Copertina
Autore Giorgio Ruffolo
CoautoreStefano Sylos Labini
Titolo Il film della crisi
SottotitoloLa mutazione del capitalismo
EdizioneEinaudi, Torino, 2012, Passaggi , pag. 120, cop.fle., dim. 14x22x0,9 cm , Isbn 978-88-06-21426-5
LettoreGiorgia Pezzali, 2012
Classe politica , economia , economia politica , economia finanziaria , storia contemporanea , storia economica
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Indice


    Il film della crisi

  3 Introduzione

  9 I.   La controffensiva capitalistica

  9      Le tre mosse della controffensiva
 13      L'esplosione dell'indebitamento privato
 14      La mutazione genetica del sistema bancario
 17      La grande sbornia
 20      Il Titanic della crisi

 26 II.  La finanziarizzazione

 27      La leggenda dell'autoregolazione dei mercati
 33      La finanziarizzazione nel ciclo di crescita
 36      La fine del ciclo di crescita neoliberista
 40      La finanziarizzazione nel ciclo di crisi

 44 III. La dittatura dei mercati

 45      Il salvataggio delle banche e delle istituzioni finanziarie
 49      La punizione degli Stati, dei lavoratori e delle imprese industriali
 54      La Germania punto di forza e di debolezza dell'Unione europea
 58      L'Unione europea promuove un processo di suicidio
 60      L'assalto del mondo capitalistico anglosassone all'Europa
 62      Il ristagno della domanda e la ripresa della finanziarizzazione

 70 IV.  Una strategia alternativa

 74      Il nuovo ruolo della Banca centrale europea
 78      I tedeschi smemorati: le obbligazioni Mefo di Schacht
 85      I Bot e la moneta complementare
 88      La coesistenza tra Stato e mercato: l'economia mista
 93      Il capitalismo di Stato di Hobsbawm

 95 V.   I rapporti tra capitalismo e ambiente

 95      I cambiamenti climatici negli ultimi 400 000 anni
101      La riconversione ecologica dell'economia
103      La domanda pubblica nel processo di riconversione ecologica
106      Le difficoltà di un processo di riconversione dell'economia
110      Andare oltre il Pil

112 Conclusioni


 

 

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Pagina 3

Introduzione


Questo libro non è una storia della crisi che stiamo attraversando poiché è difficile valutarne oggi, nel pieno del suo corso, la portata e l'esito. Tuttavia, è possibile spiegarne le cause e le origini ed evidenziare i problemi che la crisi ha suscitato, con la convinzione che dopo di essa le cose non torneranno piú come prima.

Non è neppure propriamente un libro di economia, nel senso che aspira a costituire un contributo critico a quella che un giorno potrà essere la nuova etica del capitalismo contemporaneo. Un contributo che quindi intende riportare al centro della riflessione gli ideali politici e morali per costruire una società con maggiore eguaglianza.

Lo abbiamo scritto per diverse ragioni.

Innanzitutto, è un omaggio al benessere e alla giustizia sociale e porta con sé la speranza di sollecitare nuovamente quelle tendenze democratiche che sono state alla base dell'Età dell'Oro, il piú lungo periodo di crescita e di emancipazione sociale della storia contemporanea. In quella fase, che durò circa trent'anni, dalla fine della Seconda guerra mondiale all'inizio degli anni Settanta, il sistema capitalistico riuscí a realizzare una cooperazione costruttiva con la democrazia e con le ragioni e gli ideali dei lavoratori.

L'Età dell'Oro rappresenta un periodo particolare nella storia dell'Occidente, in quanto le due grandi forze progressive costituite dal capitalismo e dalla democrazia avevano trovato dei punti di convergenza su obiettivi condivisi. Intendiamoci, non che tutto ciò avvenisse senza conflitti, che furono talvolta molto aspri; però in quel periodo le due grandi forze in campo riuscirono a misurarsi in modo positivo. E la sintesi che ne scaturí portò con sé prosperità, maggiore eguaglianza e benessere sociale. Si affermò cosí un capitalismo manageriale contrassegnato non solo dall'obiettivo del profitto, ma anche dall'attenzione verso le relazioni sociali, l'innovazione, gli aspetti culturali. Tutto ciò rese la competizione capitalistica piú efficace e fece esprimere le passioni umane piú costruttive.

La democrazia e il capitalismo rappresentano le due grandi forze che agiscono nell'età moderna per assicurare all'Occidente una netta superiorità su tutte le altre economie del mondo. La democrazia dà la possibilità di una selezione e di un ricambio tra le classi dirigenti favorendo la partecipazione e la solidarietà sociale. Il capitalismo attraverso la mobilitazione dei fattori di produzione permette di conseguire una crescita formidabile della produttività. Non è detto tuttavia che le due forze cooperino sempre tra di loro, anzi, spesso entrano in contrapposizione perché le classi dirigenti capitalistiche cercano di appropriarsi del plusvalore per aumentare la propria ricchezza a scapito della società in generale. Questo rapporto dialettico determina periodi di compatibilità e periodi di fortissimo conflitto tra capitalisti e lavoratori e tra capitalismo e democrazia, come è accaduto nella prima parte del secolo XX, quando l'Europa è stata teatro di due guerre mondiali che hanno provocato cento milioni di morti.

Cercheremo di ripercorrere le fasi storiche del Film della crisi che sono intimamente legate alla trasformazione del sistema capitalistico.

L'affermazione «Il capitalismo ha i secoli contati» coniata da uno di noi due (Giorgio Ruffolo, Einaudi 2008) significa che certamente il capitalismo non è eterno. Ma è altrettanto indubbio che non è un grande viale alberato. Quella del capitalismo infatti è una storia folgorante, disseminata di crisi, alcune delle quali violente tanto da precipitarlo verso il collasso.

Per tracciare non una storia, ma una sintesi degli eventi dobbiamo risalire, in questo racconto, almeno fino a quel fatale 1929 in cui esplose una depressione dell'economia che fu superata solo dalla Seconda guerra mondiale. Fu una grande Età dei Torbidi, che generò miseria e devastazione.

Poi dalla fine del conflitto, che rappresenta l'epilogo del periodo piú turbolento della storia recente, l'Europa cessò di esercitare la propria egemonia cedendo la leadership agli Stati Uniti d'America. Da quel momento sembrò che la politica fosse capace di una svolta storica, nel senso della ricostruzione di un ordine mondiale volta a ristabilire una condizione duratura di pace e di sicurezza. Sotto la guida degli Stati Uniti si realizzò quel grande compromesso tra capitalismo e democrazia che assicurò crescita e benessere nei successivi trent'anni.

