Copertina
Autore Paolo Rumiz
Titolo È oriente
EdizioneFeltrinelli, Milano, 2005 [2003], UE 1829 , pag. 200, cop.fle., dim. 125x195x11 mm , Isbn 978-88-07-81829-5
LettoreRenato di Stefano, 2005
Classe viaggi , storia: Europa , paesi: Austria
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Indice

  5 Dove andiamo stando?
    Trieste-Vienna in bici

 29 L'uomo davanti a me è un ruteno
    Trieste-Kiev in treno

 59 Chiamiamolo Oriente
    Berlino-Istanbul in treno

 89 Ljubo è un battelliere
    Il Danubio su chiatta

129 Capolinea Bisanzio
    Regioni adriatiche in auto

155 Il "frico" e la "jota"
    Il profondo Nordest in bici

198 Ringraziamenti

 

 

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Pagina 5

DOVE ANDIAMO STANDO?
Trieste-Vienna in bici



Pioviggina sul colle del Sonnenberg, ci alziamo sul sellino per l'ultima salita, finché in cima l'orizzonte si slarga e a nord – oltre i fiumi, i villaggi e le ultime pendici del Wienerwald – compare solitaria, evanescente come una fatamorgana, la guglia di Santo Stefano. È il Danubio, la meta, la gioia, il tuffo al cuore, le domande che frullano in testa. Vienna l'abbiamo già vista: da dove viene questa emozione nuova? Siamo già stati in mezzo mondo: e allora perché ci sembra di non aver mai viaggiato prima?

Non può dipendere che da questa macchina silenziosa che da sei giorni mio figlio e io abbiamo sotto il sedere. È la prima volta che la usiamo per viaggiare. È stata un bracco implacabile: ha fiutato il terreno in ogni anfratto e ora ce lo riconsegna nitido, ce lo srotola come un film. Trieste, Lubiana, la Drava, il Burgenland, il passaggio in Ungheria. Smette di piovigginare, siamo euforici, planiamo a tutta birra sul Danubio. Achau, Leopoldsdorf, Laxenburgerstrasse; la ragnatela della città imperiale ci cattura. Ma il risucchio è iniziato seicento chilometri prima, alla partenza, davanti alla porta di casa.


In questo viaggio le due bici sono state per noi tante cose. Tandem generazionale, strumento di conoscenza, riconquista della lentezza, passaporto per una clandestinità nuova, perfino macchina sovversiva. Hanno ribaltato la percezione della distanza, della durata e dell'andatura, la capacità di guardare e gustare, la dimensione acustica, olfattiva e persino onirica del viaggio. Sono state macchina da presa, rosario di orazioni, miscelatore di immagini e memorie, fabbrica di pensieri e di sogni straordinari.

A ben guardare, le due ruote leggere sono state anche strumento di penitenza, riscoperta della fatica e del silenzio. Si sono rivelate infine un attrezzo rivoluzionario, perché annullano le gerarchie, semplificano i bisogni, rivendicano un accesso più umano al territorio. Giunti in Austria — un luogo dove chi va in bici è un benemerito, non un miserabile intralcio all'industria dell'auto — abbiamo pensato spesso all'Italia, a questo paese d'Europa capace di esprimere Coppi e Bartali, nonché folle di cicloamatori tra i quali persino il capo del governo, ma che resta nevrotico e impercorribile, estraneo alle sue stesse strade millenarie.


I tedeschi la chiamano Reisefieber, febbre da viaggio. La riconosco subito: arriva a notte fonda, con vampate di calore, ansia e acciacchi vari. Fa caldo, mi rigiro nel letto e penso che sono matto. Parto senza allenamento, non so nemmeno cosa sia un rapporto 17 x 42. Perché lo faccio? Papà, aveva detto un giorno Michele, facciamo qualcosa insieme. E papà aveva detto sì, perché a cinquant'anni tutti vogliono fare qualcosa di speciale: riprendersi il proprio tempo e il proprio spazio, magari farsi un tagliandino di efficienza. Oggi ho la bici, mi tocca pedalare; ma so che già domani mattina non ce la farò ad alzarmi dal letto. Ho studiato le carte al centimetro, eppure di notte quei seicento chilometri paiono una muraglia invalicabile e infinita. L'aria è ferma. Mi alzo a controllare le sacche. Spazzolino, borraccia, quadernino, cerotti, carte geografiche, magliette, documenti, soldi. Mio figlio dorme beato. È sicuro che ce la farò: dunque è matto anche lui.


