grande dal rispetto e dal timore reverenziale che conferisce il tintinnio dei soldi. Mia madre scoppiò a piangere appena mi ebbe partorito. Era notte e il parto la colse duro e improvviso. Prima pianse di dolore, poi di strazio. La mia testa le lacerò il giogo di carne che unisce l'ano alla vagina. In seguito il veterinario sarebbe andato in giro a raccontare che ululava come le lupe selvatiche sfiancate a colpi di cartuccia. Mia madre si accorse al primo sguardo della mia deformità. "Non mi è venuto bene neppure questo, vero don Gregorio?" Il veterinario, che mi teneva ancora per le caviglie, si limitò ad annuire con la testa, mentre il sudore gli gocciava in perle dalla fronte. Lei gli chiese di accopparmi, ma il veterinario ebbe il buon cuore di ignorarla e mi pulì il vermis con acqua tiepida prima di infilarmi il vestito rosa antico che mia madre aveva acquistato da un chincagliere per il corredino della bimba che desiderava. "Così vestito, ci guadagna" le rispose, e mia madre si mise a piangere per l'angoscia che le afferrò il cuore nel realizzare che, invece di una femmina, aveva partorito un nano. Maria mi avrebbe chiamato, Maria anziché Gregorio, come il veterinario che mi fece venire al mondo.

A noi nani la vita ci è sempre andata grande. Certi sguazzano nella pochezza della loro condizione come pesci nell'acqua, riuscendo addirittura a essere felici: altri, invece, vagano ai margini dell'esistenza come cani inselvatichiti dal marciume delle città, leccandosi il risentimento, misurati dal terribile metro dell'indifferenza, caracollando fin dentro la tomba.

Il patrimonio della violenza viene di solito depositato nelle mani dei disperati, in quelle dei diseredati e dei dementi, ma alla fine tutti periscono della spada con cui feriscono. Mio fratello era un figlio di puttana naturale, cioè di quelli ereditari. Aveva un cervello dolciastro come liquirizia, che le formiche non seppero apprezzare. Il poveretto fu scagliato in aria da una locomotiva mentre attraversava i binari, diretto al fazzoletto d'orto che mio padre possedeva accanto al muro del cimitero. Sono sicuro che quell'uomo non era mio padre. Di mio fratello, forse, ma certo non il mio. Mio padre doveva essere un figlio di puttana qualunque, che fecondò a casaccio il ventre di mia madre con l'inconsistenza dei suoi geni. Forse era uno dei camionisti che, sulla strada per Valencia, si fermavano a pranzare a El Paquito, alla periferia del paese, lungo la statale. Era lì che mia madre lavorava. Preparava stufati, lavava tegami, serviva al bancone e faceva dell'altro quando le pigliava la voglia o le pagavano il servizio. Era un poco civetta e un tanto puttana, come d'altra parte molte donne della sua generazione, reduci delle carenze che la guerra aveva inflitto alle loro giovani carni. Pare che mia madre avesse conosciuto suo marito dopo avere lasciato Madrid diretta verso la costa, durante una sosta per la pipì che il convoglio della Croce Rossa, con cui lei era stata sfollata, fece in paese. Aveva sedici anni, nonostante le forme generose, e rimase con lui dall'istante in cui lo vide comparire lungo il fiume mentre, accovacciata, si svuotava la vescica contro un muretto scrostato. Un colpo di fortuna, considerato che soltanto due dei camion del convoglio riuscirono a raggiungere Valencia. Gli altri quattro esplosero per una bussa di mortaio che il cielo di Franco fece loro grandinare addosso.

