Autore Lucio Russo
Titolo Stelle, atomi e velieri
SottotitoloPercorsi di storia della scienza
EdizioneMondadori, Milano, 2015, Università , pag. 246, ill., cop.fle., dim. 17x24x1,5 cm , Isbn 978-88-6184-357-8
LettoreCorrado Leonardo, 2015
Classe storia della scienza












 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


Introduzione                                                          1

    Capitolo 1. Uno schema cronologico                                3

1.1 Dalla preistoria alle grandi civiltà urbane                       3
1.2 La Grecia nel periodo ellenico (600 a.C.-331 a.C.)                5
1.3 L'età d'oro della scienza ellenistica (331 a.C.-145 a.C.)         6
1.4 L'antica sconfitta della scienza (145 a.C.-415 d.C.)              8
1.5 Alterne vicende (415-1400)                                        9
1.6 Rinascimento e rinascita scientifica (1400-1670)                 11
1.7 Lo sviluppo della scienza europea (1670-1942)                    12
1.8 La scienza contemporanea (dal 1942 a oggi)                       15

    Capitolo 2. Forma e dimensioni della Terra                       19

2.1 Dalle idee arcaiche alla scoperta della sfericità                19
2.2 Eratostene prende le misure alla Terra                           20
2.3 Degrado e parziale recupero delle conoscenze                     22
2.4 Una conoscenza fossile ritorna in vita                           23
2.5 Oltre la sfericità                                               24
2.6 Si forma il mito della Terra piatta                              26

    Capitolo 3. Geografia matematica e cartografia                   31

3.1 Dalle prime carte alla geografia matematica ellenistica          31
3.2 Il crollo delle conoscenze geografiche                           33
3.3 La Geographia di Tolomeo                                         35
3.4 Geografia matematica e cartografia islamiche                     37
3.5 Le carte medievali e la riscoperta di Tolomeo                    38
3.6 Il problema risolto dalla proiezione del Mercatore               40
3.7 Cartografia e matematica                                         43
3.8 Sviluppi moderni e recenti                                       45

    Capitolo 4. Moti della Terra                                     51

4.1 La scoperta dei moti della Terra                                 51
4.2 L'antico abbandono dell'eliocentrismo                            53
4.3 La «rivoluzione copernicana»                                     54
4.4 L'orbita della Terra si precisa                                  57
4.5 Come avvenne l'emarginazione di Aristarco                        58

    Capitolo 5. Moto dei gravi                                       63

5.1 Il moto dei gravi secondo Aristotele                             63
5.2 Dal periodo ellenistico al Medioevo                              64
5.3 Si cerca la forma della traiettoria                              66
5.4 La legge oraria del moto di caduta libera                        70
5.5 La forma della traiettoria viene trovata                         71
5.6 Dopo l'apparente soluzione del problema                          74

    Capitolo 6. Gravitazione                                         77

6.1 Dalle idee arcaiche alla teoria policentrica                     77
6.2 Dalla teoria policentrica all'interazione tra corpi              79
6.3 L'antica teoria delle maree                                      82
6.4 Conoscenze fossili ritornano in vita                             85
6.5 La legge di gravitazione universale                              91
6.6 Dopo Newton                                                      93

    Capitolo 7. Scienza e navigazione                                99

7.1 Gli stimoli dati dalla navigazione alla scienza antica           99
7.2 Il debito della scienza moderna verso l'architettura navale     101
7.3 Misurare le longitudini in mare aperto                          103
7.4 Altri sviluppi scientifici moderni motivati dalla navigazione   105

    Capitolo 8. Stelle                                              107

8.1 Dal cosmo racchiuso in un guscio all'universo infinito          107
8.2 L'universo torna a rinchiudersi in un guscio                    109
8.3 Le novae e il moto delle «stelle fisse»                         111
8.4 Si scopre l'immensità dell'universo                             112
8.5 Nasce la spettroscopia                                          114
8.6 Primi passi dell'astrofisica                                    116

    Capitolo 9. Elettricità e magnetismo                            123

9.1 Elettricità e magnetismo dall'antichità al 1550                 123
9.2 Dal secondo Cinquecento al 1700                                 124
9.3 Dal 1700 al 1775                                                127
9.4 Dal 1775 al 1800                                                131
9.5 L'intreccio tra sviluppi teorici e tecnologici nel XIX secolo   134

     Capitolo 10. La teoria atomico-molecolare                      141

10.1 L'antico atomismo: aspetti metodologici                        141
10.2 L'antico atomismo: i fenomeni salvati                          142
10.3 La riscoperta di Lucrezio e l'affermarsi dell'atomismo         144
10.4 Le molecole                                                    146
10.5 Gli atomi riassumono un ruolo nella scienza                    147
10.6 La moderna teoria atomico-molecolare                           149
10.7 Dall'atomo chimico all'atomo fisico                            150

     Capitolo 11. Evoluzione biologica                              159

11.1 Il periodo ellenico                                            159
11.2 Alcune idee biologiche di Teofrasto                            161
11.3 Dall'epoca imperiale alla fine del Settecento                  164
11.4 Dal 1800 al 1858                                               167
11.5 Dal 1859 al 1959                                               170
11.6 Sviluppi recenti                                               172

     Capitolo 12. Etere e pneuma                                    179

12.1 L'etere nel periodo ellenico                                   179
12.2 Etere e pneuma nel pensiero ellenistico                        181
12.3 Etere e pneuma nella prima età moderna                         183
12.4 Il ruolo dell'etere nella fisica moderna                       186

     Capitolo 13. La relatività del moto                            191

13.1 Come nacque l'idea della relatività del moto                   191
13.2 Il ritorno alla concezione aristotelica                        193
13.3 Con Giordano Bruno nasce la relatività «galileiana»            194
13.4 Si torna (inutilmente) allo spazio assoluto                    196
13.5 Lo spazio assoluto acquista un ruolo nella fisica,
     ma poi lo perde                                                197

     Capitolo 14. Lo studio del sistema nervoso                     201

14.1 Dalle origini al periodo ellenico                              201
14.2 Sistema nervoso e teoria della conoscenza in epoca ellenistica 201
14.3 Le conoscenze sul sistema nervoso fino alla metà del Settecento203
14.4 La localizzazione delle facoltà cerebrali                      205
14.5 L'elettrofisiologia e il segnale nervoso                       206
14.6 La struttura microscopica del tessuto nervoso                  207
14.7 L'attività elementare dei neuroni e la complessità del sistema 209
14.8 Un cenno alle reti neurali                                     211

