Copertina
Autore Paolo Rumiz
Titolo Annibale
SottotitoloUn viaggio
EdizioneFeltrinelli, Milano, 2008, I Narratori , pag. 192, cop.fle., dim. 14x22x1,2 cm , Isbn 978-88-07-01763-6
LettoreRenato di Stefano, 2008
Classe viaggi , storia antica , mare , paesi: Italia
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Indice


  5 Nota dell'autore


  9 Forse il sogno

    "Se crediamo, capiremo", 9;
    Come le anatre siberiane a febbraio, 18.

 23 1. Da Sant'Antioco a Cartagena

    Il cuore vulnerabile dell'anima punica, 23;
    Cocci di vaso, fichi d'India, immondizie e
        buganvillee nel vento, 29;
    «Ama Cartagena come l'ho amata io", 37.

 47 2. Da Cartagena al Colle della Maddalena

    Novantamila uomini, dodicimila cavalli e decine di elefanti, 47;
    Trentasei nonni fa, 50;
    "C'est pas Hannibal, c'est pas Hannibal...", 57;
    Sulla riva del fiume, 59;
    Il viaggiatore leggero, 61;
    Posto di sosta per viandanti, camere, asini in affitto, 66;
    Molto grande fu la quantità di neve che si dovette
        scavare e portar via, 67.

 71 3. Dal Colle della Maddalena a Callicula

    La dimensione leggendaria di un viaggio, 71;
    La capitale dei Taurini, 72;
    Il Crispillo, 73;
    I fiumi cambiano strada, 77;
    Un'incredibile, funzionale, modernissima, geniale frontiera, 80;
    L'uomo che volle essere Annibale, 82;
    Ossa che non trovano requie, 90;
    Lucciole e stelle, 94;
    Le fiamme risplendevano sull'estremità delle corna, 96;
    Sulla strada giusta, 99.

101 4. Da Callicula a Canne della Battaglia

    Un luogo della mente, 101;
    Ma allora la battaglia dove avvenne veramente? 107;
    Pietre, indizi e nomi parlanti, 110;
    "Montgomery era un cretino", 111.

117 5. Da Canne della Battaglia a Siracusa

    Un nuovo Grande Inizio, 117;
    Lo scontro di due mondi, 118;
    Qualcosa di molto più antico di Roma, 123;
    Il grande Sud, 128;
    Un'indiretta "laudatio" a denti stretti; 130;
    Siracusa è questa assenza, 131.

135 6. Da Siracusa a Crotone

    Hannibal ante portas!, 135;
    Un passato che sembra ieri, 136;
    Gli irrequieti highlander d'Appennino, 139;
    Dal cinghiale, dal picchio e dal lupo, 140;
    Modelli irraggiungibili, 140;
    L'ultimo rifugio del Cartaginese, 144;
    Un mare dimenticato dai suoi stessi abitanti, 145;
    Cristo e Annibale, 148;
    La malinconia dei popoli vinti, 149;
    Un luogo straniante, 151;
    Come un corpo celeste indifferente alla stoltezza
        degli umani, 152;
    Il latifondo ha rovinato l'Italia, 153.

159 7. Dalla Tunisia all'Armenia

    Il modello perfetto dei campi di battaglia, 159;
    "Annibale vive ancora", 160;
    Mai sarà pace sicura per i Romani là dove ci sarà Annibale, 165;
    Sedimenti di un mare profondo, 166;
    "Vedo che abbiamo bevuto alle stesse fonti", 169;
    La prima vendemmia di Noè, 170.

176 General Anibal mezar

    Profumo di gelsomino, spazio per cavallerie,
        orizzonte di carovane, 176;
    Fine di Annibale, 177;
    Annibale, chi era costui..., 178;
    Tutto quel che rimane di lui, 180;
    Un ammasso di rovine, 186;
    Il senso della "res publica", 188;
    Strade, ponti, sicurezza, 189.

 

 

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Pagina 9

Forse il sogno



"Se crediamo, capiremo"

In alto si è staccata una valanga, l'eco del tuono si moltiplica, si disperde, poi sulle Alpi torna il silenzio. È il mese di maggio del 2007 e siamo perfettamente soli. Tra i picchi imbiancati delle Cozie, nient'altro che pietre, vento, marmotte e nubi.