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Un calcio fece saltare i denti al piccolo Santomàs quando era adolescente. Avvenne mentre cercava di far scoppiare nell'ano di un mulo un petardo cinese, di quelli avvolti nella carta a stelline che detonavano bei peti di polvere. Il piccolo Santomàs se l'era cercata. Poteva andargli peggio. Gli zoccoli ferrati avrebbero potuto sfondargli il cranio o l'inerzia del calcio trapanargli la pancia, ma le cose andarono esattamente come gliele racconto e non come avrei voluto io, quindi gli capitò soltanto di rimanere senza denti. "Ahi, ahi, ahi," diceva sanguinando dalla bocca "mi ha spaccato la faccia, ahi, ahi, ahi, me l'ha spappolata." Il piccolo Santomàs strillò per tutto il paese finché non riuscirono a placarne l'isterismo e alleviargli il dolore con della cera d'api. Il piccolo Santomàs era un figlio di puttana di quelli galanti e credenti, che cedono il passo alle signore per calibrargli il culo da dietro e poi vanno in chiesa la domenica, gloriandosi della fede dei propri avi per sentirsi migliori degli altri. Poveretto, nonostante fosse sdentato, gli toccò una mala morte. Accadde a Roma. Morì carbonizzato in un incidente aereo, ma questo avvenne molto dopo, alla vigilia dell'omicidio del celebre ammiraglio, quando ormai non pascolavo più per il paese.

Vede, il piccolo Santomàs aveva ricevuto sia il battesimo sia la prima comunione. Padre Vicente gli aveva dato la comunione chiedendogli solo se credeva in Dio e se peccava con la carne. "Sì, padre, credo, sì, padre, pecco, ma con la mia soltanto, perché con le altre non posso, altrimenti farei pure quello, però mi pento di essere come sono e ho il cuore addolorato, intendo fare ammenda, quello che voglio è andare in cielo anziché all'inferno, perché mio padre dice che all'inferno bruciano i comunisti che fucilarono zio Amancio e io non voglio finire bruciato insieme a loro."

Un calcio fece saltare i denti al piccolo Santomàs quando era adolescente, gliel'ho già detto, mio fratello Tranquilino era presente alla scena; quei due, infatti, non si erano antipatici. Infilò un petardo cinese nell'ano di un mulo e questo paff! gli esplose un calcio in piena faccia. Il poveretto non voleva bruciare all'inferno e invece bruciò su un aereo passeggeri, un Boeing della PanAm con cui era volato a Roma per assistere alla messa di Paolo VI; accadde il giorno prima che saltasse per aria l'ammiraglio Luis Carrero Blanco, come se i demoni l'avessero tirato per i capelli. In quei giorni il cantante Camilo Sesto era agli esordi (sempre m'innamoro di chi non s'innamora mai di me) e a Madrid faceva freddo, un freddo cane che ti penetrava dentro fino al midollo. Gli toccò proprio una mala morte. Mio fratello Tranquilino si divertì un mondo, e rise a crepapelle fin quasi a scoppiare. Non si erano antipatici ma neppure simpatici. A volte il piccolo Santomàs lo chiamava figlio di puttana, così, per sentito dire, senza saperne il significato.

Volli fare anch'io la prima comunione. Lo dissi a mia madre e lei mi suggerì di parlarne col prete, padre Vicente. "Va' dal prete, e se ti dà la sua benedizione, tanto di guadagnato." Padre Vicente era un figlio di puttana di quelli con la sottana logora e la pelata unticcia, che faceva di tutto per evitarmi. Aveva le dita affusolate e le unghie sempre disseminate di sporcizia, come campi incolti becchettati dalle gazze. La tonaca gli puzzava di anisetta e sulle guance la patella secca dell'insidia gli risucchiava la magrezza. Non avrei dovuto andare a parlargli, ma allora ero accecato dai fasti della liturgia e commisi l'errore. Padre Vicente mi prese per un orecchio sollevandomi all'altezza della sua bottoniera. "E tu, moccioso, vorresti fare la comunione senza essere neanche battezzato? Come puoi pensare di fare la comunione se non sei altro che un aborto del peccato? Sparisci, va' a mordere topi, che il Signore abbia misericordia e ti perdoni di essere nato." Spiazzato da quell'arringa di rifiuto proprio quando contavo su un po' di approvazione, non seppi reagire e, spinto dalla rabbia e dalla delusione, gli scodellai un bel "figlio di puttana" timoroso ma perfettamente scandito. Per la sberla che mi diede mi si annebbiò la vista. Rimasi zitto, immobile, di sasso, schiacciato dal peso del mondo. "Nano maledetto, sei superbo come tutti quelli della tua risma. Esci immediatamente dalla casa di Dio e non profanarla mai più con la tua bestialità. Vade retro, bocchinaro!" Il prete mi parlava con occhi da pazzo, iniettati di sangue, e le parole gli uscivano di bocca sputacchiando saliva. Uscii di lì traballando, incespicando, sprofondato nella disgrazia ma con il fiore della vendetta splendidamente profumato. Dovevo solo aspettare l'occasione giusta per mostrarne al prete tutta la bellezza.