Due furono gli ambiti in cui si realizzò il compromesso: quello propriamente internazionale riguardante l'atlante delle relazioni politiche tra gli Stati e quello propriamente sociale delle relazioni tra le classi.

Il primo fu caratterizzato dal tentativo di stabilire un ordine nel segno dell'egemonia americana (la proposta alternativa avanzata da John M. Keynes basata su un'equiparazione dei diritti e dei doveri dei Paesi creditori e dei Paesi debitori fu respinta). La moneta centrale del sistema divenne il dollaro, legato a sua volta all'oro da una parità fissa. L'egemonia americana venne esercitata con indubbio senso di responsabilità attraverso l'esperienza del piano Marshall e con la progressiva apertura degli scambi commerciali che sostennero e alimentarono la crescita delle economie europee.

Erano questi i due pilastri di quello che potremmo definire il grande compromesso socialdemocratico europeo e liberaldemocratico americano che dura circa trent'anni, dalla fine della guerra alla prima metà degli anni Settanta.

Questo «compromesso» segnò quella che un grande storico non certamente sospettabile di simpatie capitalistiche, Eric Hobsbawm , ha definito l'«Età dell'Oro»: un periodo durante il quale si coniugarono una forte crescita economica e un aumento dell'eguaglianza sociale. In questa fase il tasso di disoccupazione si stabilizzò sui livelli piú bassi mai raggiunti nella storia del capitalismo contemporaneo, i salari reali registrarono incrementi continui e la classe media si estese sempre di piú.

La fase «felice» non fu priva di alterazioni, incidenti e aspri conflitti.

Non si trattava di quelli che avrebbero potuto essere rappresentati dalla grande alternativa politica al capitalismo: il regime comunista sovietico. Sin dalla fine della guerra apparve, infatti, manifesta l'inferiorità economica di quest'ultimo sia in termini di efficacia sia di gradimento sociale, sebbene anche nell'Unione Sovietica venissero raggiunti risultati di rilievo in termini di infrastrutture, espansione della produzione industriale e innovazione tecnologica (i sovietici furono i primi «a mandare l'uomo nello spazio»). La contrapposizione tra il blocco capitalistico e quello comunista ebbe effetti sostanzialmente positivi, poiché contribuí a stabilizzare il sistema delle relazioni internazionali assicurando una relativa solidarietà all'interno di ciascuno schieramento e stimolando una competizione di natura virtuosa (questo aspetto fu particolarmente rilevante nell'ambito delle relazioni sociali e dei processi d'innovazione tecnologica nei Paesi capitalistici).

Furono piuttosto i problemi dei Paesi sottosviluppati, rimasti molto indietro rispetto all'avanzata capitalistica occidentale, a turbare l'ordine economico internazionale attraverso un'improvvisa fiammata costituita dalla crisi petrolifera, che innescò una fase di contemporanea inflazione dei prezzi al consumo e deflazione della domanda (la «stagflazione»). Gli shock petroliferi determinarono un'enorme redistribuzione della ricchezza tra i Paesi ricchi dell'Occidente e i Paesi del Medioriente, che possedevano le riserve di petrolio da cui dipendeva il funzionamento dell'economia mondiale. Cosí i Paesi del petrolio ebbero a disposizione enormi masse di capitali, i petrodollari, che reinvestirono in larga misura nei mercati finanziari internazionali. Fu questo un fenomeno che anticipò l'esplosione della «finanziarizzazione» degli anni Ottanta.

Il terzo elemento di disturbo fu costituito dal cambiamento dei rapporti economici tra Europa e Stati Uniti che alimentò un conflitto, pacifico ma rilevante, tra i Paesi europei, che erano stati preservati dalla rovina grazie a una generosa e lungimirante politica di aiuti americani, e gli stessi Stati Uniti.

All'inizio degli anni Settanta i Paesi del vecchio continente sono ormai diventati rivali degli Stati Uniti, determinando un fattore di intensa frizione competitiva. In questo quadro, gli interessi «imperialistici» americani diventano piú aggressivi e cominciano a far valere la propria superiorità economica e politica attraverso una sempre piú invadente presenza del dollaro. Viene sfruttata la forza del dollaro imponendo ai Paesi europei condizioni di competizione svantaggiose. Il contrasto diventa molto aspro quando alcuni Paesi europei, come la Francia di De Gaulle, chiedono agli Stati Uniti di svalutare la loro moneta rispetto all'oro.

A quel punto gli americani aboliscono la convertibilità del dollaro in oro. Fu questa la prima delle tre mosse della controffensiva capitalistica che pose fine al periodo dell'egemonia responsabile, rappresentata simbolicamente dall'espressione «burro e cannoni», e che diede inizio all'epoca del dominio americano fondato sui rapporti di forza. Un dominio che sarà contrassegnato dal progressivo ridimensionamento del capitalismo industriale e dall'ascesa prodigiosa del nuovo sistema di capitalismo finanziario.

Nella critica alla nuova fase che ha segnato l'evoluzione dei rapporti fra capitalismo e democrazia consiste un'altra ragione che ci ha portati a scrivere questo libro: l'intenzione di smascherare quella che non è una teoria ma un'ideologia, che ispira e giustifica tutto quello che oggi sta accadendo. Un'ideologia che considera l'intervento pubblico nell'economia come una sciagura e che si fonda sulla leggenda dell'autoregolazione dei mercati. L'autoregolazione è un'invenzione. Agli effetti compensativi nel mercato dei beni reali si affiancano gli effetti cumulativi dei mercati finanziari internazionali che possono esasperare gli eventi trasformando una situazione di difficoltà in una profonda depressione.

Ma vediamo come si realizzò la controffensiva capitalistica che permise agli Stati Uniti di riaffermare la propria egemonia su scala planetaria, di portare a termine con successo la «Guerra fredda» contro il comunismo sovietico e di modificare alla radice i rapporti fra capitalismo e democrazia influenzando lo sviluppo dell'economia mondiale fino ai nostri giorni.

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Pagina 20

Le onde del debito si accavallavano continuamente le une alle altre senza interruzione. Nel mercato immobiliare americano le case furono cedute alle famiglie dalle banche sulla base di debiti a bassissimo tasso d'interesse (i cosiddetti subprime) senza troppo indagare sulle possibilità effettive di sopportare gli interessi, ma contando soprattutto sul continuo aumento dei prezzi degli immobili, che avrebbe garantito i crediti concessi e l'elargizione di nuovi prestiti.