C'era la luna, la notte della vigilia. Una notte inquieta di cani e pipistrelli. Ho attraversato la città in scooter, l'aria era immobile e umida, lasciava sospesa una rugiada argentata. Succedeva una cosa rarissima: i profumi del mare e quelli della montagna non entravano in conflitto, ma si armonizzavano senza sovrapporsi. Così ho attraversato profumo di fieno e mare aperto, di cipressi e bagnasciuga, di pini marittimi e secca brughiera, il respiro delle acacie e l'odore della pescheria chiusa, e poi il droghiere, il macellaio, il panettiere. Era come se bucassi quel pulviscolo scavandovi un tunnel che aveva la forma del mio corpo.


Accanto al comodino tengo sempre pile di atlanti, carte, guide, romanzi di viaggio, diari di bordo, relazioni con fotografie di paesi lontani, storie di antichi pellegrinaggi. In cima, il libro dei libri, Moby Dick di Herman Melville. Talvolta sono così tanti che formano un muretto; al mattino devo scavalcarlo per alzarmi. Ai piedi del letto una piccola valigia, con l'indispensabile per le partenze improvvise, frequenti nel mio mestiere. Ecco, ogni mio viaggio comincia già lì. Prima con i sogni più trasgressivi, spesso sul far dell'alba. Poi con quel metro e mezzo di percorso impervio ingombro di libri accatastati. Passate quelle Forche Caudine, tutto diventa facile. Esci di casa ed è fatta.


Filiamo all'alba come contrabbandieri. Odore di bosco: è pulita a quell'ora l'aria di città. Ultimo dubbio, prendere o non prendere il telefonino. Poi tagliamo corto: siamo uomini o commercialisti? Così lasciamo il grillo infernale, molliamo gli ormeggi, e già al primo colpo di pedali si insinua in noi una leggerezza nuova. Siamo liberi, irreperibili. Chi ha detto che partire e un po' morire? Qui la partenza è un'evasione, la strada una via di fuga. E noi siamo degli imboscati, dei banditi allegri. L'ansia evapora, la fretta pure. I motorizzati diventano marziani, l'auto un dinosauro, sgommare una demenza. Ce la faremo, bastano pochi metri per capirlo. La condizione non c'è? Chi se ne frega; verrà.

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Pagina 18

Quarto giorno. Risveglio lento, il Riesling della sera prima ha lasciato il segno. Il capo lo sa e ci fa trovare sul tavolo una colazione da duri, tè con grappa di albicocche, uova sode e pane nero. La pozione ci sballa, usciamo in un delizioso stato confusionale. Così succede quello che deve succedere. Sbagliamo a leggere la carta e ci perdiamo nel dedalo. Ma perdersi talvolta è utile. Così decidiamo di navigare a intuito verso nord-nord-est. Ed è proprio così che scopriamo il meglio della Slovenia: saliscendi tra querce e tigli secolari, abbazie, radure, vigne, campi di grano. Siamo completamente soli, cerbiatti e piccoli animali da pelliccia ci tagliano la strada. Il cielo è turchino, l'euforia ci scatena. Scendiamo come falchetti sull'acqua gagliarda della Mur e il confine con l'Austria.


Entriamo nel paese in cui i viaggiatori su due ruote hanno la cittadinanza onoraria. Lo capisci dai sorrisi al confine, negli alberghi, nelle Zimmer. Piste ciclabili ovunque, segnaletica perfetta. Le aziende di soggiorno ti danno la mappa dei punti di assistenza e in tutte le stazioni luccica un parco-bici. Guide di ogni tipo, persino carte al centomila, quelle giuste per leggere un territorio.

Iniziano le rampette della Weinstrasse, lungo il confine ungherese. Bighelloniamo tra i vigneti fino a sfiorare il surplace, assaporiamo la divinità della lentezza, la perfezione dell'immobilità.


Perché non posso fare la stessa cosa in Italia? Sogno di aspettare il mattino giusto, ai piedi dello Stelvio, con l'ultima neve di primavera, per salire a Cima Coppi e poi scendere tutto lo Stivale. Quale modo migliore di rivendicare l'accessibilità del mio paese proprio negli anni dello "spaesamento" e dello stupro del territorio? Le lucciole sono scomparse da trent'anni, ma gli italiani non se ne sono accorti, oppure ci hanno fatto l'abitudine. Corrono sempre, non vedono più nulla. Dio sa come siamo potuti essere un popolo di navigatori ed esploratori. All'italiano medio il viaggio lento fa ridere. È diventato roba da tedeschi.