La mia vita è una brughiera: fiore che tocco si sfoglia; ché nel mio cammino fatale, qualcuno va seminando il male affinché io lo raccolga. La poesia, per un caso o per l'altro, è sempre stata uno dei rifugi del mio spirito, un luogo sacro e invalicabile dove bellezza e solitudine si fondono nell'ipostasi sublime del sentimento. Esistono molti altri luoghi nei quali rifugiarsi, ma nessuno è altrettanto perfetto. Nella sua clandestinità ho tramato i miei piani e intessuto le appiccicose reti dei miei sogni. La poesia è il linguaggio con cui la provvidenza sparge intorno i suoi capricci: ... qualcuno va seminando il male affinché io lo raccolga. Quei versi mi ispirarono il meccanismo della vendetta e da essi trassi la forza necessaria per portarla a compimento.

L'oscurità è propizia allo spettacolo della profanazione. Attesi la sera precedente la celebrazione eucaristica, durante la quale i bambini in età avrebbero fatto la prima comunione. Il paese era sprofondato nel silenzio o nella contrizione. Soltanto le luci de El Paquito, rosse e lontane, indicavano la presenza di vita umana. Come una bestia, mi aggirai intorno alla chiesa fino alle tre del mattino. Mi assicurai che il prete stesse dormendo nell'attigua canonica e attesi che i cani esaurissero la loro scorta di latrati. Allora mi avvicinai al muro, mi appollaiai su una ceppaia, con una pietra ruppi la finestra della sagrestia e mi intrufolai dentro. Non mi vide nessuno, non mi sentì nessuno, nessuno mi fiutò nell'aria. Da sopra le tegole arrivava il miagolio dei gatti, ancora impegnati a gustare le lische della cena. Mi inoltrai nella stanza. L'ombra regnava sovrana e il battito della mia sfida trovava complici le tenebre. Mi muovevo rapidamente. Avrei potuto restare con quel feroce desiderio di vendetta che mi ardeva nelle viscere. Avrei potuto mordermi la lingua quando padre Vicente mi aveva schiaffeggiato spinto dalla sua arroganza, avrei potuto evitare di insultarlo a quel modo, subendo e continuando a espiare le mie pene nel silenzio stagno della coscienza, ma a volte la provvidenza costringe gli uomini ad affrontare la sorte, e allora non resta che bruciarsi prendendo in mano le braci del destino, magari spegnendole con uno sputacchio di follia o con un qualsiasi altro fluido che venga dall'interno, come feci io. La notte era buia come le anime di chi è morto senza confessarsi. Il mattino seguente, maggio avrebbe mostrato il suo candore mariano e i bimbi del paese avrebbero fatto la prima comunione. Attraversai la sagrestia, una stanzuccia odorante di cingoli e casule incensati dal puzzo del tempo, e mi inoltrai nella chiesa fino a imbattermi nella statua lignea di San Rocco, che dormiva avvolta nella luce oleosa di un lumino; funebre, tellurica, il cane senza coda che abbaiava alla luna. Il silenzio dei miei passi riecheggiava tra i conci dei muri fino a raggiungere il massimo rimbombo nella botte massiccia della volta. Era come penetrare nella tomba di un papa e annusarne la carogna in decomposizione.