È tuttavia evidente che questo meccanismo non può andare avanti all'infinito: viene il momento in cui anche le onde del mare s'infrangono sulla riva. È il momento della crisi. Allora tutta l'immensa liquidità creata dalle banche e dagli altri intermediari finanziari si essicca di colpo. La liquidità sparisce. Le banche cessano all'improvviso di farsi credito fra di loro. Ma i debiti restano e devono essere pagati.


5. Il Titanic della crisi.

La sbornia finisce, cosí, nel Titanic della crisi, che parte dagli Stati Uniti per estendersi all'Europa e al resto del mondo.

Come si affronta questo fenomeno, questa nuova formidabile crisi? Con una strategia audacissima. Contrariamente alla crisi del 1929 quando gran parte del sistema bancario fu nazionalizzato, quella degli anni Duemila è affrontata con un decisivo salvataggio delle banche da parte degli Stati e delle Banche centrali, che mobilitano circa 14 000 miliardi di dollari trasformando il debito privato in debito pubblico. Le banche private vengono ricapitalizzate senza alcuna garanzia e non viene varata nessuna nuova regolamentazione per contrastarne gli abusi.

Lo Stato, definito dai liberisti come il problema, diventa il cavaliere bianco che offre la soluzione del problema. Il salvataggio raggiunge i suoi effetti nel senso di evitare il collasso del capitalismo e tuttavia ha implicazioni formidabili per quanto riguarda la successiva evoluzione dell'economia. L'espansione del debito pubblico provoca ovviamente un drastico peggioramento delle finanze statali, soprattutto nei Paesi europei piú deboli dal punto di vista finanziario. E questo peggioramento viene punito proprio dalle banche e dalle agenzie di rating che sono state «salvate» dalla rovina, con un declassamento dei conti pubblici che comporta per i governi misure severissime di restrizione della spesa e di aumento della pressione fiscale.

La soluzione del problema implica dunque costi giganteschi, che vengono scaricati sulle spalle dei cittadini. In piú, i costi si ripercuotono anche sul welfare state, la grande conquista dell'Età dell'Oro, che viene attaccato per far quadrare i conti pubblici messi a dura prova dal salvataggio delle istituzioni finanziarie private e dalla recessione.

Tali misure non fanno che accelerare la crisi in atto, provocando un peggioramento delle tendenze recessive ed esercitando una spinta ulteriore verso la polarizzazione dei redditi. Ecco un'altra differenza con il periodo successivo alla crisi del 1929, quando si ebbe un'inversione di tendenza e il divario, seppure in modo discontinuo, iniziò a ridursi. In seguito, fu la Seconda guerra mondiale ad abbattere drasticamente le differenze tra ricchi e poveri: il conflitto ebbe una funzione di «riequilibratore sociale».

In questa fase di crisi si verifica un altro fenomeno importante. Il debito assume i connotati di una forma di dominio che non riguarda piú i rapporti interpersonali come accadeva nell'antichità, ma interessa le istituzioni stesse, che perdono la loro libertà. Fra di esse si crea un nexum che diventa un fattore ideologico, come dimostra l'atteggiamento della Germania nei confronti dei Paesi con elevato debito pubblico che vengono considerati come viziosi, mentre i Paesi creditori sarebbero virtuosi. La verità è che la responsabilità del debito deve essere ripartita in modo paritario tra debitori e creditori, poiché il debito non è stato imposto ai creditori; anzi, questi hanno spesso incentivato l'indebitamento per lucrare sui prestiti. Pertanto vi deve essere un impegno comune per risolvere il problema del debito e per ridurre gli squilibri finanziari che paralizzano l'economia europea. Abbiamo, invece, la sensazione che oggi sia in corso una regressione verso un contesto precapitalistico: il debito sta tornando a essere uno strumento oppressivo e sta riconducendo ampie fasce della popolazione in una condizione di schiavitú. Intendiamoci, non una schiavitú manifesta come poteva essere quella sulla persona nell'antichità, bensí uno stato di alterazione dei rapporti fra capitalismo e democrazia che limita la capacità dello Stato di offrire servizi e assistenza agli strati piú deboli della popolazione e che quindi determina una riduzione della libertà di scelta per molte persone, sia sul piano materiale sia su quello morale.

A questo punto della storia è evidente che il ritorno sulla scena dello Stato come protagonista principale ha vita breve e soprattutto motivi strumentali: serve solo al settore finanziario per bloccare la caduta e per ripartire con maggiore avidità e ferocia. Perché oggi, a cinque anni dallo scoppio della crisi, nulla è cambiato: non è stata varata una nuova regolamentazione finanziaria per impedire speculazioni di brevissimo periodo, non sono stati drasticamente ridotti i compensi dei grandi manager, non è stata attuata alcuna misura per redistribuire il reddito dai ricchi verso i poveri e per riportare la finanza al servizio dell'economia reale.

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Pagina 17

1. La leggenda dell'autoregolazione dei mercati.

Ma vediamo quali sono i punti essenziali della teoria neoclassica, la quale sfruttò a proprio vantaggio il mutamento decisivo che si ebbe nel fondamento della teoria delle relazioni sociali con il passaggio dall'autorità alla libertà, dall'autoritarismo al liberismo.

La teoria neoclassica propaganda un mondo virtuale in cui vi sarebbe una miriade di produttori che non hanno alcun potere di mercato e che quindi agiscono in concorrenza perfetta e dove i consumatori, attraverso le loro scelte, le loro preferenze e la loro utilità, influenzano l'andamento dei prezzi e orientano l'evoluzione del mercato. Il consumatore rappresenta il centro del sistema e per questo la teoria neoclassica non è solo una teoria economica, ma costituisce anche un'ideologia politica, in quanto il sistema vagheggiato dai neoclassici e dai liberisti sarebbe il piú democratico che possa essere raggiunto dalle comunità sociali. Un sistema dove il singolo individuo avrebbe un potere enorme.

In piú, la teoria neoclassica si fonda sul dogma che il mercato sia in grado di assicurare una condizione paradossale, quella secondo cui i vizi privati possano generare pubbliche virtú. Un comportamento egoistico, dal punto di vista economico naturalmente, lungi dall'essere valutato come un danno per l'equilibrio e per lo sviluppo dell'economia, viene considerato un incentivo alla crescita e allo sviluppo. Vizi privati alimentano pubbliche virtú.