"Chissà se Annibale è passato davvero di qua," brontola Paolo Henry, accendendosi la pipa al riparo dal vento. Ha la faccia abbronzata dall'alta quota, una foresta di rughe da Cheyenne, un elmetto di capelli candidi e pronuncia il "davvero" con una rotonda r francese. Conosce palmo a palmo le vette di casa sua e, da buon montanaro, esprime scetticismo. Il Clapier sarà anche in auge fra gli storici, ma non pare cosa da elefanti: troppo ripido. In fondo, che tracce abbiamo trovato? Nessuna. Siamo saliti in sei dalla Val Susa, arrancando per ghiaioni e neve fresca fino a quota 2471, sempre cercando di immaginare davanti a noi il grigio deretano di un mastodonte, e non siamo affatto convinti.

Al passo c'è solo una piccola targa in bronzo tra i licheni, con l'indicazione di una strada romana e del "probabile passaggio" del Cartaginese, nel 218 avanti Cristo. Troppo poco. Facciamo sosta su un roccione sgombro dalla neve: con Henry e il fotografo Paolo Siccardi, entrambi piemontesi, ci sono Albano Marcarini e Alberto Conte, specialisti di sentieri, e Marco Samek, tutti di Milano. Dai sacchi escono panini e borracce di vino rosso delle Langhe, ma dopo gli ardori della vigilia la nostra euforia è svanita. A Susa ci hanno smontato già prima di partire. Pare che almeno venti passi alpini si contendano il prestigio della traversata, e che su quell'unico evento si siano prodotte quasi novecento pubblicazioni. Una montagna di libri per un dettaglio, su cui gli storici litigano da sempre senza venire a capo di nulla.


Comincio a chiedermi cosa e chi sto cercando. Forse Annibale non è un uomo, è una malattia. E noi siamo solo gli ultimi di una processione di allocchi venuti in pellegrinaggio su queste pietraie alla ricerca del nulla. In valle ricordano bene che nel 1959 tre inglesi – fra i quali un baronetto – arrivarono sul Clapier dalla Francia con un bestione da circo. Tentarono la traversata, ma poi, visto il precipizio sul versante italiano all'altezza di Novalesa, ripiegarono sulla più comoda Statale del Moncenisio per arrivare trionfanti a Susa in un orrendo schiamazzo di folla e fotografi. Se per rincorrere un'epopea perfino i baronetti perdono il senso del ridicolo, figurarsi noi.

Sulle strade asfaltate piemontesi sono passati parecchi stranieri posseduti da insane febbri annibaliche. Un gruppo venne dalla Francia con tre bestioni adulti e un cucciolo, e si narra che, quando la comitiva entrò, accolta dalla banda, nello zoo di Torino, nella baraonda dei festeggiamenti il piccolo si appartò con un centinaio di bottiglie di Barbera già aperte, le vuotò una per una con la proboscide e infine morì felice dopo un ultimo rutto. La folla entusiasta ci mise un po' a capire che Dumbo non si era semplicemente addormentato. Si stapparono altre bottiglie, si intonarono canti alpini, ma intanto il cucciolone aveva raggiunto i suoi antenati da combattimento.

Ci hanno provato in molti a passare le Alpi col pachiderma al seguito, con tanto di sponsor e colorate gualdrappe pubblicitarie, ma sempre i giganti arrivavano a valle morti di freddo o di sete, assediati da giornalisti e scolaresche. Passavano, certo, ma nessuno riusciva a dimostrare un bel niente. Tranne una cosa: il mito si rafforzava, anziché affievolirsi, davanti alla pochezza dei contemporanei. L'ombra di Annibale giganteggiava di fronte a quegli sforzi ridicoli. Il grande mistero della montagna violata non per un valico qualunque, ma per la più formidabile delle barriere messa li dagli dèi a blindare l'integrità territoriale dell'Italia, si incarnava in lui, e solamente in lui. Nell'uomo che per primo aveva varcato quella soglia col più gigantesco dei mammiferi terrestri.

Ora fra le nubi sbucano i denti di caimano delle Rochers Pénibles e la cupola immacolata del Rocciamelone, solcata in controluce da piccole smagliature arancione. Il paesaggio è grandioso. Albano esplora l'aria fina col binocolo, cammina inquieto tra nevi e licheni. Lo conosco, fa sempre così quando mastica un pensiero. Conosce a memoria la topografia dell'Italia segreta ed è capace di leggerne le nervature più arcane. Sa che le strade parlano, e l'andatura con cui le si percorre genera pensieri, e quei pensieri leggono, senza saperlo, lo spartito invisibile impresso su quei tracciati da millenni di altri passaggi. Ora torna da noi, ha un altro incedere, più risoluto. "Forse a noi basta credere che sia accaduto. Se crediamo, capiremo. E la nostra salita avrà un senso."