Perché siamo così cambiati? Discutiamo che forse è colpa del monoteismo, che ha liquidato il rispetto delle foreste e delle sorgenti. E chissà che andare a nord non significhi ritrovare quelle divinità perdute. E se dipendesse tutto dal sangue latino? Sarà, ma intanto la Francia bandisce le auto e introduce le bici in trentacinque città. E a fine anno tutti i licei fanno una settimana sui pedali, professori compresi. Quanto agli spagnoli, saranno anche suonatori di mandolino e mangiatori di paella, ma in soli due anni sulle linee ferroviarie dismesse hanno fatto le vías verdes.

Fa caldo: su un colle, sotto un tiglio, ci togliamo le scarpe, la brezza ci entra in mezzo alle dita. Penso ai tedeschi che vengono in bici sulle nostre strade nonostante la minaccia dei Tir, anche se devono cercarsi impervie vie alternative. Li ho visti, un giorno, valicare gli Appennini sul Passo di Pradarena, il più sperduto e ripido che ci sia, con in corpo il miraggio del Mediterraneo. Ma perché dobbiamo rassegnarci al fatto che gli stranieri conoscano l'Italia meglio di noi? Perché so così poco del mio paese? Perché questo divorzio fra gli italiani e l'Italia, la nazione più "viaggiata" del mondo?

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CHIAMIAMOLO ORIENTE
Berlino-Istanbul in treno



Metti una sera d'inverno a Berlino, una locanda, una birra e una meta fantastica. Istanbul. Sul tavolo, una carta geografica con il percorso. Una linea vagabonda a cavallo dei Carpazi, fra isole chiamate Moravia, Galizia, Slovacchia, Transilvania, Moldavia, Bulgaria. Cent'anni fa quello era l'Oriente del "nostro" mondo. Oggi è solo Est, una sigla che marchia le periferie della politica e della mente. La mappa parla chiaro. Il Muro è caduto, ma un pezzo d'Europa si allontana da noi, va alla deriva in un labirinto di frontiere, secessioni, disastri bellici e ambientali. Lo stiamo perdendo. Il nostro mondo rimpicciolisce. Persino Trieste diventa un non luogo nella geografia mentale degli italiani.

La birra trema, è la U-Bahn, la metropolitana che sferraglia sotto la locanda. Penso che nessun check-in, nessun duty free mi farà entrare in quell'Europa profonda. L'aereo non avvicina un bel niente. Mi serve il treno. Ma non il calduccio di un Intercity: sarebbe come giudicare l'Italia dal Pendolino. Devo imbarcarmi su linee minori, sapendo che d'inverno il cuore del continente può diventare anche una Transiberiana, che è finito il tempo dell' Orient Express e delle romantiche donne inglesi.


Non e tacile partire da qui. Non c'è nessun capolinea. Ai tempi del Grande Freddo ce n'erano due, e non erano un fine-corsa qualsiasi. Erano le due facce della fine del mondo. A ovest la Zoologische Garten, a est la Östbahnhof. Oggi, senza più il Muro che li divide, i due terminal sono stati riconvertiti in stazioni di transito della stessa ferrovia. Una delle tante, come Tiergarten, Bellevue, Alexanderplatz. Fermate a singhiozzo lungo la Schnellbahn, la vecchia sopraelevata in mattoni che ricollega le due metà del pianeta.

Schnell vuoi dire veloce, ma la velocità non sta nei treni. Si concentra nelle stazioni: nella fretta con cui si sale e si scende, nel risucchio delle masse a ritmi da film muto. Berlino è un non luogo: nessun marciapiede per dirsi addio, nessuna pensilina dove ti senti arrivato, nessun cartello con la scritta "Benvenuti". Vicino al Reichstag cresce la nuova stazione centrale, ma il complesso da binario morto resta così forte che la metropoli ha quasi paura di ridiventare il grande fine-corsa della Germania. È come se smarrisse il centro di se stessa nell'esatto momento in cui si riscopre al centro d'Europa.


Berlino non è più quella del primo Wim Wenders. Ulrich Edel non potrebbe più girare il suo film sui "ragazzi dello zoo". Il mondo che gravitava attorno a quella mitica stazione è diventato un cronometro implacabile. Nell'atrio, il tabellone delle partenze non finisce mai, elenca quattrocentocinquanta treni al giorno. Immagini una stazione sterminata, e invece ecco la sorpresa. Sali alle banchine e trovi quattro binari. Pensi di aver sbagliato posto, torni indietro, chiedi dov'è lo zoo, e la gente ti dice che sì, è proprio quello. Allora capisci che sei nel più fantastico collo d'oca delle ferrovie d'Europa. Zoologische Garten inghiotte un treno ogni due minuti. Dunque tutto, intorno, è un meccanismo a orologeria. I ritardi non sono contemplati, manderebbero in tilt la Germania.