Del resto la stessa cosa è avvenuta sul fronte opposto, quello marxista. I marxisti hanno rifiutato il fondamento del socialismo basato sulla norma morale ed etica della giustizia. La loro convinzione era che la logica della storia avrebbe prodotto il socialismo. Nell'ideologia del «Dio lo vuole» c'è sempre un principio convincente: il fatto che gli eventi si svolgano secondo una logica naturale, anziché derivare da una volontà politica.

Allo stesso modo il principio dell'autoregolazione si è imposto nella teoria economica liberale. Intendiamoci: all'inizio questa non era certo una teoria, come la parola stessa dice, autoritaria. Era l'effetto del pensiero liberale e quindi della convinzione che soltanto una società libera da oppressioni e da condizionamenti violenti potesse svolgere una funzione progressista. In seguito tuttavia il conflitto sociale, le posizioni socialiste, la contestazione del capitalismo, fecero sí che l'autoregolazione venisse considerata come una garanzia del mantenimento di rapporti economici e sociali diseguali, cioè come uno strumento di conservazione. L'autoregolazione, poi, era fondata sull'idea che un libero mercato sia per sua natura razionale e allo stesso tempo immune da condizionamenti di potere.

Se tutto ciò che è stato idealizzato dai teorici dell'economia neoclassica fosse stato vero, avremmo avuto strumenti efficaci per migliorare le condizioni di vita delle persone. Peccato che questo modello di mercato libero semplicemente non esista. Il mercato reale, in ogni momento, è il risultato delle relazioni sociali tra gli uomini, con tutte le loro diseguaglianze nelle condizioni di partenza, ed è dominato da enormi concentrazioni di potere che alterano la concorrenza perfetta immaginata dagli economisti neoclassici (questo punto verrà sviluppato nel capitolo quarto). Inoltre, quelle relazioni si modificano continuamente nel corso dell'evoluzione economica, dando luogo a squilibri nella distribuzione del potere. E questi squilibri attivano conflitti che fanno del mercato non un campo di esercitazioni, ma un campo di battaglia. Pertanto, se è vero che il mercato presenta tendenze implicite «compensative», nel senso del bilanciamento della domanda e dell'offerta in base alla variazione dei prezzi relativi, è altrettanto vero che gli elementi di potere e d'irrazionalità insiti nel suo funzionamento alterano queste tendenze distogliendole dall'equilibrio e determinando effetti opposti di carattere cumulativo ed esplosivo.

Piú precisamente, esistono fenomeni molto diversi nei mercati dei beni reali e nei mercati finanziari. Nell'economia reale, le aspettative di crescita del prezzo di un determinato bene tendono a deprimerne la domanda, poiché i consumatori cercheranno di sostituirlo con un altro bene piú economico oppure ne ridurranno l'utilizzo. Inoltre si possono avere effetti sulla struttura dell'offerta, poiché i produttori saranno stimolati a introdurre innovazioni tecnologiche per aumentare la produttività e ridurre i costi o per produrre nuovi beni sostitutivi e piú convenienti.

In sintesi, nell'economia reale l'interazione tra prezzi, domanda e offerta può avere effetti virtuosi stabilizzando il sistema e incentivando lo sviluppo e la diffusione d'importanti innovazioni tecnologiche. In tal modo, il mercato genera spontaneamente dei meccanismi di tipo compensativo che contrastano la tendenza verso l'aumento dei prezzi.

Al contrario, nei mercati finanziari gli incrementi dei prezzi dei titoli, anziché frenare la domanda, la alimentano, poiché aspettative di prezzi crescenti attirano una nuova domanda la quale, a sua volta, sospinge l'inflazione finanziaria innescando un meccanismo cumulativo.

Per fare un esempio, se la domanda di caffè supera l'offerta, il prezzo del caffè sale e la domanda si riduce (e/o l'offerta aumenta). Invece, se le azioni rappresentative delle imprese produttrici di caffè aumentano di valore, anche la loro domanda aumenta. La ragione è semplice: i titoli azionari riflettono non la scarsità oggettiva delle merci, ma le valutazioni soggettive del mercato. Se queste sono positive i titoli salgono indipendentemente dalle condizioni esistenti nella speranza di aumenti ulteriori, e spesso innescano circuiti imitativi e cumulativi. In tal caso non vi è affatto autoregolazione, ma anzi accumulazione successiva di squilibri: le famose «bolle», che possono svilupparsi prodigiosamente e caratterizzano le crisi economiche dalla modernità in poi (a partire dalla famosa crisi seicentesca olandese dei tulipani).

Prima o poi l'equilibrio si ristabilisce. Ma tra il prima e il poi si sono prodotte ricchezze fittizie per loro natura ma del tutto reali nella distribuzione del reddito, con le relative diseguaglianze. Non è aumentata la produzione, ma è cambiata la distribuzione.

I mercati finanziari dunque sono meccanismi autoreferenziali che amplificano le fisiologiche fluttuazioni cicliche: essi non tendono all'equilibrio ma generano instabilità, poiché alimentano fenomeni di accumulazione «esplosiva».

Con la crisi scoppiata nel 2007-8 è crollato uno dei pilastri su cui si reggono la teoria neoclassica e l'ideologia liberista: il principio secondo il quale i mercati sono razionali e si autoregolano. Il mantra dell'economia, l'autoregolazione del mercato, si è dissolto improvvisamente e per molti (ma non per tutti) inaspettatamente.

[...]


In sintesi, la finanza si rivolge a rappresentazioni di oggetti trasformati in «titoli», non ricchezze ma indici di ricchezze, e come tale ha un contenuto specificamente declinabile nel futuro: da un lato è uno specchio (speculum, speculazione) e dall'altra un'anticipazione, una promessa, una ricchezza che verrà. La finanza dunque è un azzardo, una scommessa sul futuro, che, però, ha via via accresciuto la sua influenza sulla vita di miliardi di persone.

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Pagina 67

I programmi di aiuto a Grecia, Irlanda, Portogallo e Spagna

Tra i due programmi di assistenza alla Grecia e quelli a favore di Irlanda e Portogallo finora sono stati mobilitati in tutto 393,7 miliardi di euro, inclusi i 96,5 dell'Fmi. In tutto l'Eurozona ha impegnato direttamente meno di 300 miliardi di euro. Tra il 2008 e il 2011 per salvare le banche l'Eurozona ha autorizzato con l'imprimatur di Bruxelles aiuti fino a 3000 miliardi di euro, a cui si aggiungono i finanziamenti da l000 miliardi di euro concessi dalla Banca centrale europea a un tasso d'interesse dell'1% per una durata di tre anni. Insomma, la solidarietà europea è scattata molto di piú per le banche che per gli Stati in difficoltà.