     Capitolo 15. Breve storia dei concetti di matematica e fisica  217

15.1 Cosa sono la matematica e la fisica?                           217
15.2 I termini fisica e matematica nel periodo ellenico             218
15.3 L'unitarietà della scienza esatta ellenistica                  219
15.4 Il Rinascimento scientifico                                    222
15.5 La svolta all'epoca di Newton                                  223
15.6 La scissione tra fisica e matematica e la storia della scienza 225
15.7 Tra Ottocento e Novecento                                      227
15.8 Il passato prossimo e il presente                              229

Abbreviazioni bibliografiche                                        233
Indice dei nomi                                                     241

Le illustrazioni del volume sono a cura di Francesca Romana Capone.



 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 1

Introduzione


Questo libro, senza tentare di sintetizzare tutta la storia della scienza (la piccola mole non permetterebbe di farlo se non in modo estremamente superficiale), ha l'obiettivo di mostrarne alcune caratteristiche essenziali e sfatarne alcuni miti persistenti. A questo scopo si è scelto di trattare in qualche dettaglio lo svolgimento nel tempo delle ricerche su un campione di argomenti specifici, ciascuno dei quali è seguito dall'antichità ai nostri giorni oppure, più spesso, fino a quando è possibile farlo senza presupporre conoscenze specialistiche.

Per aiutare il lettore a inquadrare nel tempo gli argomenti trattati, si è tuttavia premesso un capitolo iniziale che presenta le principali caratteristiche delle varie fasi storiche; sia la scansione cronologica usata sia le caratteristiche esposte non riflettono opinioni largamente condivise, ma quelle dell'autore. Il lettore troverà la loro giustificazione nei capitoli successivi.

Non ci occuperemo solo dello sviluppo di conoscenze scientifiche, ma anche della loro perdita e del sorgere di miti della storiografia, a volte mostrandone i fondamenti ideologici.

Si è privilegiato l'uso delle fonti, che spesso sono citate direttamente (ogni volta che vi sia un minimo dubbio interpretativo riportando in nota il testo nella lingua originale). Per non appesantire il volume, si è cercato di compensare l'uso esteso di fonti con un ricorso molto parsimonioso alla letteratura secondaria.

Le principali tesi consistono nel tentativo di falsificare tre miti resistenti.

Secondo il primo mito la scienza sarebbe sostanzialmente nata nella cosiddetta «rivoluzione scientifica» del Seicento (anticipata da pochi precursori nella prima età moderna e qualche isolato «prefiguratore» nella lontana antichità).

Si può discutere se la storia della scienza si sia sviluppata nell'arco di venticinque o (come personalmente ritengo) solo ventitré secoli, ma in ogni caso i tre secoli (o poco più) sui quali si concentra in genere l'attenzione rappresentano solo una piccola frazione del tempo totale. Si tratta certo di una frazione particolarmente importante, alla quale dobbiamo la quasi totalità dei risultati scientifici oggi accettati, ma il privilegiarla eccessivamente rischia di generare gravi fraintendimenti. Osserviamo innanzitutto che, se dovessimo concentrarci sul periodo al quale risalgono i risultati oggi usati e citati dagli scienziati, dovremmo restringerci al più agli ultimi dieci anni e la dimensione storica della scienza svanirebbe totalmente. Se invece il nostro interesse non si limita all'origine delle formulazioni attualmente accettate, ma si estende, come è giusto, alle idee basilari sulle quali sono fondate, un'analisi accurata fa scoprire che l'arco temporale che bisogna considerare non può limitarsi a decenni e neppure a secoli, ma deve estendersi a millenni. Un altro motivo, essenziale, che sconsiglia di dare valore paradigmatico, come in genere si è fatto, alla storia degli ultimi secoli è la circostanza che il continuo progresso scientifico che ha caratterizzato gran parte di questo periodo è certo di enorme importanza, ma non può essere considerato una caratteristica intrinseca alla natura stessa della scienza e non è quindi garantito per il futuro. Molti sintomi fanno piuttosto ritenere che la continua crescita del numero di articoli pubblicati e degli addetti alla ricerca si accompagni oggi a una crisi profonda nella qualità dei risultati. È allora preferibile uno studio del fenomeno scienza in un arco temporale lungo che, comprendendo vicende di ogni tipo, inclusi crolli e stagnazioni, può renderci più duttili nel prospettare possibili scenari futuri. Vi è anche un altro motivo per non isolare gli ultimi tre secoli dai venti che li hanno preceduti. La scienza moderna non è nata in modo autonomo, ma dallo studio della scienza antica e non può quindi essere compresa prescindendone. Diventerebbe in particolare del tutto impossibile capire come il metodo scientifico sia nato.

Secondo un altro mito, diffuso nel nostro paese ancora più che altrove, la scienza perseguirebbe un disinteressato continuo avvicinamento alla «verità» sui fenomeni della natura e le applicazioni ne deriverebbero automaticamente, per lo più non previste. La storia sembra piuttosto insegnare che il più delle volte i risultati scientifici siano stati ottenuti affrontando le sfide poste da problemi concreti. È proprio la natura, storicamente determinata, di tali problemi che caratterizza, a mio parere, la scienza delle diverse epoche. Naturalmente uno scienziato può dare contributi importanti di tipo teorico disinteressandosi alle eventuali applicazioni, ma quando una teoria continua a svilupparsi per pure spinte interne, evitando rapporti anche indiretti con i problemi posti dal mondo concreto, alla lunga finisce con l'isterilirsi, come è mostrato anche da vicende recenti.

Un terzo mito ancora diffuso consiste nell'attribuire a un piccolo gruppo di «geni» gran parte dei risultati scientifici, che in realtà costituiscono quasi sempre l'esito di complessi percorsi collettivi.