Si propaga un'onda di sollievo. La proposta piace a tutti: è davvero la chiave di questa nostra rischiosa escursione nel tempo. Che il Nostro sia passato davvero di qui ha poca importanza; e noi non dobbiamo dimostrare nulla. I viaggi, in fondo, sono fatti per confermare i miti, non per demolirli. E poi Annibale non è forse un'ombra che sfugge? Non lo hanno imparato a loro spese anche i Romani? L'anno prima, in un lungo viaggio appenninico fuori rotta, l'ho trovato ovunque, il condottiero guercio. Non lo cercavo, ma lui sbucava qua e là, dalla Trebbia all'Aspromonte, nel profondo Sannio e sullo spartiacque tra Modena e la Garfagnana, nella presenza del toponimo Barca in mezzo alle montagne e in strane iscrizioni sulle roccaforti del Molise. Anche in terre poi abitate da Greci, Longobardi, Normanni, Albanesi e Croati, la sua leggenda viveva nei racconti. Restava incardinata ai luoghi. Abitava una viabilità alternativa e incompatibile con quella ramificata delle strade consolari romane. Una rete partigiana dalla quale nessuno era ancora riuscito a stanarlo.

Marcarini mi chiede le Storie di Polibio, il grande testimone del tempo. Il libro con testo greco a fronte sta in fondo allo zaino, squinternato e zeppo di sottolineature. Lo apre, cerca i passi della traversata, li legge assorto. Poi ha l'idea che dà alla missione alpina il suo senso definitivo. Sale su uno spuntone di granito come per captare tutta la potenza tellurica del luogo, ne fa il suo grandioso pulpito e, come il reverendo Mapple davanti ai balenieri di Nantucket in Moby Dick, impartisce in un silenzio attonito la lettura del Verbo alla ciurma di poca fede:

"Polibio, Storie, libro III, capitolo 53, paragrafo 9. Il nono giorno giunse al valico, dove si accampò e rimase per due giorni, volendo far riposare gli scampati e al tempo stesso aspettare quelli che erano rimasti indietro".

È cambiato tutto. La lettura ci inonda, ci apre i pori della pelle, svela l'energia del luogo. Il Libro, ecco la chiave. Il Libro venuto dal Tempo. Improvvisamente le nostre guide, i nostri Baedeker, perdono significato. Non ci importa nulla sapere della quota o dei bivi dei sentieri. Conta solo l'evento narrato e l'immaginario che ciò scatena in noi. Siamo all'erta come marmotte: sentiamo la montagna che smotta, scarica, rabbrividisce. Siamo tutt'uno con il luogo e l'anima che lo abita. La parete del Rocciamelone è come un'antenna parabolica che registra i segnali di una stella lontana. In quota è cambiato il vento, bandiere di neve fresca si gonfiano in direzione della Francia.

Ora non è più l'amico Albano, ma direttamente Polibio che parla: "In quest'occasione molti dei cavalli che erano stati presi dallo spavento e molte delle bestie da soma che avevano lasciato cadere i loro carichi inaspettatamente tornarono indietro, seguendo le orme degli altri, e raggiunsero il campo". Sentiamo i comandi, le grida, i nitriti, la puzza della truppa, fatta di cuoio, sudore, polvere e letame. Tutto come duemila e duecentoventicinque anni fa, anno 536 dalla fondazione di Roma, quando, un giorno di fine settembre, accadde l'impensabile. L'Africa invadeva l'Italia. Un "maghrebino" di cognome Barca passava le Alpi, scendeva nella bufera con ventimila uomini, migliaia di cavalli, asini, e decine di elefanti, per sfidare la Dominante sul suo terreno.

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Coincidenza? Ma intanto il Grande Africano riappare a Venaus, accanto al presidio contro l'Alta velocità ferroviaria, con uno striscione teso fra due alberi: SUI MONTI DOVE PASSÒ ANNIBALE IL TAV NON PASSERÀ. Nel baracchino, attrezzato con brande e cucina, la guardia non smonta mai nel timore di colpi di mano delle forze dell'ordine. Guardo la pattuglia degli irriducibili e mi accorgo subito che questa non è la bomboniera pusterese inondata di miliardi e coccolata dal Potere. Qui tira un'altra aria. I valsusini sono gente incazzata e decisa a non mollare. Quando si sentono presi in giro diventano implacabili. Dal Potere hanno avuto solo fregature. Gli avevano promesso l'autostrada gratuita, e gli hanno dato solo quegli orrendi piloni sopra la testa. Susa doveva collegarsi col mondo e non ha avuto che gabelle medioevali e lo sconcio del territorio. CHE BELLO, sta scritto su un manifesto, MIO FIGLIO POTRA ANDARE DA TORINO A LIONE IN DUE ORE. IO INTANTO ASPETTO OTTO MESI PER LA MIA ECOGRAFIA ALLA PROSTATA.