[...]

La drammatica situazione della Grecia ha riportato al centro del dibattito la questione delle riparazioni tedesche del secondo conflitto mondiale. L'11 settembre del 2012, dopo mesi di petizioni e richieste da parte di intellettuali, storici e varia stampa internazionale, è apparsa la notizia sul «Financial Times Deutschland» che il viceministro dell'Economia greco avrebbe istituito un gruppo di lavoro per valutare i documenti ufficiali presenti negli archivi storici. I risultati tecnici, attesi per la fine dell'anno, serviranno a proporre ai rappresentanti di Bce, Fmi e Ue una sorta d'integrazione al pacchetto di salvataggio contenuto nel memorandum.

Che i denari «riparatori» dei danni post secondo conflitto mondiale non fossero mai arrivati nelle casse di Atene era cosa risaputa. Ma adesso, alla vigilia dell'ultimo report della Troika che potrebbe anche mettere fine alle speranze di salvataggio del Paese, il ministero delle Finanze greco vuole fare sul serio per ottenere quel risarcimento.

I fatti: Hitler invase la Grecia nell'aprile 1941, saccheggiandola e devastandola in lungo e in largo. Ha scritto la Croce rossa internazionale nel suo rapporto ufficiale sulla questione che tra il 1941 e il 1943 almeno 300.000 cittadini greci morirono letteralmente di fame a causa di quelle razzie da parte dei tedeschi. Inoltre sia la Germania sia l'Italia, oltre a pretendere cifre elevatissime per le spese militari, ottennero forzatamente dalla Grecia anche quello che venne definito un prestito d'occupazione, consistente in 3,5 miliardi di dollari. Lo stesso Führer riconobbe in quella circostanza il valore legale del prestito e avallò il risarcimento. Ma alla Conferenza di Parigi del 1946 qualcosa andò storto e alla Grecia furono riconosciuti 7,1 miliardi di dollari come risarcimento, invece dei 14 richiesti. E mentre l'Italia ripagò regolarmente la propria parte del prestito, la Germania si rifiutò costantemente di farlo.

Ma a quanto ammonta oggi quella cifra? Prendendo come metro di valutazione l'interesse medio dei buoni del tesoro americani dal 1944 (il 6%), ballerebbero somme enormi: 163,8 miliardi di dollari per l'occupazione e 332 miliardi di dollari per i danni. E secondo un rapporto redatto nel luglio del 2011 dall'economista francese Jacques Delpla, la Germania dovrebbe corrispondere alla Grecia 575 miliardi, molto di piú dei 355 miliardi di euro circa che oggi costituiscono il macigno di debiti sul futuro di Atene.

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Pagina 70

Capitolo quarto

Una strategia alternativa


Siamo arrivati al punto cruciale del nostro racconto e ora ci troviamo di fronte a un bivio: la strada che verrà intrapresa dipende dagli eventi che si verificheranno nel prossimo futuro.

Per rompere la spirale che ci sta trascinando a fondo è vitale far ripartire la domanda aggregata: questa è la strada per trainare l'espansione della produzione e dell'occupazione e per creare nuove occasioni d'investimento nell'economia reale. La crescita dell'economia rappresenta l'unico modo per rendere sostenibile il debito pubblico, come è accaduto negli Stati Uniti dopo la Seconda guerra mondiale. Alla fine del conflitto il rapporto fra debito e Pil aveva raggiunto un valore del 110%, dopodiché la crescita del prodotto interno, dell'occupazione e dei redditi soggetti a tassazione, hanno fatto sí che il peso del debito sul Pil diventasse progressivamente irrilevante.

Ma per far ripartire un nuovo ciclo di crescita bisogna prendere posizione in merito ad alcune grandi questioni, che possono essere sintetizzate nei punti seguenti:

1. A chi deve essere affidato il compito di finanziare l'economia in questa fase di crisi?

2. Come si può contrastare il potere dei mercati finanziari, che con i loro obiettivi di brevissimo periodo penalizzano le finanze pubbliche, disincentivano gli investimenti delle imprese e mettono a rischio la coesione sociale?

3. Come va risolto il problema dei rapporti fra Stati debitori e Stati creditori che paralizza l'economia europea?

Con la controffensiva capitalistica avviata all'inizio degli anni Ottanta dai governi di Reagan e della Thatcher, il finanziamento dell'economia è stato messo quasi interamente nelle mani del mercato e delle istituzioni private. Ma ora questo sistema non sta piú funzionando ed è quanto mai necessario un intervento di natura politica per garantire finanziamenti adeguati all'economia reale, per ridurre l'incertezza e l'iniquità associate al finanziamento privato e per contrastare le tendenze distruttive dei mercati finanziari, che stanno aggravando la situazione dei Paesi in difficoltà.

Per questi motivi è indispensabile definire una regolazione del settore finanziario che impedisca a un numero limitato di grandi banche e fondi d'investimento di esercitare una vera e propria dittatura sui mercati e un'influenza decisiva sulla politica dei governi.

Per essere concreti, fra gli obiettivi prioritari di una nuova regolazione mondiale della finanza vi dovrebbero essere: una vera «guerra» ai paradisi fiscali e il divieto di costituire società offshore in tali Paesi, la separazione delle banche commerciali dalle banche d'affari, il divieto di detenere attivi bancari fuori bilancio e l'imposizione di una tassa internazionale sulle transazioni finanziarie. Inoltre, è urgente ridimensionare il fenomeno della cartolarizzazione dei crediti, che ha permesso di costruire montagne di prodotti derivati, ed è necessario sottoporre a vigilanza i mercati non regolamentati dove avvengono gli scambi di strumenti finanziari poco trasparenti.

Accanto alle misure di carattere restrittivo sui movimenti di capitale, devono essere concepiti anche interventi di ordine positivo e cooperativo per perseguire obiettivi economici e sociali a livello globale, a partire dall'istituzione di agenzie pubbliche internazionali per la valutazione del merito creditizio (rating) e di sistemi di vigilanza su scala planetaria.

