Copertina
Autore Guido Ruotolo
CoautoreVincenzo Vasile
Titolo Milano - Cairo. Viaggio senza ritorno
SottotitoloL'Imam rapito in Italia dalla CIA. Le rivelazioni del kamikaze pentito
EdizioneTullio Pironti, Napoli, 2005 , pag. 264, cop.fle., dim. 140x210x18 mm , Isbn 978-88-7937-359-3
LettoreLuca Vita, 2006
Classe politica , paesi: Italia: 2000 , diritto , gialli
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice

Introduzione, di Guido Ruotolo e Vincenzo Vasile           7

PRIMA PARTE
SEQUESTRO DI UN RECLUTATORE

I.   Quel 17 Febbraio a Milano (Chiara Nobili)            15
II.  "Ma il Computer l'hanno toccato?" (Guido Salvini)    19
III. Forcible Abduction, cioé sequestro (Guido Salvini)   27
IV.  Chi è Abu Omar (Guido Salvini)                       34
V.   Germania, Kurdistan, Cairo, Milano, Cremona...
     (Ferdinando Pomarici-Armando Spataro)                44
VI.  Scene di un rapimento (Chiara Nobili)                78
VII. Le relazioni pericolose di Abu Omar,
     reclutatore (Guido Salvini)                          87
VIII.Il mistero della base di Aviano (Chiara Nobili)     122
IX.  I Testi Sacri di Abu Omar (Armando Spataro)         136
X.   Missione a cinque stelle (Armando Spataro)          143
XI.  Il fine giustifica i mezzi?
     (Ferdinando Pomarici- Armando Spataro)              161
XII. Arrestate quegli agenti della Cia (Armando Spataro) 163
XIII.L'ambasciata USA sapeva. Anzi partecipava           170

SECONDA PARTE
AUTORITRATTO DI UN KAMIKAZE MANCATO


(Dalla perizia psichiatrica su Riadh Jelassi
di Nico Zanovello)

I.   Non un bacio, non una carezza                       209
II.  Tunisi, Mazara del Vallo, Milano                    217
III. L'imam della moschea di viale Jenner                230
IV.  La vita spiegata dagli imam                         242
V.   L'inferno e la puntura di zanzara                   247
VI.  Lavaggio del cervello                               250
VII. Le mani sudate del terrorista pentito               256

 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 7

INTRODUZIONE



In questo libro parliamo di incubi. Di un incubo in particolare. Dove si vede gente che si fa saltare in aria su una bomba. Gente che si uccide e uccide altra gente in nome di dio. Gente come noi, a volte cambia il colore della pelle, il taglio degli occhi, a volte no. Ci dicono che dobbiamo stare attenti a frequentare luoghi affollati. Che dobbiamo vigilare. Sospettare. Di tutti. Soprattutto di loro. Di quelli con il colore della pelle un po' diverso dal nostro, quelli con gli occhi un po' così. Oltre al costo terribile in vite umane c'è questo prezzo quotidiano, ansiogeno e intollerante, che si paga all'attacco terroristico sferrato contro l'Europa. A Londra è bastato che il "sospetto" portasse un cappotto d'estate perché il terrorismo facesse un'altra vittima, stavolta senza bisogno di kamikaze, ma semplicemente per il grilletto facile di un poliziotto. Da noi in Italia qualche pericoloso idiota ha proposto e fatto passare una norma che vieta severamente alle donne musulmane di vestirsi come si vestono le donne musulmane: dobbiamo vigilare, sospettare. Di tutti. Ma soprattutto di loro. Quelli con la barba, quelli con la tunica bianca, ma a volte portano i jeans, a volte no. Un incubo, un film dell'orrore, pieno di truculenti effetti speciali.