Qui la Resistenza è stata dura e implacabile; anche i bambini rifornivano i partigiani. Alla fine degli anni settanta a Bussoleno crebbe Prima linea, e la valle fu totalmente militarizzata, con blocchi stradali all'ingresso e all'uscita di molti paesi. "Per la Val Susa si muore come per la patria," mi spiega a bassa voce Henry, che questi posti li conosce bene per averci lavorato come psichiatra. Quando gli racconto di Annibale, i nemici del tunnel ghignano come vietcong: "Certo che è sceso di qua! Se andava a distruggere Torino e a bastonare Roma, era sicuramente dei nostri". E poiché Annibale andò davvero a distruggere Torino e a bastonare i Romani, anche stavolta la compagnia non può che dichiararsi d'accordo: "Vorrà pur dire qualcosa".

È chiaro. Il viaggio è già cominciato. Ormai le coincidenze si ripetono e la dimensione mitologica dell'andare mi ha già strappato dal presente. Faccio una scoperta dopo l'altra.

Poco lontano, i tosti valsusini mi mostrano un gigante di cemento al centro di un labirinto di svincoli, piantato in mezzo a un prato: è costato cifre stratosferiche e la distruzione di un frutteto secolare. Una brutta storia di sopraffazione, finita con un camion di ghiaie che schiaccia e uccide una donna; una che fino a quel momento aveva tentato di resistere all'esproprio nella sua casetta col marito e il cane. Una porcheria cementizia, messa su per contenere i soliti alberghi, sale conferenze, centri commerciali, e poi abortita nel nulla. "Sapete come l'hanno chiamato? 'Annibale Duemila'."

Benedetto Iddio, perché di nuovo quel nome? Perché Annibale, e non il grande Giulio Cesare, che pure passò il Monginevro per combattere i Galli con le sue legioni? Perché lui e non Napoleone, che attraversò Susa e Bussoleno con trombe, cavalli e cannoni, oppure Carlo Magno, che percorse la valle per un sentiero di quota lasciando segni ben più inconfutabili? Nemmeno Augusto imperatore, che a Susa ha un magnifico arco di trionfo eretto per celebrare la pace con i montanari delle Cozie, è rimasto altrettanto legato alla memoria della valle. Non si capisce perché le genti della Val Susa si aggrappino proprio a quel nome, alla leggenda di uno che quassù non ha lasciato la minima traccia tangibile del proprio passaggio.

Prove concrete, zero. Indizi, dappertutto. Nel '44, nella vicina Val Chisone, i partigiani trovarono una zanna d'elefante con accanto strani ferri: li nascosero in un cimitero, ma i tedeschi portarono via le casse e tutto andò perduto. Chissà dove sarà, oggi, quella zanna senza nome: perduta in uno scantinato di Stoccarda o Francoforte, polverizzata dalle bombe incendiarie americane, nell'hacienda di qualche nazista rifugiatosi in Argentina o sbriciolata dai bulldozer nei giorni della ricostruzione della Germania. Trent'anni prima, su queste stesse montagne piemontesi era stato girato Cabiria, truculento film muto con sceneggiatura di Gabriele D'Annunzio. Un kolossal dei vecchi tempi, con elefanti, battaglie, amori e sacrifici umani, ambientato pure questo al tempo di Annibale. Insomma, prove nessuna, ma piste ovunque, come in un territorio comanche.