Per quanto riguarda il debito pubblico, l'Europa ha deciso di procedere lungo una strada che può avere esiti disastrosi. Gli obiettivi strategici concordati sotto l'impulso della Germania consistono nell'obbligo del pareggio di bilancio e nel fiscal compact, cioè una drastica riduzione dello stock del debito pubblico da qui ai prossimi vent'anni. Questi obiettivi faranno perdere agli Stati europei qualunque autonomia sulle politiche di bilancio, compromettendo la possibilità di attuare politiche economiche espansive. La soluzione piú efficace sarebbe, invece, quella di federare il debito dei Paesi dell'unione monetaria, come avvenne alla fine del Settecento negli Stati Uniti dopo la guerra con l'Inghilterra. In tal modo gli Stati piú deboli verrebbero sottratti alla morsa della speculazione finanziaria, poiché sarebbero parte di un'entità sovranazionale molto piú forte sul piano economico e su quello politico. Inoltre, verrebbe meno la concorrenza distruttiva all'interno dell'Europa, che avvantaggia le economie piú forti a danno di quelle deboli.

L'attuale strategia europea si fonda sul pregiudizio secondo cui i debitori sarebbero dei viziosi e i creditori dei virtuosi. La verità è che la responsabilità del debito deve essere ripartita in modo paritario tra debitori e creditori, poiché il debito non è stato imposto ai creditori; anzi, questi ultimi hanno spesso alimentato l'indebitamento per lucrare sui prestiti. John M. Keynes a Bretton Woods aveva proposto che vi fosse appunto pari responsabilità fra debitori e creditori per contrastare gli squilibri finanziari con un impegno comune e con soluzioni solidali. Occorre perciò rovesciare una mentalità che ci sta facendo regredire verso una situazione precapitalistica, in cui il debitore insolvente subiva torture e vessazioni oppure diventava schiavo del creditore. Nell'antichità il modo autoritario e violento di regolare i rapporti interpersonali tra debitori e creditori comportava la paralisi dell'attività economica, non diversamente da quanto sta accadendo oggi tra gli Stati europei. Ormai è ben chiaro che la punizione dei Paesi debitori si è rivelata una strategia fallimentare che sta pregiudicando la ripresa dell'economia del vecchio continente.

Per rilanciare la domanda senza creare nuovo debito bisognerebbe attuare una gigantesca redistribuzione del reddito dai ricchi verso le fasce sociali medio-basse, un gioco a «somma zero», come direbbe Lester Thurow. Ma come fare, se in una fase di elevata disoccupazione i lavoratori sono molto deboli e non hanno un adeguato peso politico in grado di portare avanti le proprie rivendicazioni sul piano fiscale e su quello dei contratti di lavoro?

Forse solo un ulteriore peggioramento della situazione potrà creare le condizioni per fuoriuscire dal modello neoliberista, che ha tra i suoi fondamenti un divario sempre piú marcato nella distribuzione della ricchezza e la supremazia della finanza sull'economia reale.

Altrimenti, in Europa bisognerebbe modificare lo statuto della Banca centrale affidandole anche il compito di comprare i titoli pubblici dei Paesi in difficoltà e si dovrebbero finalmente emettere gli eurobond, associandoli a una tassa sulle transazioni finanziarie per pagarne le spese sugli interessi.

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4. La coesistenza tra Stato e mercato: l'economia mista.


La strategia del deficit-spending, una politica fiscale volta a redistribuire il reddito dai ricchi verso i poveri, gli eurobond e il nuovo ruolo della Bce, insieme a una regolazione finanziaria piú stringente e all'introduzione della tassa sulle transazioni finanziarie, sono passi fondamentali ma probabilmente non sufficienti per determinare la ripresa della domanda aggregata e l'inversione del ciclo economico. Nel futuro sarà necessario anche un maggiore intervento dello Stato attraverso le imprese e le banche pubbliche, per disporre di strumenti atti a contrastare in modo efficace le spinte recessive e a promuovere politiche di sviluppo di lungo periodo.

Se osserviamo la situazione attuale, vediamo che le grandi imprese private che operano nell'energia, nel credito e nelle assicurazioni, grazie a un incessante processo di concentrazione, stanno aumentando il loro potere di mercato, possono controllare i prezzi, sono poco propense a finanziare l'espansione degli investimenti nella ricerca e sviluppo e tendono a impiegare quote crescenti dei loro profitti nel settore finanziario.

La tendenza verso la concentrazione delle imprese, che si riducono di numero e in questo modo accrescono il loro potere di mercato, era stata studiata da Paolo Sylos Labini , che nel 1956 aveva pubblicato la teoria dell'oligopolio.

In regime di oligopolio vi sono imprese dominanti price leader e market leader che stabiliscono i prezzi applicando un margine sui costi e possono controllare l'offerta secondo le loro convenienze. Queste grandi imprese influenzano i comportamenti delle altre imprese, che tenderanno a seguirne le decisioni secondo un meccanismo imitativo. In piú, esistono intrecci azionari che portano le grandi imprese dell'energia, del credito e del settore assicurativo a essere legate a filo doppio le une alle altre. In questo quadro, i principi fondamentali della concorrenza, come la rivalità e la segretezza delle strategie, vengono clamorosamente a mancare. Nel settore finanziario i valori delle attività vengono determinati dalle decisioni d'investimento (o disinvestimento) delle grandi società d'affari e delle grandi banche, che in tal modo influenzano l'andamento di interi mercati. In questo ambito sono all'opera dei veri e propri meccanismi collusivi: proprio nel luglio 2012 si è scoperto che per ben quattro anni le piú grandi banche mondiali hanno fissato arbitrariamente e illegalmente il costo del denaro per lucrare sui mutui alle famiglie o sui prestiti alle imprese. Manipolare il tasso di riferimento sui mercati finanziari, il Libor, significa alterare un mercato da 800000 miliardi di dollari fra titoli e prestiti.

La tendenza verso la concentrazione delle imprese è in atto sia in Italia e in Europa, sia nei mercati bancari e azionari internazionali. In Italia, dopo la concentrazione bancaria degli ultimi anni, si è realizzata la fusione tra Unipol e Fondiaria-Sai e sta procedendo l'accorpamento delle aziende municipalizzate, mentre a livello internazionale l'Enel nel 2007 aveva acquisito la società spagnola Endesa e recentemente il colosso energetico francese Edf ha inglobato l'Edison.

Nel mercato bancario internazionale, dal 1980 al 2005 si sono verificate circa 11500 fusioni, una media di 440 all'anno, riducendo in tal modo il numero delle banche a meno di 7500 e determinando una situazione in cui i primi 25 istituti al mondo hanno bilanci cumulati pari a tre quarti dell'economia globale. Al primo trimestre 2011, cinque società d'affari (J. P. Morgan, Bank of America, Citibank, Goldman Sachs, Hsbc Usa) e cinque banche (Deutsche Bank, Ubs, Credit Suisse, Citigroup - Merrill Lynch, Bnp-Paribas) avevano il controllo di oltre il 90% del totale dei titoli derivati.