Ma questo nostro libro contiene anche un racconto che sembra la trama di un altro film, un film di azione. C'è un furgone bianco in sosta. Passa un uomo con la lunga barba e la palandrana bianca dei musulmani. Dal furgone saltano giù in due, gli chiedono i documenti. È lui, è un egiziano di Alessandria, si chiama Abu Omar, quelli lo impacchettano e lo portano lontano ìn un aeroporto militare. Da lì l'uomo con la lunga barba viene portato in Egitto, dopo una tappa intermedia in Germania. Lo interrogano, lo torturano... Gli chiedono di "collaborare", di diventare anche lui una spia, come quelli che l'hanno rapito. Lui accetta. Fa finta di accettare. Telefona alla moglie che è rimasta ad aspettarlo a casa. La sua casa da qualche anno è qui da noi, in Italia, a Milano. E lui è preoccupato che la polizia non tocchi il suo computer. Che c'è di così segreto nella memoria di quel computer? E chi sono quegli uomini che hanno rapito Abu Omar? Si tratta di agenti segreti americani? Di uomini della Cia? E come mai essi hanno rapito un uomo in una strada di Milano? Possono fare quel che vogliono gli americani in Italia?

E c'è anche, in questo nostro libro, la confessione di un kamikaze mancato. Confessione privata, intima, inquietante di un giovane tunisino di 35 anni, fatta a un perito psichiatra che lo esamina, per capire se si può prestare fede alle sue rivelazioni. Il giovane si chiama Riadh Jelassi. Dice che negli ambienti della moschea che era frequentata da quell'altro uomo, quello con la barba lunga, quell'Abu Omar che fu rapito dalle spie americane, non l'hanno solo indottrinato sul Corano e sulla guerra di civiltà. Ma gli hanno anche raccontato una favola a metà tra una narrazione mitologica e un libro porno. Il paradiso - gli hanno detto - per i martiri della guerra santa è popolato da settantadue vergini che stanno lì ad aspettare che tu ti faccia saltare in aria portando morte attorno a te tra i nemici di dio. E loro, le vergini andranno in deliquio davanti alla beltà del nuovo martire, e pronunceranno parole sconce e proibite per eccitarlo. Gli hanno descritto la carnagione, i seni all'in su, le voci flautate, le parole oscene di quelle vergini. Gli hanno detto che ha tutto il tempo, migliaia di anni, per possederle a turno. Anzi hanno usato una di quelle parole che non si dovrebbero pronunciare, ma che un futuro martire può dire: scopare. Per ora, prima del paradiso, dovrà rinunciare alle donne, consegnare il suo denaro agli "sceicchi". Poi, dopo la morte, sarà tutta un'altra vita. Tutto questo è scritto nella perizia psichiatrica che riguarda lo stato mentale di uno che al momento giusto non ce l'ha fatta, non ha creduto più alla favola delle vergini disponibili, e adesso "collabora".

Tutto questo è avvenuto a Milano. Non in una città orientale. In via Guerzoni. Non a Guantanamo. E le parole che leggerete non sono tratte da una sceneggiatura, ma vengono da incartamenti giudiziari e rapporti di polizia, sono il frutto dello sforzo di indagine e di verità di investigatori e magistrati italiani. Il sequestro di Abu Omar, avvenuto a Milano attorno a mezzogiorno del 17 febbraio 2003, è stato innanzitutto una gravissima violazione della nostra sovranità nazionale. Non ci sarebbe bisogno di sprecare parole. Ma se questa trama non fosse tragica e violenta si potrebbe anche sorridere alla lettura del comunicato stampa che su questa e altre vicende analoghe è stato sfornato il primo luglio 2005 dalla nostra presidenza del Consiglio. Nella nota è scritto che "il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ha ricevuto nel pomeriggio l'Ambasciatore degli Stati Uniti, Mel Sembler, al quale ha rappresentato l'indispensabile esigenza del pieno rispetto della sovranità italiana da parte degli Stati Uniti. L'ambasciatore Sembler, a nome del suo governo, ha ribadito che questo rispetto è pieno e totale e non verrà meno in futuro. Proprio su tali basi di reciproco rispetto, è stato infine sottolineato, si fonda la profonda, stretta e duratura alleanza tra gli Stati Uniti e l'Italia".

Reciproco rispetto, pieno e totale... I magistrati che hanno indagato e ancora indagano sul sequestro dell'imam di Milano nutrono qualche legittimo e corposo dubbio su tale "rispetto". E infatti con il procedere delle indagini salta fuori una complicità di vertice. Tra i ricercati c'è anche un diplomatico, il secondo segretario dell'ambasciata americana di via Veneto. Betnie Medero, 38 anni, dal 2001 a Roma, è svanita nel nulla. Trasferita tempestivamente a città del Messico.