Ma non è solo la Germania che si ingolfa là dentro, è il mondo intero. I treni ingoiano fiumi di turchi, indonesiani, bengalesi. Con quella scansione implacabile, la stazione diventa l'allegoria di un paese che si sforza di assorbire i conflitti con l'efficienza della propria macchina. Ma è anche il luogo che svela la bollente demografia tedesca. Altro che Italia. I musulmani, per esempio, sono tantissimi. L'otto per cento della popolazione. Al binario 7 è in partenza per Monaco un treno di tifosi, giovanotti biondi con la sciarpa dell'Amburgo intonano cori: ma di tedesco non c'è altro. Il resto è Alien.


È l'ultima sera, si leva il vento, l'Altrove già ti chiama con il profumo di kebab dei ristoranti turchi di Kreuzberg. Che quartiere incredibile. Sei già a Istanbul, Baghdad. Nelle edicole i giornali italiani scarseggiano, ma quelli mediorientali ci sono tutti. E attraverso le vetrate dei call center vedi agitarsi nelle cabine fez marocchini, turbanti pakistani, fazzoletti grigi di donne anatoliche. Fuori c'è la coda, le telefonate si pagano in anticipo. Al minuto, fanno 0.58 marchi per il Marocco, 0.62 per l'Egitto, e il costo cresce con la miseria dei paesi.

Ad Amburgo l'esperienza è ancora più estrema. La parola di Allah può fulminarti a cinquecento metri dalla stazione centrale, sbucare fra prostitute e discoteche gay, inchiodarti davanti a un chiosco di frutta e verdura. Ieri, all'angolo tra viale Adenauer e Lindengasse, ho visto uscire una preghiera tra caschi di banane e un frigo di gelati. Mi chiamava in una porticina seminascosta, verso un corridoio, fino a un tramezzo con scarpe allineate. In fondo, nella penombra, tuonava l'imam degli afghani. Arringava il popolo esiliato, trapanava rabbioso il silenzio.

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Pagina 64

Notte boema. Continua a nevicare, un surreale carillon similsovietico scandisce il nome del luogo. Ústi nad Laben. Ha un suono sinistro. È come se ti dicesse: prova a scendere qui, straniero, dove non scenderebbe nessuno. Sullo sfondo, le luci di immensi impianti industriali. La piazza della stazione è piena di barboni e giovinastri incollati a macchinette mangiasoldi. Odore forte di gomma americana e zuppa troppo grassa, socialismo e mercato. Questa brava gente, dicono, ha costruito un muro attorno al campo nomadi, in periferia. Un bel ghetto, con gli zingari al posto degli ebrei. Da vedere assolutamente.

Scuoto un tassista dal suo torpore alcolico. Un albergo, prego. L'auto parte a razzo fra due file di casermoni tetri, dopo appena due chilometri si inchioda davanti a un piccolo hotel. Sessanta marchi, urla l'energumeno a motore acceso, sessantamila lire. Bell'inizio. Urlo a mia volta che non glieli do e accenno a uscire, ma le portiere sono bloccate. "Adesso ti riporto indietro e ti faremo capire cos'è il mercato," grida il tassista minaccioso. Quel salto al plurale è la cosa più allarmante. Significa che da qualche parte ci sono dei rinforzi. Cerco una resa onorevole, trenta marchi. Ci accordiamo per quaranta.

In albergo, una rossa alla reception spiega che ho avuto fortuna: "A Praga è anche peggio, qualcuno ha installato un impianto per dare la scossa sotto il culo ai passeggeri troppo fiscali. E la polizia è d'accordo". Viva il mercato! Chiedo gli orari dei treni e scopro che a est di Praga tutto diventa improbabile: tempi, regole, coincidenze, prenotazioni. In compenso, gli ottocento chilometri sino alla frontiera ucraina costeranno meno del taxi, quarantamila lire. Ci siamo, il viaggio comincia davvero.


Stazione di Praga, la neve è diventata pioggia, il palazzo presidenziale di Hradcany sbuca dal grigio. Vàclav Havel, murato là dentro, chissà come la vive questa sua Europa che perde se stessa. L'ho conosciuto a Pirano, in Istria, nel '95. Girava in jeans, esplorava il porticciolo e le calli senza scorta. Davanti a un bicchiere di malvasia, l'uomo venuto dalla periferia dell'Europa disse che l'Europa tutta era una periferia, un fantastico finis Terrae, la penisola del tramonto. Lo diceva persino l'etimologia: l'accadico Erebu, che vuol dire "calar del sole".