Solo riconoscendo la natura collettiva degli sviluppi scientifici e il loro radicamento nell'esigenza di risolvere problemi concreti delle società cui gli scienziati appartengono la storia della scienza può essere inserita a pieno titolo nella storia. Allo stesso tempo si deve però evitare che un eccessivo desiderio di contestualizzazione storica oscuri, come spesso è avvenuto, la profonda influenza che testi anche provenienti da civiltà lontane hanno avuto sul metodo scientifico. Non bisogna dimenticare che, da quando esiste la scrittura, le influenze culturali, sia pure con inevitabili deformazioni, travisamenti e adattamenti, possono attraversare i millenni.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 3

1. Uno schema cronologico


Questo primo capitolo ha solo la funzione di fornire al lettore una griglia cronologica in cui inquadrare la materia esposta successivamente. La periodizzazione proposta e le caratteristiche dei vari periodi sono qui sintetizzate in modo sommario, sulla base di tesi enunciate, ma non pienamente argomentate. La loro giustificazione è nei capitoli successivi, che seguono lo sviluppo storico di temi specifici.




1.1 Dalla preistoria alle grandi civiltà urbane

[...]




1.2 La Grecia nel periodo ellenico (600 a.C.-331 a.C.)


Nel mondo greco, intorno al 600 a.C., inizia un'indagine razionale del mondo naturale e umano alla quale si dà tradizionalmente il nome di filosofia e nella quale alcuni hanno visto anche l'inizio del pensiero scientifico. L'uso dei termini filosofia e scienza per i pensatori compresi tra le epoche di Talete (ca. 630 a.C.-ca. 545 a.C.) e di Aristotele (384 a.C.-322 a.C.) può però essere improprio, in quanto l'oggetto delle loro indagini non aveva limiti di alcun tipo e non erano ancora nate filosofia e scienza come ambiti tra loro distinti. Le indagini sulla natura sono un aspetto essenziale di questi pensatori, che non può essere ignorato senza effetti gravemente fuorvianti. Ad esempio Parmenide, nella prima metà del V secolo a.C., aveva compiuto importanti ricerche sui fenomeni celesti, scoprendo tra l'altro l'identità tra i due astri detti «stella del mattino» e «stella della sera» (si trattava in effetti in entrambi i casi del pianeta Venere) e la natura apparente delle fasi della Luna, il cui corpo mantiene in realtà in ogni momento l'integrità della sua forma sferica. Come hanno mostrato Popper e Cerri, questi risultati, ottenuti scoprendo gli elementi invarianti sottostanti a una fenomenologia mutevole, sono alla base delle affermazioni generali di Parmenide sulla realtà e la conoscenza, che risultano altrimenti incomprensibili. Per fare un altro esempio, al centro degli interessi di Aristotele era il mondo animale e se si pensa di poter trascurare, in quanto «non filosofiche», le sue opere zoologiche, si rischia di non capire elementi essenziali del suo pensiero, dalle sue concezioni finalistiche alla teoria delle definizioni a quella del moto.

Nel periodo considerato in questo paragrafo (che diremo ellenico per distinguerlo dal successivo periodo ellenistico) furono conseguiti molti risultati che sarebbero stati incorporati nella scienza, dalla scoperta della forma sferica della Terra alla prima formulazione di una teoria atomica. Ippocrate, tra il V e il IV secolo a.C., iniziò una tradizione di studi medici basata sulla pratica clinica e completamente disgiunta da considerazioni religiose; dalla riflessione critica sui risultati aritmetici e geometrici ottenuti in Mesopotamia e in Egitto iniziò a svilupparsi una forma di geometria razionale che nel IV secolo sarebbe approdata a un compiuto metodo dimostrativo. Senza questi grandiosi sviluppi la successiva scienza sarebbe stata certo inconcepibile. Vedremo però che vi sono aspetti importanti che accomunano la scienza ellenistica a quella contemporanea, distinguendole dalla filosofia naturale e dalla matematica del periodo ellenico. Se quindi si vuole usare il termine scienza per i risultati (certo di enorme importanza) di pensatori come Anassimandro, i Pitagorici o Parmenide, bisogna inventare un altro termine per designare il metodo che accomuna Archimede a Einstein.




1.3 L'età d'oro della scienza ellenistica (331 a.C.-145 a.C.)


Droysen, che introdusse il termine ellenismo, lo fece iniziare con la morte di Alessandro Magno, nel 323 a.C. Dal nostro punto di vista è forse preferibile scegliere come evento simbolico il 331 a.C., data della fondazione della città di Alessandria, che fu il principale centro culturale, e in particolare scientifico, dell'epoca.

Accenniamo ad alcune delle caratteristiche metodologiche che permettono di affermare che in questo periodo sia nata la scienza.

Una prima caratteristica importante di molti risultati dell'epoca è l'uso sistematico del metodo dimostrativo.

L'idea di dimostrare teoremi si era sviluppata nell'ambito della geometria nell'ultima parte del periodo ellenico e non aveva precedenti in altre civiltà. Tra i suoi antecedenti non vi sono solo le raffinate argomentazioni dei filosofi ellenici, ma anche lo sviluppo della retorica nelle poleis democratiche del mondo greco. L'esigenza dei giovani con ambizioni politiche, che in un regime democratico dovevano imparare ad argomentare in modo da riuscire a convincere la maggioranza delle assemblee, stimolò lo sviluppo di scuole e manuali di retorica, nei quali si analizzavano i vari metodi di persuasione. Successivamente, isolando la forza «oggettiva» delle argomentazioni dalle tecniche psicologiche ed emotive di convincimento, la retorica generò la logica, nel cui ambito furono analizzati i sillogismi, ossia le più elementari forme di dimostrazione, e dall'incontro tra questi studi e le analisi dei disegni compiute nell'ambito della geometria nacque la dimostrazione geometrica.

Naturalmente il metodo dimostrativo permetteva di dedurre con certezza conseguenze da premesse, ma non poteva garantire la verità di queste ultime, che erano scelte di volta in volta tra le affermazioni che sembravano garantite dall'evidenza dei disegni.

Tutto il percorso fin qui descritto era già compiuto all'epoca di Aristotele. Una novità, di grande importanza, del periodo ellenistico, che possiamo vedere per la prima volta negli Elementi di Euclide, fu la scelta di fissare una volta per tutte le premesse su cui basare una disciplina. Nel caso della geometria Euclide scelse i suoi famosi cinque postulati. Questa scelta fu resa possibile dalla diffusione dei libri e dalla formazione di centri guida dello sviluppo scientifico, come la città di Alessandria. È chiaro, infatti, che solo chi sa di scrivere un manuale che rimarrà il riferimento standard in tutto il mondo greco può decidere su quali premesse basare la geometria.