Sentivo l'enorme eco del buio risuonarmi nei timpani, mentre la spirale di umidità mi ammuffiva il naso con quel timore reverenziale che si prova verso ciò che è sacro oppure morto. Ero soltanto un ragazzo, uno che fino ad allora non aveva mai osato lamentarsi del proprio destino. Avevo paura, ma ero deciso; una forza interiore mi indicava la strada, esercitando al posto mio la volontà. Quando raggiunsi l'altare, ero in un bagno di sudore. Le tempie mi bruciavano. La croce del Cristo aggiungeva al luogo la spettacolarità del tormento. Su di essa, una figura pallida, policroma di piaghe vermiglie, emanava dal fianco una cateratta da brivido. Con la testa inclinata – parlo del Cristo, non di me – e lo sguardo perso su qualche punto del pavimento, non mi imponeva la sua presenza, anzi; pur essendo io un nano, mi consolavo in quel faccia a faccia di maschere di morte, galvanizzato da quelle immagini che ne denunciavano la falsità; un pezzo di legno e un pezzo di carne si fronteggiavano nel cuore della notte. "Dio non esiste, me l'ha detto la mamma" mi ripetevo in testa le parole che avevo sentito pronunciare a mio fratello. All'improvviso, un'inspiegabile felicità mi riempì l'animo di euforia. Era una contentezza simile a quella provata quando mia madre mi aveva fatto bere il rimedio del cognac, era la sbronza della vendetta. La serratura del tabernacolo aveva la chiave infilata. Dentro c'era il calice. Su di esso un velo omerale di seta senza pieghe sprigionava la sua asettica liscezza. Afferrai il calice e lo deposi a terra, sotto l'altare. Tutto d'un fiato, lo scoperchiai del velo. Al suo interno, un ammasso di ostie attendeva la comunione del giorno dopo, l'allegra comunione dei bambini che per la prima volta avrebbero sentito il corpo di Cristo posarsi sulle loro lingue, un corpo azzimo che poco a poco gli si sarebbe sciolto tra i denti come un culto antico o un granello di sale. Senza riflettere oltre, mi abbassai i pantaloni e, lì dov'ero, piegato sul calice, mi preparai ad andare di corpo.

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A Cuenca ci si appiccicò un gobbo che voleva lavorare gratis per il gusto di vedere il mondo. Non aveva nome e il molle Di Battista pensò bene di ribattezzarlo Mandarino, in memoria di un suo cugino calabrese ucciso a colpi di fucile dai partigiani. "Mandarino, vai dove li animali e aiuda al nano con pala y rastrillo para che la mierda non li arrivi al cuello."

Mandarino aveva un palo al posto dello scheletro e una gamba più corta di quell'altra, differenza che compensava con una zeppa fissata sotto lo stivale, una grossa zeppa di legno di pino consumata a furia di pestare ciottoli. Camminava piegato verso destra e, nonostante l'estrema magrezza, sfoggiava un'incongrua carnosità che gli riempiva le guance e gli prosperava sotto agli occhi gonfiandoglieli come quelli di un rospo. A ogni passo sembrava che la sua figura nell'insieme fosse lì lì per perdere l'equilibrio, soprattutto perché ogni suo movimento era intralciato dall'inaudita possanza del suo pene bruciante. La sua virilità era stupefacente. Mandarino cominciò ad aiutarmi nelle mie incombenze. Era di poche parole e all'inizio sembrava proprio muto, poiché per comunicare ricorreva ai gesti anziché ai suoni. Col passare dei giorni cominciò ad aprire la bocca e a sciogliersi nei modi tanto che, nel giro di poco, fummo in grado di constatare che era completamente matto. Per me non faceva differenza a patto che continuasse ad aiutarmi, e quanto a questo non c'era nulla da ridire. "Se dai una botta all'orso sulla pancia, gli viene da pisciare. Mi piace vedere gli animali che pisciano, mi leva la sete. Piove, piove, la gatta non si muove" e si metteva a cantare senza una parola di più mentre rastrellava la merda accatastandola nei contenitori. Io restavo a guardarlo dalla distanza della mia perplessità e il massimo che vedevo era un fiotto dorato di orina scivolargli lungo la gamba del pantalone mentre cantava. Non so se perché era matto o se lo obbligava la sua biologia, Mandarino lo trovavi sempre in due versioni: a svuotarsi la vescica e a procurarsi piacere con la mano. Lo faceva come se niente fosse e la cosa non celava altro mistero se non il semplice fenomeno di ciò che custodiva tra le gambe e forse l'atipicità della sua condotta pubblica; ma rimproverarlo sarebbe risultato poco cristiano considerando il suo stato mentale e il fatto di stare tutto il santo giorno gomito a gomito con le abitudini degenerate delle bestie.