"Questo è il luogo," avevo annotato ascoltandolo, "dove le identità si addensano e non hanno alternativa fra la guerra e la coabitazione, fra l'autodistruggersi e l'essere spazio unitario di spirito e di civiltà. L'Europa è un arcipelago, con le diversità interrelate al punto che l'assenza di una sola di esse provocherebbe un crollo globale. Uno stomaco capace di digerire popoli e culture, senza farne mai un meticciato informe."

Piazza Venceslao, fra orde di turisti e imbroglioni. Bevo un tè troppo zuccherato, mi aggrappo a un venditore di ombrelli. Pare l'unica persona viva in un esercito di replicanti. È moldavo, si segna con la croce parlando della sua terra. Ecco, già voglio scappare. Dov'è l'Europa? Non qui. Questo postaccio fa orrore. Devo cercare a oriente. E se ha ragione Havel, se davvero l'Europa è il luogo dove i popoli si addensano, allora anche i muezzin di Sarajevo sono Europa, anche i monasteri sui monti della Moldavia, anche i villaggi sperduti degli ebrei bielorussi, anche il fulvo microcosmo oltre i Tatra. Anche Istanbul.

Ma certo, il fulgore della sera contenuto nel nome "Europa" non è una metafora di morte, decadenza. È solo un invito alla quiete, alla meditazione, dopo la frenesia del giorno. Questo nostro vecchio mondo non sente più la grandiosità unificante del suo mito fondativo. Forse per questo l'Unione già rischia di perdere pezzi a pochi anni dalla caduta del Muro. Brancola come il gigante d'argilla costruito da un rabbino in una soffitta della vecchia Praga.


Compro dei panini da un ambulante alla stazione, riparto sotto un cielo basso. Il treno scava verso est, si affianca nuovamente all'Elba, entra in foreste fitte finché il paesaggio si distende di nuovo, annuncia gli spazi del Nord. È la Moravia, grandiosa terra di mezzo. Da qui vennero i nonni della mia nonna materna. Il vecchio nacque a Friedental, un posto minuscolo che oggi ha cambiato nome. Poi emigrò a Trieste, divenne ingegnere navale dell'imperatore e morì a Lissa nel 1866, abbattuto da una cannonata della flotta italiana.

Riprende a nevicare senza vento, poi il treno si ferma di nuovo. "Olomouc", leggo a malapena il nome sopra la stazione. Un posto fuori dal tempo, il nome mi incuriosisce. Scendo, prenderò il prossimo treno, tanto per Cracovia c'è tempo. Fuori, la sorpresa. Riecco l'Europa che cerco: un labirinto di viottoli in selciato, turisti zero, gli inequivocabili segni dell'identità ebraica e tedesca accanto a quella ceca. Il traffico è bloccato, anche i tram sono fermi, e nemmeno i miei passi fanno rumore mentre scendo in piazza Dolni, verso la fontana barocca coperta di bianchi pinnacoli.


Mi perdo fra taverne e caffè, vado a scaldarmi in un museo, mi innamoro di una donna in nero con boa di struzzo, dipinta nel 1907 da Oskar Heller. Occhi straordinari. E poi la contadina nuda di Alja Beran. La coscia sinistra, fredda e grigioazzurra, esprime tutta la nostalgia dei colori che cova in questo mondo in bianco e nero popolato di chiese, priorati, canoniche e campanili.

Al caffè Palác, una cameriera pallidissima dai capelli corvini mi porta una birra offrendomi del vischio con un sorriso. Ricordo tutte le cameriere che mi hanno servito una birra in allegria. Una in particolare, a Danzica, fine anni ottanta. In una città dove non sorrideva nessuno, lei rideva come una matta. Occhi azzurrissimi. Bionda, magra e forte.


Una volta, nelle valli attorno a Olomouc, le notti d'inverno erano così luminose anche senza luna che si poteva leggere alla luce delle stelle. Milioni di stelle. Me lo raccontò Frida, una morava di lingua tedesca. A Trieste fu lei, ottantenne, a parlarmi di quel mondo perduto. Negli anni della guerra dei Balcani prendevo lezioni di tedesco a casa sua, in una stradina della città vecchia. Era malata, si muoveva a fatica, ma era la donna più straordinaria che abbia conosciuto in vita mia. Non viaggiava mai, eppure ogni sua lezione era un viaggio favoloso. Era il simbolo perfetto della città multinazionale che amavo.