Come le anatre siberiane a febbraio

Piove, scende la notte. La compagnia riparte, resto con Henry e i miei pensieri alla locanda Brusafer, un nido d'aquila costruito accanto a uno spuntone di granito acchiappafulmini dall'aspetto extraterrestre. Magnifico posto e magnifico nome per un campo base. Ho in macchina una carta generale dell'Europa, la apro sul tavolo, cerco di tracciarci sopra la mia strada. Il viaggio è lungo da morire. Ventimila chilometri. Dopo l'Africa, la Spagna, la Francia e un'epopea italiana durata quindici anni, la storia non finisce con la sconfitta di Zama a sud di Tunisi. Continua per altri vent'anni. Anziché darsi pace, il Nostro, come posseduto da un demone, riprende a viaggiare. Va in Libano, Siria e poi ancora a Creta, in Turchia, Armenia, e poi di nuovo Turchia, nelle lande della favolosa Bitinia, poco oltre il Bosforo, dove si uccide col veleno, tradito dal suo anfitrione, per non farsi prendere dai Romani che lo braccano ancora.

Forse la distanza tutta italiana fra cultura popolare e burocrazie ministeriali, i disastri della nostra scuola, i vuoti dei suoi programmi – manipolati prima dagli educatori sabaudi e fascisti, poi dalle rimozioni post-belliche – appaiono in tutta la loro evidenza proprio con Annibale, un grande che ancora sconta la dannazione della memoria inflitta dai Romani. Poco è cambiato dai tempi di Cornelio Nepote e del suo lamento sulle virtù antiche che decadono quando Roma smette di avere nemici alle porte. La storiella del metus hostilis che, indebolendosi, distrugge il sobrio mos maiorum dei buoni Romani dell'età arcaica funziona come duemila anni fa.

Come sempre, alla vigilia di un grande viaggio che comporta distacchi dalle proprie certezze, mi prende un po' di paura. La sfida è tosta. Sarebbe infinitamente più semplice rifugiarsi nel Libro, costruire un viaggio a tavolino. Ma il grave è che non ho ancora decifrato cosa mi spinge ad andare. Forse non lo saprò mai, non mi basterà il periplo a capirlo. Ma nei viaggi è inutile chiedersi tanti perché: arriva la bella stagione, e dentro ti senti un'inquietudine che ti porta a mollare gli ormeggi, come le anatre siberiane a febbraio quando entrano in frenesia collettiva, si ripuliscono starnazzando le piume e ripartono per il Grande Nord. Forse Annibale è solo una scusa per ascoltare l'imperativo categorico scolpito nel nostro Dna di nomadi repressi. Viaggiare.

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Pagina 47

2.
DA CARTAGENA AL COLLE DELLA MADDALENA



Novantamila uomini, dodicimila cavalli e decine di elefanti

L'auto se ne va soletta nella meseta color ocra, cercando il nord e le montagne sotto piccoli scrosci di pioggia. Da Cartagena, dove parte la campagna d'Italia, mi martella in testa una domanda solo apparentemente peregrina. Una domanda da giornalista: che differenza c'è fra cercare un generale di duemila anni fa e un "imprendibile" di oggi come bin Laden? Ho seguito la guerra dei Balcani e una parte del conflitto afghano dopo l'11 settembre, e sento che il procedimento non è poi così diverso. Si affrontano gli stessi dubbi tormentosi, gli stessi depistaggi, le stesse insonnie. Ci si confronta con voci di terza mano similissime e col medesimo tipo di attese improduttive in cerca di un collegamento che poi si rivela illusorio. Anche la sensazione di viaggiare alle cieca è praticamente la stessa. I duemila anni di storia che separano quei due, in fin dei conti, sono poca cosa. Annibale Barca e bin Laden: sempre di un'ombra si tratta.

Ora il viaggio è davvero in medias res, il passato diventa presente e il mio spostamento si sincronizza in pieno con quello del Cartaginese. È il 218, il dado è tratto, il Nostro è in marcia verso l'Italia con novantamila uomini, dodicimila cavalli e decine di elefanti. Cerco di immaginare questa massa in movimento, il polverone che solleva, l'odore che lascia, il rumore che fa. I bagagli, le scarpe, i vestiti, il foraggio. Calcolo che tra la partenza dal campo dei primi e degli ultimi debbano intercorrere almeno cinque ore. Uno sforzo logistico pauroso. Novantamila uomini, dodicimila cavalli e quaranta elefanti da nutrire, accampare e proteggere. Senza elicotteri, strade o ferrovie.