Sono già cinque lustri che non tocco le uova sode. Ne sono disgustato. A quel figlio di puttana di Di Battista, invece, piacevano da morire In un mattino umido di presentimenti mi chiamò a rapporto nella sua roulotte. Ero digiuno, non avevo bevuto nemmeno un bicchier d'acqua. Si vede che aveva premura. "Te ayuda bene Mandarino con la mierda de li animali?" mi chiese. "Fa il suo dovere" risposi io, il più cautamente possibile. "Ascolta; ho pensato que a un bello esemplare de nano come te se pode sfruttare meglior ne la pista che pulendo la mierda de les gabie. Non ti pare a te lo mesmo, Gregorito?" "Non so" gli risposi facendo spallucce. "Tieni fame; non hai fatto colazione todavia?" mi chiese di nuovo.

La fame è sempre cattiva consigliera e sarebbe meglio non lasciarsene guidare quando è più acuta. Io l'ho patita anche troppo; il vuoto dei digiuni mi ha strappato le budella a morsi; per arginare la fame di un'intera giornata di lavoro, a volte una fetta di melone sciolta nel latte o un pezzo di pane secco strofinato su un peperone erano pietanze fin troppo elaborate. Tanta penuria, però, poteva anche trasformarsi dalla sera alla mattina in abbondanza, nel qual caso si festeggiava con ricche scorpacciate capaci di farci dimenticare per qualche ora la quotidiana miseria delle nostre prescrizioni. A me la fame non è mai mancata, forse per questo la provvidenza mi ha suggerito l'idea sublime di commerciare pizze a domicilio, attività che oggi mi permette di navigare nei quattrini. Il molle Di Battista sapeva esattamente quello che faceva e fece leva sulla mia indigenza e sulla mia voglia di riempirmi la pancia. Negro non ero, ma avevo fame. Come vede, non faccio esempi a caso. Ai bambini neri dell'Africa si insinua nel petto una tarantola di fame impossibile da levare. Le loro costole sono le sue zampette. Mangiano aria e muoiono presto, poi non li seppelliscono nemmeno e così la catena alimentare si perpetua. Sono i tempi che corrono, tempi da fine dei tempi.

Il molle Di Battista si alzò dalla sedia su cui alloggiava le chiappe e tornò poco dopo con un vassoio zeppo di uova sode. Mise una bottiglia di cognac sul tavolo, se ne riempì un bicchiere fino all'orlo e guardandomi dritto negli occhi mi chiese quante uova sode pensavo di riuscire a mandar giù in un colpo solo. Io, che vuole che le dica, affamato come sono per natura e senza neppure avere fatto colazione, mi buttai sul vassoio senza fiatare e cominciai a masticare uova a non finire, mentre lui con altrettanta lena si attaccava alla bottiglia. Non ricordo se mi ingollai dieci uova oppure quindici, sta di fatto che mi sentii satollo e soddisfatto come mai prima di allora. "Molto biene nano, molto que molto biene" mi disse il molle Di Battista, ormai completamente sbronzo. "La tua panza serà en futuro una fontana di riquezza para tutti noi. Desde domani tu accompagnaràs i fratelli Culí-Culá y a la vista del pubblico ti didicaràs a engullir tutti le huevos sodi que seas capace. Per te, se ha finito la fame. Ve a dirselo a elli de la mia parte" e scoppiò a ridere come un indemoniato che trasudasse bruciori alcolici perfino dalle lacrime, lacrimoni che versava assieme al patetismo della sua risata.