Nel mercato azionario, le strategie di fusione e acquisizione hanno ridotto in misura consistente il numero delle società quotate. A oggi, le prime dieci società con maggiore capitalizzazione di borsa - pari allo 0,12% delle 7800 società registrate - detengono il 41% del valore totale e il 47% dei ricavi. I mercati finanziari dunque non sono affatto concorrenziali, ma sono strutture di tipo piramidale con al vertice pochi operatori in grado di controllare oltre il 65% dei flussi globali. Alla base della piramide vi è una miriade di piccoli risparmiatori che svolgono una funzione passiva.

Per questi motivi, nei settori molto concentrati di carattere strategico come il credito, le assicurazioni e l'energia, accanto alle imprese private dovrebbero coesistere imprese pubbliche, le quali dovrebbero perseguire obiettivi diversi da quelli delle imprese private. Come sappiamo, l'obiettivo primario di queste ultime è di massimizzare i profitti di breve periodo e distribuire dividendi agli azionisti. Al contrario le imprese pubbliche, nel rispetto del pareggio di bilancio, dovrebbero avere come obiettivi prioritari quelli di spingere verso il basso i prezzi dell'energia e del denaro, di accrescere le spese in ricerca e gli investimenti nell'innovazione e di garantire il credito alle famiglie e alle aziende.

Siamo ben coscienti del problema dell'indipendenza delle imprese pubbliche dai partiti politici che generano corruzione. Per future banche pubbliche si potrebbe pensare di farne nominare i vertici dalla Banca d'Italia, che rappresenta un'istituzione autorevole e indipendente, sulla falsariga di quanto accade nella magistratura che è indipendente dal potere politico.

Le grandi imprese pubbliche potrebbero dunque condizionare gli equilibri tra le grandi imprese private oligopolistiche, i quali spesso si basano su patti di pacifica coesistenza e di spartizione del mercato, e potrebbero influenzarne le strategie d'investimento e le politiche dei prezzi.

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Conclusioni


Siamo giunti alla fine del nostro racconto ed è il momento di soffermarci sulla mutazione del capitalismo da cui trae origine Il film della crisi.

La tesi centrale di questo libro è che la crisi in cui sono immersi i Paesi occidentali nasce dalla rottura di un compromesso storico tra capitalismo e democrazia. La fase successiva a questa rottura può essere definita come l'Età del Capitalismo Finanziario e costituisce la terza mutazione che il capitalismo ha attraversato dall'inizio del secolo precedente.

La prima fase è un'Età dei Torbidi, che si è verificata fra l'inizio del secolo e lo scoppio della Seconda guerra mondiale.

La seconda fase è costituita dalla cosiddetta Età dell'Oro: un'intesa tra capitalismo e democrazia fondata su due accordi fondamentali. Il primo riguardava la libera circolazione delle merci a cui faceva da contrappeso il controllo dei movimenti dei capitali, che assicurava un ampio spazio all'autonomia della politica economica dei governi e alle rivendicazioni dei lavoratori. Il secondo traeva ispirazione da una nuova teoria dell'impresa manageriale, che la rappresentava come una complessa realtà sociale focalizzata non solo sul profitto ma anche sull'impegno verso una serie di obiettivi sociali, rendendo la grande impresa privata una vera e propria comunità.

La terza fase segna appunto una rottura dell'Età dell'Oro e si realizza attraverso la liberazione dei movimenti di capitale, che permette di scatenare una vera e propria controffensiva capitalistica. Questa mossa, attuata all'inizio degli anni Ottanta dai leader degli Stati Uniti e della Gran Bretagna, determina un mutamento fondamentale nei rapporti di forza tra capitalismo e democrazia e tra capitale e lavoro e apre la strada alla formidabile espansione del capitalismo finanziario nei Paesi occidentali.

La controffensiva capitalistica maturò in seguito a una serie di eventi che influenzarono l'evoluzione dell'economia mondiale negli anni Settanta. Anzitutto le crisi petrolifere che si risolsero in una «stagflazione», cioè in una combinazione di inflazione dei prezzi al consumo e di deflazione della domanda, e alimentarono massicci investimenti dei petrodollari nei mercati finanziari mondiali. Accanto ai due shock petroliferi, ebbero un peso rilevante la pressione esercitata dai sindacati dei lavoratori; la competizione sempre piú intensa tra l'economia americana in declino e le economie europee in ascesa; nonché una serie di movimenti di opinione che cambiarono sostanzialmente le caratteristiche fondamentali del pensiero economico e che si concretizzarono dapprima nella rinascita di un nuovo liberismo economico e poi nel mutamento dell'ideologia politica. In tale ambito ebbe un peso significativo l'influenza esercitata dalle nuove tesi neoautoritarie della cosiddetta «Trilaterale».

L'insieme di questi elementi creò le condizioni per scatenare una vera e propria controffensiva che spinse il capitalismo a rompere il compromesso storico con la democrazia, determinando un'involuzione del sistema economico verso le forme piú rozze rappresentate dalla massimizzazione del profitto nel breve periodo, dalla possibilità di tenere i lavoratori sotto il ricatto delle delocalizzazioni produttive e dalla capacità di sfiduciare i governi che perseguivano politiche economiche non gradite.

Ecco la mutazione fondamentale di natura essenzialmente finanziaria che dà origine alla crisi attuale. Essa attribuisce alla grande impresa privata e al capitale un potere assolutamente sproporzionato rispetto agli altri fattori della produzione, soprattutto al lavoro. Di qui il manifestarsi di una gigantesca diseguaglianza tra la remunerazione dei capitali e quella dei lavoratori. Una diseguaglianza che avrebbe provocato fatalmente una depressione della domanda e quindi una crisi economica di vasta portata, se non fosse intervenuta la mossa vincente del capitalismo finanziario: il ricorso massiccio e generalizzato al credito promosso dalle banche private e favorito dalle politiche economiche dei governi neoliberisti.

L'indebitamento delle famiglie e delle imprese che ne risultò venne sistematicamente rinnovato cosí da rendere il nuovo capitalismo finanziario un sistema nel quale i debiti non si rimborsano mai. Una scommessa chiaramente insostenibile, eppure incentivata dai governi contro ogni logica. Le onde del debito che si accavallano l'una sull'altra tuttavia s'infrangono fatalmente prima o poi sulla riva e la crisi, per lungo tempo evitata, investe il sistema economico tanto piú violentemente quanto piú è stata ritardata. Quello che veniva presentato dalla retorica neocapitalistica come il miracolo della nuova economia finanziaria che prometteva una crescita senza fine esente da fluttuazioni economiche, si muta in una crisi caratterizzata da un alto grado d'indeterminatezza e d'iniquità.