Si narra una cosa orrenda di questa fase iniziale del viaggio, che si preannunciava segnato da enormi difficoltà per i viveri e la disponibilità di rifornimenti per le truppe. Scrive Polibio (IX, 24) che "di fronte alle difficoltà che spesso emergono nel sinedrio su questo argomento, uno degli amici, Annibale detto Monomaco, disse che secondo lui c'era un solo modo per arrivare in Italia. Quando Annibale (il comandante supremo) lo invitò a parlare, disse che bisognava addestrare e abituare le truppe a mangiare carne umana. Annibale non disse nulla contro l'audacia e l'efficacia dell'idea, ma non poté persuadere né se stesso né gli amici a tenere conto della cosa". Aggiunge Polibio che, forse, gli atti di crudeltà attribuiti ad Annibale in Italia furono probabilmente opera di quest'uomo dallo stesso nome e, in misura eguale, delle circostanze.

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Pagina 71

3.
DAL COLLE DELLA MADDALENA A CALLICULA



La dimensione leggendaria di un viaggio

Fuori dalle montagne comincia la piana degli italioti deambulanti con telefonino in canna. È il mio popolo in apnea sotto nubi monsoniche, incolonnato nel labirinto di una viabilità demenziale. Capannoni, erbe matte, frane e viadotti: la dilapidazione del territorio e l'insulto della memoria sono visibili ovunque in questo spazio che sembra aver perduto ogni linea maestra. ROMA LADRONA c'è scritto in stampatello su un muro, ma anche le urla secessioniste della Padania paiono espressione dello stesso sfacelo tricolore. Già alla periferia di Cuneo mi invade un senso di decadenza così atroce che in un attimo di nostalgia rivedo il golfo di Cartagena e i bei colori della Sierra Minera accesi nel tramonto. Risento il gusto della birra bevuta con Pilar sul lungomare e il borbottio dei pescherecci in uscita per la pesca allo sgombro.

"Italiener keine Mannschaft." Gli italiani non fanno squadra, mi ha detto un giorno uno studioso tedesco osservando che in Italia l'ordine imbattibile delle legioni era rimasto senza eredi e si era semmai reincarnato nella Germania di Federico il Grande. Anche le Gallie, che pure si sono opposte duramente ai Romani, si sono arricchite di un senso della res publica ben più forte di quello cisalpino. Inevitabile chiedersi cosa abbia sfigurato l'antica virtù romana proprio nel suo glorioso baricentro. Il Vaticano? I lussi del tardo Impero? L'assenza di una Riforma protestante? La minor presenza di fresco sangue barbarico? O forse a rendere così intollerabile la contemporaneità italiana è solo la dimensione leggendaria di questo viaggio e lo smarrimento che provo ogni volta a uscirne?

I soldati cartaginesi morirono guardando in faccia il nemico. E i Celti non erano da meno: Polibio racconta che Annibale ne ha catturati alcuni e se li è portati dietro come ostaggi dalle valli francesi dove ha subìto continui attacchi. Costoro "avevano pesanti catene, erano oppressi dalla fame e i loro corpi erano stati sfigurati dai colpi ricevuti". Il Generale li presentò alle truppe e mise costoro "davanti alle loro armature galliche, di quelle che di solito sfoggiavano i loro re quando dovevano combattere in duello. Inoltre fece mettere lì accanto dei cavalli e fece portare dei sontuosi mantelli".

A questo punto il Generale chiese ai giovani prigionieri quali volessero combattere fra loro, "con la condizione che il vincitore ottenesse i premi che stavano lì davanti e lo sconfitto si liberasse dei mali presenti con la morte". Ebbene, "tutti insieme gridarono e manifestarono il desiderio di affrontare il duello", così egli dispose che si tirasse a sorte e "ordinò che i due estratti si armassero e combattessero fra loro". Appena udito ciò, "i giovani, sollevando le mani, rivolsero preghiere agli dèi, ciascuno nel desiderio di essere tra i sorteggiati". Poi, a combattimento avvenuto, "i prigionieri rimasti da parte chiamarono felice il morto non meno del vincitore, perché si era liberato di molti e gravi mali che continuavano a opprimere gli altri".

E noi, uomini dell'arrogante terzo millennio?

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Pagina 102

Sessantamila morti fanno seicento cataste di cento corpi ciascuna. Il doppio di Austerlitz. Più dei caduti americani in anni di guerra in Vietnam. Canne è la più orrenda strage del mondo antico, l'epifania di una morte sconcia, deturpante. Una morte "moderna"; la stessa che racconta Remarque a proposito della Grande guerra. A Canne si celebra l'epitaffio del duello omerico, quello che finisce con i corpi lavati e profumati da consegnare all'eternità. Brizzi: "La battaglia di Cheronea fu un trauma per i Greci, ed ebbe quattromila caduti. Al confronto, Canne è l'inferno".