All'inizio il numero si limitava a un inseguimento lungo la pista, con me che incespicavo con la mia naturale goffaggine e i Culí-Culá dietro, eccitati dalla possibilità che mi sfracellassi il naso a terra e che rendessi l'anima a fiotti, come per poco non accadde una volta che feci un gran volo inciampando su uno dei cavi cui era assicurata la rete del trapezio. Poi era la volta delle uova sode e delle scoregge. Interrompevo davanti al pubblico il digiuno dell'intera giornata sparandomi una valanga di uova sode; io ci mettevo mimica e disinvoltura, il pubblico un coro di risate, dovendo trovare spassosissimo che un nano come me facesse fuori da solo quella scorta di parti di gallina. Per di più, il simposio era allietato da un concerto in do maggiore di flatulenze senza ritmo e fuori tempo. Gli uomini, non creda, ridono sempre delle stesse porcate. Prima lo facevano sotto a un tendone, tutti pigiati, in comunione col tanfo delle bestie, ora lo fanno nel chiuso delle loro sale da pranzo, rinserrati in quei due miseri metri quadrati in cui di norma vivono, inspirando profondamente il lezzo familiare, serviti e riveriti dall'impagabile telecomando, autentico bastone per il bestiame ovino. Il numero che eseguivamo era privo di fantasia e fine a se stesso; mancava perfino di quegli obiettivi maliziosi che suscitano l'indignazione degli uomini prudenti, quelli che in ogni epoca detengono l'ufficialità del pensiero. Era un numero indegno della mia categoria, non fosse altro per la confusione che vi regnava, perciò non mi rimase altra scelta che inventarne un altro su misura per noi tre. Ci pensai su un paio di mesi e alla fine lo proposi a Frank Culá. All'inizio rimase perplesso, ma poi abbozzò un sorriso ambiguo dei suoi e accettò di buon grado. "Hai cervello, nano, e sei saggio, per questo mi piaci. Io e te faremo grandi cose insieme, vedrai" mi disse, poi corse via a illustrare le novità al suo compagno.

Quel che il nuovo numero si proponeva era sacralizzare, sebbene solo per scherzo, l'unione reale dei Culí-Culá. L'idea era che Juan Culí entrasse in pista travestito da donna; enorme, kitsch, con passamanerie, volant e un trucco esagerato, e che Frank Culá interpretasse invece il ruolo del marito. Nella vita reale accadeva esattamente il contrario, il che rendeva ancora più eccitante la finzione. Juan Culí doveva esibire un'assurda gravidanza di venti mesi, come una femmina d'elefante, e a questo fine gli avremmo fissato un barile sulla pancia, barile nel quale mi sarei nascosto io. Dopo gli inseguimenti di rito lungo il perimetro della pista, Juan Culí avrebbe finto di avere le doglie di fronte allo stupore dei presenti e allo smisurato istrionismo di Frank Culá che, nel fragore di un conto alla rovescia urlato in inglese stile lancio del missile, avrebbe aperto il coperchio del barile da cui io, tra viscere untuose di agnello e pioviggine di falso vermis, sarei venuto giù a valanga, abortendomi bocconi per terra. "Fair, for, tri, ciu, uan, nano!" ed eccomi spuntare, ridicolo e mentecatto, sporco e abietto, figlio impossibile di una coppia di deviati in un paese irruvidito dalla repressione e dall'ortodossia. Una volta nato, i miei genitori putativi si sarebbero adoperati per procurarmi del cibo e allora era il momento delle uova sode che i due mi somministravano a suon di amorosi randelli, carezzevoli bastoni e stilettate di coltello e forchetta. Tutto quel cibo lo buttavo giù con rassegnazione, più per l'ilarità che il numero suscitava nel pubblico che per il poco profitto che ormai traevo dalle uova.