Ah, le stelle di Olomouc... "Sternenlicht," disse, con gli occhi pieni di luce, quasi masticando quella parola detta nella nostra comune lingua franca, e raccontò dei ragazzini che andavano a scuola pattinando sui canali gelati nella semioscurità dell'alba. È morta da anni, lasciando un vuoto tale che i suoi allievi si sono ritrovati una setta semiclandestina di orfani. Chiedeva cifre irrisorie, riteneva che un buon insegnante non dovesse chiedere all'ora più del prezzo di un chilo di pane buono. Cercavo di ricambiare in altri modi, per esempio raccontandole in pessimo tedesco i miei viaggi nella Iugoslavia in frantumi.

Sul comò accanto al tavolo teneva un vecchio coniglietto di pezza, moravo anch'esso. Era il suo feticcio, ma anche uno strumento di comunicazione nel rapporto con gli allievi. Quando non poteva rampognarci direttamente, si lamentava con il coniglio. Un giorno, poiché insistevo oltre il lecito a voler tradurre un pezzo di Brecht, di cui non capivo il significato scabroso, si girò dalla parte di Codacorta (così lo chiamava) e mi diede una lezione. "Insomma," gli disse, "spiegalo tu a questo signore che Brecht è Brecht. E io sono una signora." ("Brecht ist Brecht, und ich bin eine Dame.")

Era lei la mia Europa.


Rollio, letargo, foreste, neve. Sembra di essere lontani da tutto, e invece la carta ferroviaria — la fedele Thomas Cook dalla copertina rosso fuoco — rivela che il centro del Centro Europa si sta avvicinando. A Petrovice, bivio per la Slovacchia e la Polonia, passano i treni fra Vienna e Varsavia. Gli stessi binari gelati portano in Siberia, ad Auschwitz e alla Madonna Nera di Czestochowa. Al grande vuoto tedesco si sostituisce un pieno, un vortice in cui soffia forte la storia.

Oltre i finestrini, scorre un mondo dove tutto sembra accaduto l'altroieri, dove la storia ha l'impronta indelebile dei cingoli di un panzer, dove i treni merci hanno ancora l'odore di bestiame umano e i capannoni il colore dei gulag. Noi europei d'Occidente non possiamo immaginare che nel Centro Europa le memorie brucino anche per mezzo millennio. I boemi ricordano la battaglia della Montagna Bianca, i serbi quella di Kosovo Polje, gli ungheresi Mohàcs. Non vittorie ma disfatte, sulle quali costruire risentimenti e rivendicazioni.

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CAPOLINEA BISANZIO
Regioni adriatiche in auto



È qui che vedi la grande fuga da Oriente. È il posto migliore. Non serve andare a Otranto e aspettare le carrette del mare. Basta venire a Gorizia centro, e attendere che le prime ombre comincino a volare oltre la grande muraglia della Fortezza Europa. Quel muro, qui, è una rete ridicola alta un metro e mezzo. Una cancellata quasi, che taglia in due la piazza di una vecchia stazione ferroviaria. Fra il Baltico e lo Ionio non esiste niente di simile. In un luogo dove i residenti devono mostrare i documenti dieci volte al giorno solo per spostarsi da un rione all'altro, i clandestini vanno e vengono a piacimento. Un salto e via.


Confine colabrodo? Sbagliato: Gorizia è un imbuto. Smette di piovere per un po' e vedo passare le prime ombre. Una lascia un pezzo di giacca scura sulla recinzione. La rete di Schengen è piena di brandelli di identità perdute, finite nel tritacarne che sradica e ti perde. In venti metri trovo: una ciocca di capelli, la scarpa di una bambina numero ventidue, un lembo di camicia, un fazzoletto da donna, un biberon, due calze di lana fradicie tra le foglie gialle, un soldatino di plastica. Mancano solo le sigarette: questo è un posto dove nessuno si ferma. Un chilometro oltre, al piccolo confine rurale del Rafut, c'è persino un albero trasformato in spogliatoio. Un noce robusto, con le radici ricoperte di indumenti. Ricorda Pinocchio, la sua notte di fuga, il grande imbroglio della vita.