La fissazione dei postulati ebbe conseguenze di grande portata, poiché generò i concetti delle teorie scientifiche. I postulati nascono infatti come frasi della lingua ordinaria con un preciso riferimento concreto, che nel caso della geometria di Euclide è costituito dai disegni eseguibili con riga e compasso. Ad esempio, una traduzione letterale del primo postulato degli Elementi può essere:

Sia richiesto di tracciare una linea dritta da ogni punto a ogni punto.

Le «linee dritte» tracciate da un disegnatore sono ovviamente oggetti concreti, dotati di molte proprietà: possono avere, ad esempio, diverso spessore e colore. Se però si decide di accettare come valide in geometria solo le affermazioni logicamente deducibili dai postulati, il significato di questo termine di fatto muta. Poiché in nessuno dei postulati si parla dello spessore o del colore delle «linee dritte», non sarà possibile parlarne neppure in nessun'altra proposizione della scienza della geometria, che potrà quindi occuparsi solo di «linee dritte» decolorate, senza spessore e senza nessun altro attributo non nominato nei postulati. Nasce così, grazie a uno sfrondamento del campo semantico del termine originario, il concetto teorico della «linea retta» della geometria. I concetti teorici così generati mantengono naturalmente un chiaro rapporto con gli oggetti concreti da cui sono stati astratti e ciò garantisce l'applicabilità della teoria.

Quello della geometria è un esempio particolarmente importante di un fenomeno generale. In epoca ellenistica nascono molte teorie scientifiche che, come la geometria, sono basate su postulati e si sviluppano dimostrando teoremi: tra le altre la meccanica, l'ottica e l'idrostatica. Ciascuna di queste teorie, grazie al rapporto tra i concetti teorici e gli oggetti concreti, costituisce un modello di un particolare aspetto della realtà.

La novità assoluta che caratterizza il metodo scientifico è proprio la presenza di questo doppio piano. Oltre agli oggetti e ai fenomeni, gli scienziati hanno a disposizione i loro modelli teorici, che non rispecchiano perfettamente la realtà, ma hanno il grande vantaggio che al loro interno è possibile dimostrare teoremi. Si possono cioè raggiungere conclusioni (teoriche) assolutamente certe, come non è mai possibile fare riguardo ai fenomeni reali.

La situazione è descritta nella figura 2, nella quale le linee tratteggiate rappresentano le regole di corrispondenza tra oggetti e fenomeni concreti, raffigurati nel piano inferiore, e i loro modelli sul piano superiore. Partendo da oggetti e fenomeni naturali (rappresentati nella parte destra del piano inferiore), si può raggiungere il piano del loro modello teorico, sul quale è possibile poi spostarsi con il metodo dimostrativo, raggiungendo punti nei quali non esistono oggetti o fenomeni concreti corrispondenti. Avendone il modello teorico, si può allora costruire la realtà corrispondente, ottenendo prodotti tecnologici progettati scientificamente. Il metodo dimostrativo è utile soprattutto perché aumenta enormemente la varietà degli oggetti progettabili. Non è in effetti importante seguire lunghe catene di deduzioni logiche per arrivare ad affermazioni verificabili direttamente, mentre il rigore delle dimostrazioni è essenziale per ottenere affermazioni sensate su realtà virtuali non ancora realizzate. Ad esempio i teoremi di idrostatica di Archimede permettono di prevedere (almeno nel caso di alcune forme semplici) se uno scafo, una volta varato, galleggerà in equilibrio stabile e ciò rende possibile progettare navi con dimensioni e peso senza precedenti.

I postulati su cui sono basate le teorie scientifiche non sono in genere facilmente verificabili, ma devono essere tali che da essi siano deducibili i fenomeni osservabili, devono essere cioè in grado nella terminologia dell'epoca, di salvare i fenomeni (...): ad esempio l'ipotesi di Aristarco di Samo che il Sole sia fermo e la Terra e i pianeti gli girino intorno non è immediatamente verificabile, ma permette di spiegare i moti planetari osservabili.

Le teorie appena descritte caratterizzano ciò che oggi diciamo scienza esatta. In epoca ellenistica si svilupparono anche diverse scienze empiriche, come l'anatomia o la botanica, che non usavano il metodo dimostrativo, ma avevano alcune importanti caratteristiche in comune con le teorie precedenti: in primo luogo l'uso di concetti teorici consapevolmente creati. Si trattava di una possibilità nuova, strettamente legata all'affermarsi del convenzionalismo linguistico. Ci si rese cioè conto che è possibile creare termini nuovi con significati liberamente scelti.

Un importante sostegno allo sviluppo scientifico di questo periodo venne dalla politica dei sovrani ellenistici, che finanziavano la scienza come altri settori della cultura. Ad Alessandria sorge il Museo (al quale è annessa la famosa Biblioteca), cioè il primo istituto pubblico di ricerca di cui abbiamo notizia, dove sono raccolti intellettuali che svolgono le proprie ricerche senza preoccupazioni economiche.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 8




1.4 L'antica sconfitta della scienza (145 a.C.-415 d.C.)

[...]




1.5 Alterne vicende (415-1400)

[...]




1.6 Rinascimento e rinascita scientifica (1400-1670)

[...]




1.7 Lo sviluppo della scienza europea (1670-1942)

[...]

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 15

1.8 La scienza contemporanea (dal 1942 a oggi)


Con la seconda guerra mondiale si ha una nuova svolta nella produzione di scienza. Una prima evidente novità è geografica: l'Europa, in seguito alle distruzioni fisiche della guerra, al suo indebolimento economico e alla massiccia emigrazione di scienziati provocata, direttamente e indirettamente, dalle persecuzioni razziali, perde in pochi anni il suo ruolo centrale, nel quale subentrano innanzitutto gli Stati Uniti (che già durante la guerra assumono la leadership in settori chiave come la fisica nucleare, l'elettronica e la biologia molecolare) e poi anche l'Unione Sovietica. Nei decenni successivi, in seguito all'importanza crescente assunta da altri paesi, soprattutto ma non solo asiatici, si può parlare di globalizzazione della scienza (anche se in realtà sono ancora molti i paesi esclusi).