I magistrati hanno scritto nero su bianco, che oltre alla violazione del diritto internazionale e del nostro codice penale di cui si sono macchiati gli agenti della Cia, c'è stato anche un effetto gravissimo della loro iniziativa. Infatti il sequestro dell'imam di Milano è anche – sostengono – un ostacolo e un intoppo alle indagini che stavano portando alla scoperta di una rete pericolosa, quanto meno fiancheggiatrice del terrorismo islamico. Abu Omar è accusato dai magistrati italiani di avere occultato dietro il suo ruolo di "imam", cioè di autorità religiosa, un'attività ben diversa, quella di reclutatore di terroristi. Con ciò i magistrati hanno replicato alla vulgata che si cercava di diffondere anche da fonti ufficiali: l'"operazione coperta" della Cia sarebbe stata il prezzo da pagare alla gravità della situazione. Certo: una violazione delle regole, ma in qualche modo perdonabile, un errore veniale compiuto a fin di bene. È quanto si legge in un rapporto informativo redatto dai Ros dei Carabinieri il 29 luglio 2004, allegato all'incartamento che pubblichiamo: "L'azione delittuosa aveva nelle intenzioni di chi l'ha posta in essere la finalità di neutralizzare uno dei maggiori esponenti dello jihadismo militante". Insomma, s'è trattato di una scorciatoia spregiudicata, all'americana, ma efficace... Invece, la verità è un'altra: l'obiettivo era quello di portarlo a forza in Egitto e di convincerlo a "collaborare". Per questo Abu Omar doveva essere sottratto alla giustizia italiana, che si interessava da tempo alle sue attività, che stava per incastrarlo. E ha perso tempo utile, e non ha più sotto mano l'imputato, cui vorrebbe fare molte domande, che tornerebbero utili nella battaglia contro il terrorismo internazionale.

Puntuale è spuntata l'ombra del mistero, anzi del depistaggio: la Cia all'indomani del rapimento fa sapere agli italiani che Abu Omar non è stato rapito, bensì se ne è andato nei Balcani a combattere. Menzogna. Ma passano quattordici mesi e l'inchiesta langue. A via Conte Verde, dov'è la casa di Abu Omar, la moglie risponde un giorno al telefono: conversa, intercettata, proprio con il marito, che le racconta del sequestro e delle torture. Ormai il pullulare dei telefoni cellulari dovrebbe rendere certe indagini semplicissime: basterebbe a questo punto chiedere al gestore della rete telefonica i tabulati del traffico sulla "cella" che corrisponde all'area del rapimento, a cominciare da via Guerzoni. Però per un banale errore invece di richiedere le telefonate del 17 febbraio la Procura chiede i tabulati del 17 marzo. E si perde tempo prezioso. L'episodio è stato rinfacciato al pm milanese dell'epoca, Stefano Dambruoso, oggi all'ufficio Onu di Vienna per la lotta al terrorismo e al traffico di droga, e il magistrato risponde ai veleni rivendicando la successiva correzione dell'errore della Procura e il conseguente decreto che ha portato all'identificazione dei titolari delle schede utilizzate dai sequestratori. È sicuramente vero che comunque sono state la Procura e la Digos di Milano a portare avanti con determinazione un'inchiesta difficile e delicata – basti pensare al lavoro certosino di raffronto dei tabulati telefonici, gli accertamenti negli hotel che hanno ospitato le spie, le indagini sugli aerei, condotte dal pm Spataro e dalla Polizia di frontiera – che tutti i giornali americani hanno definito frutto dell'indipendenza del pubblico ministero italiano e del fatto che in Italia la Polizia giudiziaria è diretta dal pubblico ministero e non dall'esecutivo. Un giornalista premio Pulitzer ha dichiarato che, anzi, l'inchiesta dovrebbe essere di esempio ai magistrati e ai poliziotti americani.