Per quanti credono alla bellezza della guerra, Tito Livio parla chiaro quando racconta la mattina dopo la battaglia, e in particolare: "Attrasse l'attenzione di tutti un Numida ancor vivo, tratto col naso e gli orecchi mozzati di sotto a un Romano che gli si era steso sopra morto; questo, non servendogli più le mani per afferrare un'arma, aveva trasformato in rabbia la sua ira ed era spirato straziando con i denti il nemico". Canne è il macello di una classe dirigente che vuol combattere in prima linea, la morte di tre consoli ed ex consoli, di otto questori, quaranta tribuni, ottanta senatori. Il fratello minore di Annibale, Magone, portò a Cartagine tre canestri di anelli, tolti dalle dita degli equites in quella sola battaglia.

Canne è morti insepolti, divorati dai cani e spogliati delle loro armature; è gambe sgarrettate dal colpo di pugnale dei cavalleggeri spagnoli; è detruncata corpora, ferite che ultra mortem patebant; è agonia di settimane per infezione e setticemia. Non c'era la Croce rossa, a quei tempi; Canne è anche scannamento dei sopravvissuti, all'alba del giorno dopo. Un'ammucchiata sanguinolenta di vivi e morti.

Dalla cima del monte uno guarda la piana accanto alla ferrovia e dice: "Impossibile". È lo spazio di uno stadio. Invece no: a Canne tutto avviene davvero nello spazio di uno stadio. O meglio, di una tonnara. E di una tonnara ha la tecnica e i tempi. Per capire devi averne vista una, con il mare che ribolle, le vittime che si ostacolano a vicenda e gli uomini come posseduti che cantano "alamoa alamoa, janzù janzù" e lanciano colpi d'arpione alla cieca.

Ma la tonnara non è una pesca rituale inventata da Fenici e Cartaginesi? Perché in tutte le altre battaglie i morti sono dispersi su una scia e qui invece sono concentrati in un fazzoletto di terra? Sessantamila caduti in un fazzoletto. Perché i Romani non si mossero di un pollice e si lasciarono massacrare?

Fa molto caldo, non è facile ragionare sotto un sole che acceca. Con un bastoncino Brizzi traccia segni nella ghiaia, parla di "superamento della falange macedone di Alessandro Magno", di nascita della "manovra avvolgente", di valorizzazione della cavalleria contro una legione basata sulla fanteria pesante. Ma di tutto, sotto il sole di Canne, capisco una cosa soltanto. Tre parole: "Annibale-vinse-arretrando". Vedo sulla ghiaia il fronte cartaginese convesso che si lascia investire, diventa concavo, poi si richiude, finché le cavallerie alle ali sigillano lo spazio rimanente, formando una camera della morte imperforabile come quella di una tonnara.

Ma ancora non basta, dico. I Romani erano settantamila, buon Dio, più del doppio del nemico. Come poterono soccombere?

"Il numero eccessivo fu il limite. Combatterono in settantamila nello spazio in cui erano abituati a combattere in quarantamila. Si ostacolarono a vicenda e non riuscirono a reagire."

Non basta ancora...

"La cavalleria romana era inferiore e i fanti erano quasi tutti reclute, dopo le stragi sulla Trebbia e sul Trasimeno."

Ma l'organizzazione romana era comunque una macchina mortale...

"Però i due consoli erano in disaccordo tra loro, e la tecnica del comando a giorni alterni giocava a favore di Annibale."

La tonnara, la maledizione della tonnara... Forse Annibale non fece che applicare su terra le tecniche secolari di una civiltà di mare...

"Ti rispondo con Polibio: dopo Canne 'risultò evidente ai posteri che in tempo di guerra è meglio avere la metà dei fanti rispetto ai nemici e un'assoluta superiorità in cavalleria, piuttosto che affrontare la battaglia con le forze più o meno uguali a quelle dei nemici'. Canne cambiò la storia della strategia."

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"Andiamo un po' sulle montagne, la vera Armenia è quella," annuncia eccitato Zarian premendo sull'acceleratore della vecchia Zigulì su per una rampa desertica bestiale. Siamo subito soli tra montagne giallo ocra e rosso bauxite. Già Asia profonda: Persia, Hindukush, Amu Darija. Ai lati della strada, qualche carcassa di automobile o resti di carri armati dell'ultima guerra con l'Azerbaigian per l'eterna questione del Karabakh.