Altri aspetti appariscenti della scienza di quest'ultimo periodo sono le dimensioni della comunità dei ricercatori, cresciuta fino a divenire una frazione consistente dei lavoratori dipendenti, le nuove possibilità generate dall'elaborazione automatica delle informazioni e l'accelerazione dei mutamenti tecnologici. Questi aspetti hanno esteso la consapevolezza della rilevanza sociale della ricerca scientifica, mettendo forse in ombra mutamenti qualitativi più preoccupanti.

Il Progetto Manhattan, varato nel 1942 negli USA per realizzare la bomba atomica, da vari punti di vista può simboleggiare la svolta. Innanzitutto, anche se vi partecipano molti scienziati europei, viene realizzato fuori dall'Europa e l'entità senza precedenti dei finanziamenti inaugura quella che sarà detta Big Science. Si tratta inoltre di un progetto condotto nella più assoluta segretezza (gli scienziati che vi partecipano vivono a Los Alamos, una cittadina costruita allo scopo in un luogo isolato e ogni loro contatto con l'esterno è sottoposto a controllo militare) e anche da questo punto di vista inaugura una nuova fase: la percentuale della ricerca coperta da segreto (militare o commerciale) da allora è sempre aumentata.

Un altro aspetto del nuovo corso già presente nel Progetto Manhattan è l'importanza crescente delle ricerche finalizzate alla produzione di un singolo prodotto tecnologico. Dalla metà del XX secolo una frazione sempre maggiore della ricerca scientifica secretati è però svolta per conto di multinazionali private e ha rapporti diretti e immediati con la produzione. Organismi statali o sovranazionali, come l'UE, sono ancora importanti finanziatori, ma i loro finanziamenti (se si prescinde dalle dichiarazioni d'intenti e dalle ricerche di interesse militare di alcuni Stati) si concentrano di fatto su ricerca di base priva di ricadute tecnologiche reali.

La ricerca di base e quella applicata, essendo svolte per lo più per conto di committenti diversi, da studiosi lontani per formazione e obiettivi, tra i quali la comunicazione avviene solo a senso unico (dal settore pubblico verso quello secretato), tendono ad allontanarsi l'una dall'altra, con gravi conseguenze per entrambe. Da una parte, infatti, la ricerca effettuata nel segreto per un immediato ritorno economico non può non perdere respiro teorico (e spesso anche utilità sociale). Dall'altra la ricerca accademica, indebolendo fino a vanificarli i rapporti con lo sviluppo tecnologico, rischia di avvolgersi su sé stessa in modo autoreferenziale, perdendo anch'essa utilità sociale.

Un chiaro sintomo dell'ultimo fenomeno è fornito dagli attuali criteri di valutazione delle pubblicazioni scientifiche, che non si prefiggono più lo scopo di stimare il valore (economico, culturale, sociale, ...) per la collettività dei risultati ottenuti, ma, usando vari indici bibliometrici, misurano esclusivamente la capacità delle pubblicazioni di riprodursi stimolando altre pubblicazioni accademiche. Il risultato è naturalmente la creazione di mode che si autoalimentano, del tutto analoghe alle bolle speculative dei mercati finanziari.

Il circuito virtuoso tra ricerca, risultati tecnologici, ricavato economico e finanziamenti, che aveva innescato la crescita esponenziale della scienza, rischia così di spezzarsi, o forse si è già spezzato. I vari parametri continuano attualmente a crescere, ma con logiche interne diverse, compatibili con vari scenari sui quali non è il caso di soffermarci qui. Il rapporto tra comunità accademica e mondo produttivo è ancora importante, ma ha cambiato natura: mentre la vasta comunità dei ricercatori costituisce oggi un importante mercato per i prodotti tecnologici, che evolvono in larga misura in modo autonomo, seguendo logiche commerciali, una parte consistente degli scienziati più intraprendenti si dedicano sì ad attività con una ricaduta economica considerevole, ma soprattutto nel settore dell'intrattenimento.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 164

11.3 Dall'epoca imperiale alla fine del Settecento


Le idee incontrate nel paragrafo precedente non furono confinate a pochi pensatori isolati. Simplicio, commentando il passo della Physica di Aristotele sulla selezione naturale, osserva che gli Epicurei avevano accolto quella tesi. Lucrezio ne dà una conferma, sostenendo che l'idea che uno strumento sia progettato in vista di un fine, valida per i prodotti tecnologici, non può essere estesa agli organi animali, che preesistono al loro uso attuale.

In epoca imperiale il finalismo che abbiamo visto in Aristotele dominò incontrastato. Il pensiero religioso cristiano, che sostituendo la saggia natura di Aristotele con la provvidenza divina dominò in tutto il Medioevo, era del tutto incompatibile con qualsiasi passo nella direzione dell'evoluzionismo anche per altre ragioni. Il racconto biblico non solo forniva una spiegazione dell'origine delle specie incompatibile con qualsiasi ricerca scientifica sull'argomento, ma restringendo la durata dell'universo a poche migliaia di anni rendeva improponibile qualsiasi studio di fenomeni svolti in un arco di tempo maggiore; inoltre la teologia cristiana poneva l'uomo, in quanto dotato di anima, su un piano diverso da quello di tutti gli altri animali, rendendo impossibile concepire esseri intermedi.

Nel XV secolo l'interesse per correnti di pensiero lontane sia dalla teologia cristiana sia dal pensiero aristotelico fu risvegliato dalla riscoperta di opere come il poema di Lucrezio e la Metaphysica di Teofrasto. Dal punto di vista del nostro tema, tra i pensatori del secolo successivo è particolarmente importante Bernardino Telesio (1509-1588), che nel De rerum natura iuxta propria principia sostiene che Dio con l'atto creativo iniziale avrebbe dato origine solo alla materia, il caldo e il freddo, mentre la varietà del mondo inorganico e organico, uomo compreso, sarebbe stata poi prodotta attraverso un'evoluzione dovuta esclusivamente a cause naturali. Sia la differenza tra mondo inorganico e organico, sia quella tra l'uomo e gli altri animali sono quindi considerate superabili con mezzi puramente naturali. Non si tratta certo di una teoria scientifica: Telesio pretende di spiegare tutti i fenomeni naturali con meccanismi elementari e ingenui, senza seri collegamenti con la fenomenologia, che trae da filosofi della natura di epoca ellenica. La sua concezione ha tuttavia il grande merito di eliminare tutte le ipoteche ideologiche che si opponevano all'idea di un'evoluzione dovuta a cause naturali. Grazie anche alla profonda influenza esercitata su pensatori come Francesco Bacone e Hobbes, Telesio ha costituito uno dei canali (spesso dimenticato) attraverso cui il pensiero antico alternativo alle scuole platonica e aristotelica ha influenzato la scienza moderna.