Una donna passa un bambino in fasce a quelli che sono già dall'altra parte. Turchi d'aspetto, forse curdi. Il gruppo si nasconde accanto a un muro, dietro a un arbusto. La donna scavalca la rete, cambia il pannolino al bambino. Il piccolo non piange, lei sì. Disperata. Un uomo la fa tacere bruscamente. I cani nelle villette italiane abbaiano, fiutano l'adrenalina. Ma che importa, la polizia non c'è. È sommersa dagli arrivi, travolta dall'enormità del problema umanitario. Hanno il cuore tenero, gli agenti. Fanno i baby-sitter, gli assistenti sociali, gli ufficiali anagrafici. "Lo stato ci chiede durezza," dicono, "ma quando sei davanti a venti bambini, cosa fai? spari?"


Passa un'auto della polizia. Subito dopo, un'altra decina di ombre sbucano dalla pioggia. Seguono meccanicamente le istruzioni ricevute. Cercano sulla rete un punto segnato da un pezzo di tessuto giallino, poi saltano nel buio. Ora piove a dirotto, ma loro non se ne curano: almeno qui non si annega, non ti buttano giù dai gommoni. Si lasciano dietro una scia di odore forte, i cani ridiventano nervosi. Appena oltre, si tolgono di tasca un pezzo di carta — la spremni list, il foglio di riconoscimento sloveno — e lo strappano in mille pezzi per distruggere la loro identità. Centro metri oltre c'è un tale che li aspetta con un sacco pieno di vestiti nuovi. Raccolgo i coriandoli bianchi, leggo brandelli di nomi persiani, forse iracheni.


Il signor Roberto Rosso, un pezzo duomo, abita in una villetta in prima linea, di fronte alla vecchia stazione. La rete se l'aggiusta da sé; tanto, il Genio Civile non viene mai. E quando becca dei disperati in fuga, magari li nutre, li cura. Poi chiama la polizia. "Mi sono reso conto che il vero aiuto è il 113. Per loro è meglio. Almeno si rifocillano." E poi, hanno quel foglio di via che consente di restare in Italia altri quindici giorni, e magari di filarsela in altre terre di Eurolandia, per ripresentarsi davanti a un'altra polizia, di nuovo senza identità. "Li sento passare ogni notte, quando Arturo abbaia." Non ha mai paura? "No, ma ansia sì. Sento che questa cosa ci cambierà, che tutto cambierà. Guardo i miei figli e temo che domani di quello che hanno seminato i nostri padri non resterà più niente."


A un tratto un rombo riempie la notte, fa tacere anche i cani. Viene da dovunque, sovrasta la pioggia, i fulmini, i sacrari della Grande Guerra, la chiesa di Monte Santo sospesa a mezz'aria sulla piccola Berlino tagliata in due dalla frontiera che la divide dall'emisfero ex comunista. Sono i bombardieri della Nato in volo verso la Iugoslavia. Per Gorizia l'Italia entrò in guerra, perse centinaia di migliaia di vite. Oggi gli italiani non sanno più collocarla sulla mappa. E con il temporale e i bombardieri che passano in formazione oltre le nubi, la città dimezzata, costellata di luci fioche, attraversata da ombre senza nome, pare un'unica, triste, silenziosa terra di nessuno.

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Pagina 152

Ti avvicini al finis Terrae, e ti appare sempre più chiaro che è proprio quell'Oriente a dare il senso più pieno alla peninsularità italiana. Forse tutto è molto semplice: l'Adriatico è il luogo dove "l'altro" è più vicino. Chi c'è oltre? È una domanda che su questo mare accende il tuo immaginario dalla nascita, fin dal tuo primo contatto con la linea di costa.

Un barese, Danilo Capasso, sa evocare con parole suggestive gli spazi della Grande Russia, i monasteri sul Lago Bajkal, i silenzi siberiani. Anche la Fiera del Levante di Bari è figlia dell'idea che dall'altra parte "vale la pena andare". Da questa idea nasce un'appartenenza forte al punto che, sulle coste italiane, l'adriaticità prevale sulla latitudine, avvicina Nord e Sud assai meglio del Tirreno. Di certo, in Puglia conta più della meridionalità. A Bari c'è più Trieste che Reggio Calabria: e cosa se non l'anima "levantina" può accomunare il porto del Tavoliere a quello della Mitteleuropa?


Prova a guardare dal Gargano la retta infinita che divide il verde dell'Adriatico dal giallo andaluso del Tavoliere. Indica l'oriente. Solo a quel punto ti accorgi che lo Stivale s'inclina, che la Puglia non è affatto Sud ma guarda a settentrione. L'Adriatico è il Mare del Nord. I latini lo chiamavano superum, mentre il Tirreno era inferum, meridionale. Se dal Gargano tiri una linea verso ovest, incontri la Catalogna, profondo Nord della dirimpettaia Spagna. La prova? Parti dallo sperone del Gargano e tira giù dritto a sud lungo il sedicesimo meridiano. Non troverai il tacco volto a oriente. Troverai la punta dello Stivale. La Calabria. Tra Ionio e Tirreno.