Gli armeni sentono come rabdomanti l'energia dei luoghi e anche in queste solitudini la topografia del sacro è fittissima: in ogni gola, su ogni gibbosità, sotto ogni parete c'è una chiesa medioevale, incastrata nel precipizio come i Buddha di Bamiyan fatti saltare dai talebani. Ahimè, anche i confini sono onnipresenti – Karabakh, Iran, Turchia –, come se una mano perfida li avesse disegnati apposta per suscitar discordie. Complicati e inutili. Anche qui il sangue e il sacro si cercano.

In un'oretta incrociamo un sidecar, una vecchia Uaz e un trattore con targa bielorussa, superiamo un camion di Teheran che sale a passo d'uomo in una nube di ossido di carbonio, poi lasciamo la strada principale per una gola nascosta. È un Eden di frescura con alberi da frutto e torrenti. Dopo un po' fiutiamo carne arrostita: viene dalla casa di un pastore su una radura. Si chiama Vardges e ci viene incontro sorridendo con due occhi neri come carboni. Sotto uno strapiombo ha sistemato tre tavoli di pietra. Offre ai viaggiatori yogurt, formaggio, pomodoro e pane tipo "carta musica". Mi sento nella vecchia Sardegna del Gennargentu.

Ci sediamo, la moglie di Vardges porta una brocca di terracotta con un rosso sfuso chiamato Arenì, denso come il sangue, che ci spinge rapidamente in stato di estasi. Non ho mai bevuto niente di simile. È aromatico, dolce, amaro e frizzante nello stesso tempo. Ricorda vagamente la Bonarda, o il Gutturnio che Annibale avrebbe dato ai soldati per scaldarli prima dello scontro sulla Trebbia. Sa di violetta e ciliegia e svela l'anima della terra da cui proviene. Non è vino. E l'archetipo stesso del vino. La prima vendemmia di Noè.


Il pastore mi chiede perché sono venuto. Rispondo che sto cercando un uomo chiamato Annibale, passato da queste parti duemila anni fa. Arà traduce parola per parola, sente che sta per succedere qualcosa.

"Ah, Annibale," risponde Vardges, "quello che ha fatto il grande giuramento contro Roma."

Resto di stucco. Un pastore che conosce Annibale, in mezzo al Caucaso! Lui mi guarda come per dire: ora devi dirmela tutta, la storia. Mi accorgo che anche il resto della famiglia sta aspettando che cominci. Attorno al fuoco c'è un silenzio che si taglia col coltello.

Racconto la fuga da Cartagine, l'oceano con il tempio di Ercole dedicato al tramonto, il sogno del mostro coperto di serpenti, il passaggio del Rodano, la traversata alpina con gli elefanti nella neve. Ho chiamato a raccolta tutta la mia potenza narrativa. Si è creata una situazione omerica, come quando Ulisse racconta ai Feaci. Zarian traduce felice, Vardges porta altro vino, il piccolo Armen dai capelli rossi ascolta con occhi sbarrati.

"Ma poi raggiunse il suo scopo?" chiede alla fine il pastore.

"Sì," gli dico, "se è vero che oggi parliamo ancora di lui. Annibale credeva solo nell'immortalità della memoria." E poi: "Vedi, Vardges, se quell'uomo non fosse esistito duemila e duecento anni fa, noi non ci saremmo mai conosciuti".

Il pastore diventa serio di colpo. Si alza in piedi, versa a tutti altro rosso di Arenì, leva il bicchiere e inizia un lungo discorso sulle vie misteriose del destino. Chiama a raccolta Mosè, Elia, e tutti gli angeli raffigurati su un tappeto oro, rosso e albicocca appeso alla parete. Poi conclude: "Forse lui non credeva in Dio, ma se non fosse stato in contatto con le stelle non avrebbe lasciato questa traccia".

L'ha evocato! È chiaro a tutti che l'ha evocato e la sua ombra è scesa tra noi per bere lo stesso vino. Il piccolo Armen è mortalmente serio, sua madre ha smesso di tritare mentuccia, il nonno dondola il capo come in un mantra. Tutti aspettano il brindisi.

"Che tu beva con me, Anush, e ciò che hai bevuto ti sia di gradimento."

È come se si rompesse una diga. Esplode l'allegria, arriva un agnello arrosto con cipolle e patate, tre nuovi ospiti bevono alla salute del focolare e giurano amore eterno per l'Armenia, poi raccontano di re Tigran il Grande e di Crasso decapitato dai Parti.

Siamo ubriachi e felici. Ora anche Noè è tra noi, mentre scende l'ora dei grilli.

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