L'interesse per i fossili, che risaliva almeno al primo periodo ellenico, riemerse in molti autori della prima età moderna. Una questione molto dibattuta fu l'origine della strana presenza di fossili marini in località distanti dal mare. Il problema era stato già affrontato da Eratostene, che ne aveva dedotto che la linea di costa doveva essersi spostata. Questa spiegazione fu a volte ripresa (ad esempio da Leonardo da Vinci), ma trovarono molto più credito altre teorie, come quella che i fossili non fossero resti di animali ma «scherzi di natura» (la natura si sarebbe cioè divertita a produrre sassi a forma di animali) oppure che si trattasse di animali trascinati nell'entroterra dal diluvio universale. La lentezza dei progressi su questo tema è bene illustrata da Voltaire, che in pieno Settecento credeva di poter spiegare l'origine delle conchiglie marine fossili trovate in gran quantità in luoghi montagnosi come residui di pasti consumati da pellegrini di passaggio.

Nel Seicento lo studio dei fossili aveva comunque compiuto grandi passi avanti e la consapevolezza che si trattasse effettivamente di resti animali era abbastanza diffusa. Particolarmente importante fu il Prodromus del danese Niccolò Stenone (Niels Stensen), del 1669, nel quale si fonda la stratigrafia, si riconosce cioè che la successione degli strati geologici (se si tiene conto di eventi successivi alla loro formazione, in genere riconoscibili, che possono averli fratturati e spostati) può fornire una cronologia relativa e si introducono una serie di regole per determinare cronologie relative di fossili. La concezione che tutti gli organismi siano ordinabili lungo una scala di crescente perfezione, detta scala naturae, lungo la quale si procederebbe quasi con continuità dagli animali più elementari all'uomo era presente in Aristotele e ha resistito a lungo (aggiungendo, nelle versioni cristiane, angeli e Dio all'apice della scala). Alla fine del Seicento cominciò a farsi strada l'idea che tale scala si fosse realizzata nel tempo, cioè che nelle diverse epoche geologiche fossero vissute specie via via più perfezionate. È quanto afferma Leibniz nel suo Protogaea, del 1693. Si può però sostenere che non si tratti di una vera teoria dell'evoluzione, perché Leibniz non crede che i nuovi animali siano il risultato di un processo naturale, ma l'attualizzazione di potenzialità preesistenti.

Nel corso del Settecento i progressi della paleontologia, intrecciati con quelli della geologia, che avevano enormemente dilatato il passato della Terra, diffusero la convinzione che i fossili fossero testimonianze di forme di vita diverse da quelle viventi, vissute in epoche lontane. Nel 1760 uno dei più importanti geologi del secolo, Giovanni Arduino (1714-1795), descrive in una lettera:

[...] differenti gradi di perfezione nelle dette specie d'acquatici Animali impietriti, più roze ed imperfette ne' più bassi strati delle montagne da me distinte per secondarie [...] e più perfette negli strati superiori di mano in mano, secondo l'ordine della loro successiva formazione, tanto che negli ultimi strati, cioè in quelli che formano i monti e colli terziarj, si veggono esse specie perfettissime, ed in tutto simili a quelle che nel moderno mare si ravvisano.

È qui chiara l'idea che forme di animali di crescente perfezione fossero apparse in tempi successivi. Questo riconoscimento non portava però necessariamente a credere nell'evoluzione delle specie animali. Linneo (1707-1778), ad esempio, riteneva che gli animali e le piante noti solo allo stato fossile si fossero semplicemente trasferiti in altri luoghi, dove non erano stati ancora osservati. Neppure il fondatore sia dell'anatomia comparata sia della paleontologia dei mammiferi, Georges Cuvier (1769-1832), credeva all'evoluzione. Riteneva piuttosto che periodiche catastrofi naturali regionali, come sismi e inondazioni, avessero causato l'estinzione di molte specie; a ciascuna di queste catastrofi sarebbe seguito un ripopolamento dovuto a immigrazioni di animali da altre regioni o a una nuova creazione. Charles Bonnet (1720-1793), che aveva dato importanti contributi all'entomologia e alla botanica, cercò di conciliare la Bibbia con l'evidenza paleontologica proponendo una teoria molto vicina a quella di Leibniz: nelle diverse epoche sarebbero apparsi animali via via più perfetti, procedendo lungo la scala naturae, ma si sarebbero tutti sviluppati a partire da germi apparsi all'atto della creazione descritta nel libro del Genesi.

Alla fine del Settecento l'idea dell'evoluzione, anche se respinta dalle maggiori autorità scientifiche, era comunque nell'aria. Ne dà una chiara testimonianza Erasmus Darwin (il nonno di Charles) che, riecheggiando idee al suo tempo diffuse, scrive nella Zoonomia (1794-1796):

[...] meditando sulla grande somiglianza della struttura degli animali a sangue caldo, e allo stesso tempo sui grandi cambiamenti che subiscono sia prima sia dopo la nascita; e considerando in quale minuscola porzione di tempo si sono prodotti molti dei cambiamenti degli animali prima descritti; sarebbe troppo audace immaginare che nell'enorme durata di tempo trascorsa da quando esiste la Terra, [...] tutti gli animali a sangue caldo si siano sviluppati da un solo filamento vivente, che LA GRANDE CAUSA PRIMA aveva dotato dell'animalità, con il potere di acquisire nuove parti, [...]; e possedendo così la facoltà di continuare a migliorare grazie alla propria attività intrinseca, e di trasmettere questi miglioramenti alla posterità di generazione in generazione, senza fine!