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Quanto al vitto e all'alloggio, già sa che alloggiavamo presso l'Ostello delle Trinitarie, luogo di rara pulizia e ventilazione eccezionale dove ti passavano a ufo un brodo limpido come lo specchio di un laghetto di montagna. Magro mi ci portò la notte che ci incontrammo e, comprata la complicità delle suore, mi sistemai nella navata del piano superiore dove anche Magro usufruiva della comodità e riservatezza di una stanza singola. Quando il freddo trasformava la strada in un frigorifero o il braciere del sole la liquefaceva, l'Ostello delle Trinitarie offriva alle nostre ossa il riparo necessario a mantenersi in forma. Pur essendo vero che il luogo sopperiva per carità cristiana alle necessità primarie dei bisognosi, occorre precisare che il trattamento principesco riservato a Magro e ai suoi subalterni era dovuto soprattutto alla tresca che il Guercio intrecciava con una delle consorelle, suor Marta, la quale gestiva in prima persona quella combriccola di pezzenti e costellazione di ceffi variopinti. In cambio di un clandestino su e giù, la suorina muoveva cielo e terra, senza fermarsi davanti alla gerarchia pur di addolcire opinioni, intaccare volontà e intercedere per noi ben oltre la regola, che prevedeva, sì, l'accoglienza dei bisognosi, ma nella misura necessaria a che l'Ostello non diventasse un albergo a cinque stelle, trecentosessantacinque giorni l'anno. Oltre ai piaceri della vagina, suor Marta scuciva a Magro quattrini preziosi per il buon successo dell'istituzione, e poiché la squisitezza del cibo e l'immacolata lucentezza del luogo erano evidenti, le madri superiore si stupivano del fatto che con mezzi tanto scarsi la suora riuscisse a rimediare quel ben di Dio, e la lasciavano perciò fare senza impicciarsi troppo, non avessero a sentire puzza di bruciato o, peggio ancora, il tanfo di sperma della sua santità posticcia. A me, come a Magro, il posto piaceva non solo per la sua comodità, ma anche perché era in centro: a quattro minuti dalla Puerta del Sol, a tre dal Rastro, a due dalle piazze di Benavente e di Tirso de Molina e a un tiro di sputo da quell'anticamera della puttaneria che era allora Calle Espoz y Mina. L'Ostello delle Trinitarie divenne la mia casa e forse il rispetto con cui venni trattato cicatrizzò parte delle ferite che ancora mi bruciavano in zona dignità, sebbene, intendiamoci, tale onorabilità non me la fossi guadagnata con le mie forze, ma grazie al timore che tutti avevano di scatenare l'ira di Magro, poiché lui, era risaputo, oltre a esercitare i mestieri di pataccaro, ladro e borsaiolo, intratteneva vantaggiosi rapporti con gente in vista di vari ministeri e girava voce che più di qualcuno gli tenesse la bocca chiusa con soldi o favori, siccome era a lui che ci si rivolgeva per far fuori un nemico, cosa che accadeva detto fatto in vari modi: incidente, disgrazia o lezione della polizia. "Brutto giorno quando dovesse mancarci la carità cristiana" sospirava Magro. "Questi tempi non ci porteranno niente di buono, nano, e presto, vedrai, finirà tutto. È un peccato, perché così, tutto sommato, le cose restavano in famiglia. Va' a sapere chi verrà dopo di noi e che regole imporrà; se non mi credi, guarda quello che si comincia a dire in giro" e indicava la facciata di un edificio su cui qualche gruppuscolo comunista aveva abbozzato la protesta di un graffito "La sovranità del popolo risiede nella lotta."


Magro aveva una visione del mondo gerarchizzata e manichea per cui qualunque fatto o persona doveva essere giudicato in anticipo e classificato in una delle categorie che, in virtù dell'esperienza, teneva ordinate sugli scaffali del proprio criterio. Ciò gli permetteva di prendere decisioni con facilità sia quando abbordava il portafogli di un imprudente, sia quando metteva mano a progetti più ambiziosi. "Quello lì è uno smidollato, questo uno svitato, quell'altro non ha classe e questo, sono cazzi" erano le sue locuzioni preferite quando doveva etichettare le persone. Quell'ordine perfetto e armonioso, quasi un sistema solare, mi aiutò a organizzarmi un po' le idee, evitando di farmi spingere avanti solo dai guai in cui ero inciampato fino ad allora. Non avevo ancora capito che è la provvidenza a regolare tutto e che sono i suoi disegni a spiegare la nostra condotta. L'ordine prestabilito, o almeno quello stabilito dai principi generali del Movimento, aveva dato a Magro di che sfamarsi e ora lui non era disposto a rinunciarvi per onorare il fantomatico progresso del popolo. Magro sentiva che il Regime era vicino a sgretolarsi e che, di conseguenza, il suo stile di vita sarebbe passato allo sbiadito regno della cenere. Lo sentiva col naso, gli dava aria con la bocca. "Quando Franco creperà, i comunisti usciranno dalle loro tane e ricominceranno a romperci i coglioni con le loro dottrine di merda. Prova a immaginare un mondo di soli operai, nano. Questo è il massimo che riescono a concepire quegli stronzi; fare qui lo stesso che in Russia; tutti senza Dio, a bere dallo stesso bicchiere, a cagare nella stessa tazza; poi, quando muori, le tue ossa nella fossa comune, a marcire con le altre" e così proseguiva la sua predica, un cicchetto dietro l'altro, in una sequenza alcolica densa, sgangherata e a volte desolante.