Ma loro, le spie, hanno fatto come il Pollicino della favola. Forse sono così sicuri di sé e della loro impunità da lasciarsi dietro abbondantissime tracce: conti (milionari) pagati con carte di credito in albergo e nei ristoranti, noleggi di automobili, telefonate, firme, tante firme. Oppure si tratta di una squadra di serie C, cui l'operazione è stata data in appalto dalla Cia? Nell'un caso o nell'altro, l'Italia viene considerata dagli alleati americani come un paese del terzo mondo riguardo alle modalità in cui nel nostro territorio si svolgono le cosiddette "operazioni coperte".

Hanno fatto, comunque, quel che hanno voluto. Un trattamento che viene riservato al nostro Paese da un governo "alleato", che è lo stesso che in Iraq al momento della liberazione della giornalista Giuliana Sgrena sparerà all'agente italiano Nicola Calipari, e gli muoverà la (falsa) accusa di non avere avvertito - lui - le autorità degli Usa della sua missione a Baghdad. A Milano le autorità italiane erano state forse avvertite del sequestro in programma? E, se sì, quali autorità?

Hanno fatto tutto quel che hanno voluto. Ma hanno agito da soli gli agenti della Cia? Avevano complici italiani? Alcune inchieste giornalistiche e alcuni "007" della Cia in pensione confermano che gli italiani – alcuni uffici o settori dei "servizi" italiani, e quindi il governo – sapevano del rapimento in preparazione. Anzi, secondo fonti di "intelligence" non solo sapevano, ma avevano partecipato alla fase preparatoria del sequestro con tanto di "simulazione" compiuta nelle stesse strade milanesi dove poi sarebbe stato "catturato" Abu Omar. Il governo italiano continua, invece, a negare, e l'ultima smentita viene dal sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, con delega ai "servizi", Gianni Letta, che ha riferito davanti al Comitato parlamentare di controllo. Anche in questo angolo scuro scrutano le indagini della Procura di Milano, che ha per ora il suo daffare nel cercare di ricostruire le vere identità degli agenti sotto copertura della Cia che parteciparono alla "missione". Alcuni nomi ricavati dall'analisi delle schede telefoniche e dei conti alberghieri sono veri, corrispondono a persone in carne e ossa. Altri potrebbero essere nomi di fantasia. Poi ci sono le schede senza intestazione. Chi le usava? I "complici" italiani?

Il coordinatore era l'ex capo della Cia di Milano, Bob Lady, che per un certo periodo si è ritirato apparentemente in pensione in un casale di sua proprietà in provincia di Asti. Quando è venuto fuori il suo nome, è sparito. E le autorità americane – possiamo già darlo per scontato - non collaboreranno con la magistratura italiana, si rifiuteranno di consegnare i ricercati. Perchè di questo si tratta. L'Italia non è in guerra; e il nostro territorio non è teatro di guerra. Qui vige la nostra Costituzione, secondo la quale il Parlamento fa le leggi e i giudici devono applicarle. E le leggi sono eguali per tutti: per il nostro codice penale quello che è avvenuto a Milano il 17 febbraio 2003 è, per l'appunto, semplicemente un "sequestro di persona", e altre gravi imputazioni si potrebbero aggiungere se con una perizia medica venissero provate le lesioni, con danni permanenti all'udito e alla deambulazione, che Abu Omar sostiene di avere subito in Egitto. Come a Guantanamo, come ad Abu Ghraib. Che sono un incubo distante da noi, e devono rimanere per noi un brutto sogno, remoto, nella notte cupa che avvolge le notti oltre l'Oceano.

Ma l'Egitto non è poi così lontano. Anche l'Egitto è nel mirino dell'offensiva algaedista, come ci ricorda la strage del luglio 2005 a Sharm el Sheik, dove vi furono anche vittime italiane. È uno dei cosiddetti paesi arabi "moderati", ritenuti amici dell'Occidente. Eppure in questa vicenda sta dalla parte del torto, detiene illegalmente Abu Omar, che viene sottoposto a torture. Adesso non fornisce risposta alle ripetute richieste di informazione della Procura di Milano. Un muro di gomma. Uno Stato complice di un sequestro di persona.

Questa storia da incubo, di grandi violenze inferte agli uomini e alle leggi, nel nome di dio e della ragione di Stato – dello Stato più forte che pretende di prevalere sull'alleato più debole – non è certamente finita. Questa storia non è completa. Non finisce qui... Ma questo non significa che non valga la pena cominciare a raccontarla.

| << |  <  |