Poco prima, a proposito dei combattimenti tra uccelli maschi per la conquista della femmina, aveva scritto:

La causa finale di questa competizione tra i maschi sembra essere che l'animale più forte e attivo propaghi la specie, che ne viene così migliorata.

L'ultima affermazione anticipa chiaramente un'idea che sarà accettata da Charles Darwin, ma ciononostante autorevoli storici della biologia hanno negato che possano trovarsi tracce delle idee di Erasmus Darwin negli scritti del nipote (i cui appunti testimoniano l'attenta lettura dell'opera del nonno).

Erasmus Darwin non sviluppò una teoria sull'argomento, ma descrisse l'intera evoluzione animale, dai microorganismi alla società umana, in un poema pubblicato postumo nel 1803 (The Tempie of Nature).

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 167

11.4 Dal 1800 al 1858


Jean-Baptiste Lamarck (1744-1829) aveva avuto vasti interessi in molti settori della scienza, ma era stato per un trentennio soprattutto uno stimato botanico, convinto dell'immutabilità delle specie, quando nel 1793, all'atto della fondazione del Muséum national d'Histoire naturelle di Parigi, gli fu assegnata la cattedra di zoologia degli invertebrati. Negli anni successivi studiò a fondo i molluschi marini fossili che si andavano accumulando nella collezione del Museo e la possibilità di ordinare tali fossili lungo catene che mostravano una successione di modifiche graduali nel corso del tempo lo convinse della realtà dell'evoluzione.

L'11 maggio 1800, nella prolusione al suo corso, Lamarck delineò la prima vera teoria dell'evoluzione biologica, che avrebbe esposto compiutamente nella Philosophie zoologique, pubblicata nel 1809.

Il problema dell'estinzione delle specie aveva angosciato molti pensatori, che non riuscivano a conciliare la loro fede nella provvidenza con la creazione di animali destinati all'estinzione. Lamarck lo risolse ipotizzando che le specie note solo dai fossili non si fossero affatto estinte, trasformandosi gradualmente in quelle viventi. L'evoluzione di Lamarck è estremamente lenta, dovuta a cause puramente naturali e, a differenza di quella proposta da Leibniz e da Bonnet, non richiede enti immutabili preesistenti. Lamarck basò la sua teoria non solo sullo studio di serie di fossili, ma anche sulla geologia (di cui era stato un cultore). La graduale trasformazione delle rocce, che appariva dalla stratigrafia, comportava una lenta evoluzione delle condizioni ambientali che richiedeva a suo parere un'evoluzione analoga delle specie viventi, se le si supponeva sempre adattate al proprio ambiente.

Nella biologia di Lamarck non vi è più un'unica scala naturae. Già nella prolusione del 1800 la scala lineare è sostituita da due progressioni distinte: l'una proveniente dagli infusori e l'altra dai vermi. Nei lavori successivi le linee separate crebbero di numero e si ramificarono. Una caratteristica notevole del suo pensiero è l'assenza di remore nell'includere l'uomo tra gli animali prodotti dall'evoluzione: nella Philosophie zoologique vi è una bella pagina in cui, riprendendo l'antica idea di Anassagora, individua, come passaggio essenziale della trasformazione dei nostri progenitori nell'uomo, la liberazione degli arti anteriori dalla funzione locomotoria, che ci ha dotato di una mano disponibile per altri compiti.

Lamarck riconosce due cause dell'evoluzione. La prima è una generale tendenza di tutti i viventi ad accrescere la propria complessità (e quindi «perfezione»). Quest'idea, che abbiamo incontrato in Erasmus Darwin, era diffusa da molto tempo e avrebbe continuato ad esserlo a lungo, almeno all'esterno dell'ambiente dei biologi. I1 fatto che attualmente siano presenti organismi con tutti i livelli di complessità è spiegato supponendo che gli organismi più semplici (infusori e vermi) si producano continuamente per generazione spontanea.

La tendenza generale alla complessità crescente avrebbe potuto spiegare l'ascendenza lungo l'antica scala naturae, ma non l'esistenza di più linee filetiche, con ramificazioni tese a ottimizzare l'adattamento ad ambienti diversi. Lamarck fa ricorso per questo a una seconda causa, spiegando il continuo adattamento degli organismi all'ambiente variabile con due principi: la legge dell'uso e del non uso (secondo la quale gli organi più usati si rafforzano, mentre quelli non usati tendono ad atrofizzarsi) e l'ereditarietà dei caratteri acquisiti. Nessuno dei due principi era originale; in particolare la convinzione che gli animali potessero trasmettere alla prole i caratteri acquisiti in vita, che è stata spesso associata al nome di Lamarck, era diffusa sin dall'antichità. Le novità dovute a Lamarck sono un tentativo (complesso e infelice) di dare una spiegazione fisiologica del meccanismo con cui i caratteri acquisiti verrebbero trasmessi alla prole e, soprattutto, l'uso logicamente connesso di vari elementi preesistenti per ottenere una spiegazione coerente dell'evoluzione.

L'opera di Lamarck fu quasi completamente ignorata in Francia, ma influenzò, in modo per lo più sotterraneo, vari scienziati di altri paesi in misura non facilmente determinabile. Nel mezzo secolo successivo alla pubblicazione della Philosophie zoologique l'idea dell'evoluzione biologica, pur non essendo accettata da nessuno degli scienziati più autorevoli, preparò la sua affermazione conquistando sempre più spazio. Tra i biologi professionisti l'avversione all'evoluzione fu generale ma non unanime. Ad esempio in Germania il manuale di anatomia comparata di Johann Friedrich Meckel (1781-1833), del 1821, dedicò ampio spazio al tema dell'evoluzione e nel 1825 il paleontologo von Buch sostenne che le varietà si trasformano lentamente in specie non più capaci di ibridarsi; in Francia idee evoluzioniste si fecero strada negli scritti di Etienne Geoffroy Saint-Hilaire (1772-1844) e nel 1836 l'evoluzione delle piante fu affermata e descritta dal botanico viennese Franz Unger (1800-1870).