Poco a poco, come fiori tardivi di una primavera di cemento, le scritte fecero la loro comparsa sui muri sbreccati della città. Erano testi di lotta o di speranza che mostravano chiaramente come, al di là della realtà ufficiale, esistessero altre forme di pensiero sotterranee, destinate prima o poi a venire a galla. Magro riteneva, sbagliando, che l'ideologia di sinistra, abbracciando il principio della dissidenza, escludesse del tutto l'esercizio della carità come metodo di ripartizione della ricchezza e imponesse il sudore della fronte come unica via per la perfezione. Era ormai troppo maturo anche solo per pensare di potersi adattare ad altri traffici oltre a quelli che la vita già gli aveva riservato, per cui tutto quel fiorire di libertà lo irritava da matti. "Se fosse per me, un altro Cuelgamuros gli darei a questi stronzi, così passerebbero il tempo a spaccare pietre invece di imbrattare le pareti con la loro merda. La sovranità del popolo risiede nella lotta," esclamava ridicolizzando sillaba per sillaba la frase dipinta "cazzarola, sovranità di farli fuori a fucilate, ecco che si merita questa marmaglia" e sputava contro il muro con autentica ira, ogni volta colpendo in pieno col suo muco verde l'intersezione della falce col martello. Ma non campavamo solo di carità. Ci davamo ai taglieggi, distraevamo gli allocchi per rapinarli o zottavamo portafogli durante gli eventi pubblici di maggior richiamo. Era un vero piacere per gli occhi, glielo assicuro, osservare quanta abilità ci mettesse il Guercio nel rubare portafogli in pieno giorno, proprio sotto al naso della gente. Con simili qualità e quel pizzico di fortuna che lo accompagnava sempre, non avrei mai detto che potesse toccargli una così mala morte, ma le cose vanno come decide la provvidenza e poco o niente si può fare per contrastarne i capricci. Al solito scopo, frequentavamo anche altri templi, stavolta pagani: il Santiago Bernabéu, dove si venerava il bianco del pallone; la stazione di Atocha, autentico santuario del gregge stentato delle Spagne; o la plaza de toros di Ventas, cattedrale per eccellenza della corrida e luogo privilegiato di magia e accattonaggio. Qui, dove mi imbucavo passando dal corridoio riservato al toro, vidi Paco Camino farsi il segno della croce nei suoi pomeriggi migliori: i volteggi da sogno della cappa, la grinta poderosa del colpo decisivo, il drappo proteso ad accogliere la sorte, sgomento come un dio pentito di se stesso, e infine, al culmine del gioco, la lenta purezza della sua stoccata. Qualunque riunione gremita di gente, qualunque concentrazione di umanità convertiva in azione la nostra presenza; ore di punta nel metrò, le cavalcate per l'Epifania, i saldi nei grandi magazzini e, verso la fine del decennio, quando la transizione, ancora senza nome, cominciava a posarsi sulle coscienze dei cittadini come una canzonetta stupida e orecchiabile (libertà, libertà, senza ira, libertà, caccia via paura e ira perché c'è la libertà e se non c'è, presto ci sarà), raduni politici e manifestazioni autorizzate dal Governo Civile. E senza dubbio libertà vi fu, almeno per me, può constatarlo; non quella tanto decantata di cimosa e cartongesso che la gente comune confonde con la fila alle urne, bensì l'altra assoluta conferita dall'eterna verità del denaro. Me la neghi pure con la morte.

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