L'altissimo livello raggiunto dall'indebitamento privato, il predominio della finanza sull'economia reale e la debolezza delle democrazie e degli Stati nei confronti del capitalismo finanziario hanno esasperato gli eventi, trasformando una situazione di difficoltà nella piú grave recessione dalla Grande Crisi del 1929.

Successivamente, l'intervento pubblico non è stato capace di determinare l'inversione ciclica e di rilanciare una crescita in grado di autosostenersi. La strategia che ha guidato l'intervento dello Stato ha mirato semplicemente a trasformare il debito privato in debito pubblico con la speranza che l'economia ripartisse, evitando di toccare i meccanismi che per trent'anni hanno alimentato l'espansione del capitalismo finanziario e il divario crescente nella distribuzione del reddito. Il ricorso allo Stato, considerato non piú come un disturbatore ma come un salvatore del mercato, ha permesso di evitare il collasso finanziario delle banche e delle grandi imprese private. Ma la sostituzione dell'indebitamento pubblico a quello privato ha messo in grandissima difficoltà le finanze di tutti i Paesi avanzati e, in special modo, dei Paesi europei piú deboli, scaricando i costi della crisi sulle categorie «innocenti»: i contribuenti e i lavoratori. Nel vecchio continente la situazione si è ulteriormente aggravata poiché i governi, nel mezzo della crisi, hanno deciso di dare la massima priorità al risanamento delle finanze pubbliche. Al contrario, tutti gli sforzi avrebbero dovuto essere focalizzati sulle politiche economiche per rilanciare la domanda e l'occupazione.

Insomma, la fase del capitalismo finanziario, che secondo la propaganda avrebbe dovuto garantire un'epoca di sviluppo illimitato, non ha portato con sé maggiore efficacia ed efficienza economica, bensí un rallentamento della crescita, un continuo aumento del divario tra ricchi e poveri e un'accentuata fragilità finanziaria, che ha messo a rischio la stessa sopravvivenza del sistema capitalistico. A questo punto, se i conflitti generati dalla crisi dovessero peggiorare, la recessione potrebbe tramutarsi in una depressione prolungata, se non addirittura in una «nuova Età dei Torbidi».

Una reazione significativa per contrastare le tendenze involutive del capitalismo durante una crisi fu quella sperimentata in Germania agli inizi degli anni Trenta sotto l'impulso del ministro dell'Economia di Adolf Hitler, Hjalmar Schacht. Per sottrarre la Germania alla dittatura dei mercati finanziari che la stava trascinando a fondo, il regime nazista attuò delle misure eccezionali per riportare la sovranità monetaria del Paese sotto il controllo politico. Si realizzò cosí un mutamento fondamentale della strategia economica, che permise allo Stato di riprendere in mano le leve del finanziamento dello sviluppo sostituendo la propria autorità a quella del mercato. Naturalmente non c'è bisogno di Hitler: sarebbe sufficiente un rilancio dell'intervento pubblico attraverso l'emissione di una moneta speciale per le imprese.

Altri circuiti di tipo speciale potrebbero essere attuati attraverso una nazionalizzazione del debito, ma questo intervento non riuscirebbe a eliminare l'influenza esercitata dalle transazioni finanziarie private.

Anche le politiche di rilancio della domanda pubblica praticate in senso democratico negli Stati Uniti ai tempi di Franklin D. Roosevelt difficilmente riuscirebbero ad arginare l'impatto decisivo delle transazioni capitalistiche private. La potenza delle transazioni finanziarie non consiste solo nelle operazioni effettivamente realizzate, ma anche in quelle annunciate o minacciate: i capitali continuano a esercitare un ricatto sui territori e sulle comunità poiché possono spostarsi come delle valigie, provocando miseria e disperazione sociale.

Non intendiamo presentare una strategia alternativa nella sua complessità; però, non possiamo chiudere questo libro senza accennare alle tre direttrici verso le quali dovrebbe essere rivolta una strategia di uscita dalla crisi, di ripresa economica, di riconsolidamento sociale. Si tratta di mutamenti di natura altrettanto incisiva e decisiva di quelli che hanno scatenato la crisi.

Il primo è senz'altro la restituzione alla politica del controllo sui movimenti internazionali dei capitali, quale esisteva prima della loro «liberazione».

Il secondo è la riproposizione di un modello d'impresa capitalistica simile a quello profilatosi con la teoria dell'impresa manageriale: un'impresa non piú prigioniera della massimizzazione del profitto nel breve periodo, ma dispiegata verso una serie di azioni rivolte al suo sviluppo economico, sociale e culturale.

Il terzo è il ritorno non al disegno di Bretton Woods, ma al suo progetto rivale, quello proposto nella stessa sede da John M. Keynes, non basato sull'egemonia americana e che preveda una pari responsabilità dei Paesi creditori e dei Paesi debitori.

Occorre dunque un'azione politica di livello internazionale per contrastare la mutazione finanziaria del capitalismo. Serve esattamente il ritorno a una condizione dell'Età dell'Oro, quando si era realizzata la libera circolazione delle merci ma non quella dei capitali.

Il nuovo approccio di politica economica è particolarmente urgente in Europa, dove gli obiettivi di sviluppo civile devono tornare ad avere la priorità sui risultati finanziari speculativi di breve e di brevissimo periodo.

In sintesi, è necessaria un'inversione della politica economica per ridimensionare il potere del capitalismo finanziario e per restituire allo Stato e alla democrazia le leve del finanziamento dello sviluppo, specialmente durante una fase di crisi. Cosí sarà possibile promuovere una crescita sostenibile e un piú alto grado di eguaglianza e di consenso sociale.

In questo libro abbiamo affrontato due questioni distinte che riguardano i rapporti fra la finanza, l'economia e la politica e le interazioni fra il capitalismo e l'ambiente. In realtà le due questioni sono strettamente collegate, perché l'involuzione del capitalismo industriale provocata dall'espansione della finanza, oltre a mettere in secondo piano le istanze sociali, ha fatto sí che l'impegno delle grandi imprese verso la riconversione ecologica dell'economia risultasse assolutamente inadeguato.

Insomma, non miriamo al paradiso e non immaginiamo una società perfetta: piú semplicemente nutriamo la speranza di progredire verso una società piú prospera e piú giusta.

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