Undicesima notte. Gli aerei dalla base Nato di Gioia del Colle decollano ogni dieci minuti, passano in accelerazione sopra Alberobello, martellano le colline dei trulli. "E una guerra che va oltre la comprensione della gente," commenta Giovanna Gioia del movimento pacifista della Pax Christi, a Putignano. "Prima non capivamo cosa succedeva oltremare, oggi non comprendiamo nemmeno cosa succede da noi," aggiunge. E racconta di una forte mobilitazione umanitaria che rischia di diventare disorientamento collettivo.

Manca una spiegazione, ma manca anche l'organizzazione. La Puglia si sente comunque un po' sola di fronte all'emergenza. Grazia Rita Pignatelli lavora per il Coordinamento Rifugiati e spiega la difficoltà di gestire un campo profughi come quello di Bari-Palese. Non sono solo le roulotte, che di giorno diventano fornaci, messe lì sull'asfalto. Non è nemmeno il caotico sovrapporsi delle iniziative. È la gabbia burocratica che complica le cose più semplici. Tira vento, l'auto cerca la fine del mondo su strade rettilinee tipo Arizona.


Sul Tavoliere esplode l'ultimo tramonto — giallo, desertico — e in fondo si spalanca il baratro dei Sassi di Matera. È il tuffo al cuore, il miracolo di un Golgota e di un Getsemani fusi in un unico paesaggio. Prendi i pinnacoli sforacchiati della Cappadocia, avvicinali, riempili di vita e fanne una città. Sopra, mettici chiese barocche capaci di trasfigurare quel termitaio, di governare quel mondo pagano di grotte e di acque. Al vespro, dentro il duomo, è Spagna cattolica profonda. Luccicanti ex voto, fruscio di ventagli, mormorio di litanie. Ma è solo apparenza. Dietro la Madonna del Granato c'è ancora Demetra, lo spirito del melograno, la dea madre del Mediterraneo.

L'ombra sale tra i muretti a secco, gli anfratti, i capperi rampicanti, le grotte. In attesa dell'Invisibile Armata diretta oltremare, i falchetti del Tavoliere invadono il cielo. Poi escono i pipistrelli, e la luna, spuntando dalla parte di Taranto, inonda i macabri bassorilievi barocchi della chiesa del Purgatorio. Sono scheletri di papi, notai e contadini che si contorcono gridando a Dio l'eguaglianza degli uomini. Eguaglianza solo in morte, perché il vescovo Lanfranco viveva da solo in seimila metri quadrati. E poco più in là — nelle grotte dei Sassi — si stava in quindici in trenta metri quadri, con il maiale e le galline.

La brezza appenninica investe quel presepe franoso e popolato di lumini, raffredda le rocce dell'altopiano, ne cava un lamento soprannaturale.

Tramonta la luna sul Salento, il tacco d'Italia. La radio dice che anche stanotte, tra il faro di Sant'Andrea e quello di Otranto, sono arrivati scafisti con i clandestini dell'altro mondo. Ottanta, forse cento. L'auto vibra nel vento forte in mezzo alle ombre delle vigne chiamate Negramaro. Il Salento non ha montagne, scirocco e tramontana lo spazzano brutalmente. È piatto come una zattera, e quella piattezza dice che ogni chiusura è insensata, che non c'è arroccamento che tenga. Anche davanti agli uomini. Termina la dodicesima notte, l'ultima. Davanti a Otranto si alzano le stelle dai monti d'Albania. In un luogo dove la terra finisce, di fronte all'Altro che sbarca non c'è difesa e non c'è alternativa all'accoglienza. Eppure il contatto con l'Oriente è stato, a volte, terribile.

Entro a piedi nella fortezza, salgo fino alla cattedrale che conserva, accatastati in otto macabre teche, gli ottocento teschi degli uomini uccisi dai turchi di Ahmet Pascià dopo l'assedio, alla fine del Quattrocento. Su reminiscenze analoghe — a Nis, in Iugoslavia, c'è una grande torre dei teschi — i cristiani d'Oriente costruiscono martirologi, miti e vendette. Qui è andata diversamente. Nella stessa cattedrale degli ottocento Martiri, c'è anche l'immenso mosaico di un albero della vita con il tronco piantato in Roma e le fronde protese verso Gerusalemme. Da otto secoli quella pianta mostra agli italiani, verso il Levante, la terra del destino.

primavera 1999

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