Non fu più possibile ignorare l'evoluzionismo: gli oppositori, pur costituendo quasi tutta la comunità scientifica, dovettero impegnarsi per confutarlo, rendendolo sempre più popolare, anche e soprattutto tra i non addetti ai lavori. Un episodio significativo in questo senso fu la pubblicazione a Londra, nel 1844, dei Vestiges of the Natural History of Creation. Negli ambienti scientifici inglesi il rifiuto dell'evoluzionismo era così unanime che l'autore aveva preferito conservare l'anonimato e la sua identità fu rivelata solo dopo la morte: era Robert Chambers (1802-1871), non un vero scienziato, ma un uomo colto, autore di libri e saggi divulgativi. Nella sua opera aveva riportato molte prove dell'evoluzione, tratte sia dalla paleontologia sia dall'embriologia (si era osservato che gli embrioni attraversano fasi in cui assomigliano a specie vissute nel passato). All'epoca la mole dei dati disponibili a questo scopo era già più che rispettabile, ma trarne conseguenze incompatibili con il paradigma accettato quasi unanimemente dalla comunità accademica era evidentemente più facile per chi non ne faceva parte. Una conferma dell'ultima osservazione è data dal successo dell'opera di Chambers: tra il 1844 e il 1854 ne furono vendute ventiquattromila copie; nello stesso arco di tempo dell' Origine delle specie di Darwin si venderanno novemilacinquecento copie.

Anche il più autorevole oppositore dell'evoluzionismo, Georges Cuvier, contribuì con la sua scuola, suo malgrado, a preparare il terreno per il trionfo delle idee contro cui aveva combattuto. Cuvier riteneva che l'evoluzione non fosse compatibile con la presenza delle discontinuità tra specie e gruppi presenti nella documentazione fossile. D'altra parte l'anatomia comparata sviluppata da lui e dalla sua scuola rendeva sempre più evidente la presenza di precise corrispondenze tra le ossa dei diversi mammiferi non attribuibili a esigenze funzionali, che erano difficilmente spiegabili se non come omologie, ossia dovute alla comune origine delle diverse specie.

Negli anni Cinquanta le adesioni all'evoluzionismo si moltiplicarono: Darwin cita tra gli altri i lavori del 1851 del medico irlandese Henry Freke (secondo il quale tutte le specie discenderebbero da un'unica forma primitiva), scritti del 1852 e del 1855 del filosofo Herbert Spencer, che pur senza dare contributi scientifici fu attivo nella diffusione di idee evoluzioniste, un articolo del 1852 del botanico Charles Naudin, che sottolineava l'analogia tra la formazione delle specie e quella delle varietà prodotte dall'uomo, e un opuscolo del 1853 di Schaaffhausen sullo sviluppo progressivo delle forme organiche; anche il reverendo Powell aveva sostenuto nel 1855 che l'apparizione di nuove specie è un fenomeno regolare.

Mentre le prove sulla realtà dell'evoluzione continuavano ad accumularsi e la compattezza del mondo accademico nel suo rifiuto cominciava a mostrare crepe, tra gli evoluzionisti non vi era alcun accordo sui meccanismi evolutivi. Molti, come Lamarck, postulavano un impulso interno degli organismi verso lo sviluppo di forme «superiori», ossia più complesse, mentre Geoffrey Saint-Hilaire aveva sostenuto che l'ambiente potesse determinare direttamente cambiamenti negli organismi. Meckel aveva elencato varie possibili cause dell'evoluzione, tra le quali non aveva incluso la spiegazione lamarckiana basata sulla legge dell'uso e del non uso. Un'altra possibile causa, ignorata dalla comunità scientifica, poteva essere letta nella Physica di Aristotele: l'adattamento degli organismi all'ambiente non potrebbe derivare, semplicemente, dalla selezione tra gli individui, che penalizza i meno adattati dando loro minore probabilità di sopravvivere e procreare? L'idea era riapparsa qua e là in vari scritti di autori estranei al mondo accademico: ad esempio nel 1813 il medico, oltre che tipografo e libraio, William Charles Wells l'aveva applicata alle razze umane per spiegare l'immunità di alcune etnie africane a malattie tropicali e nel 1831 un ricco agricoltore, Patrick Matthew, l'aveva esposta in un'opera sul legname per costruzioni navali; nel 1860 Matthew, stupito per essere stato individuato come un precursore di Darwin, scrisse che l'idea della selezione naturale gli era apparsa evidente e che qualsiasi persona intelligente e priva di pregiudizi avrebbe dovuto riconoscerla come tale.

Come abbiamo visto, Erasmus Darwin aveva individuato una causa di variazione delle specie anche nella selezione sessuale dovuta ai combattimenti tra maschi per la conquista della femmina.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 170

11.5 Dal 1859 al 1959


Verso la fine degli anni Cinquanta dell'Ottocento i tempi erano maturi perché qualcuno, attingendo a idee e dati disponibili, elaborasse una nuova sintesi potenzialmente in grado di rovesciare il paradigma dominante. La prima esposizione della teoria dell'evoluzione delle specie grazie alla selezione naturale (On the tendency of varieties to depart indefinitely from the original type) apparve nel 1858. L'autore era un brillante naturalista autodidatta, Alfred Russel Wallace (1826-1913), che aveva inviato l'articolo a un autorevole scienziato con cui era in corrispondenza, Charles Darwin (1809-1882). Darwin, che da tempo stava lavorando sulla stessa idea, fu colpito dal lavoro e lo fece pubblicare accompagnandolo con suoi scritti ancora inediti sullo stesso tema. L'anno successivo si affrettò a pubblicare il suo capolavoro (On the origin of species by means of natural selection, or the preservation of favoured races in the struggle for life) in una stesura che considerava ancora provvisoria. Nello stesso 1859 l'evoluziole delle specie era accolta come una realtà negli scritti dello zoologo von Baer del botanico Hooker.

La circostanza che le idee evoluzioniste (e anche quella della selezione) si stessero diffondendo non deve assolutamente far sottovalutare il contributo di Darwin, che realizzò una poderosa sintesi, riconducendo a poche idee semplici una massa di dati senza precedenti, provenienti da proprie ricerche specialistiche. La sua teoria dell'evoluzione delle specie per mezzo della selezione naturale è basata su un'analogia con la selezione operata da allevatori e coltivatori per creare nuove razze e varietà e su tre fatti che giustamente considera incontestabili:

a) iperfecondità: nascono molti più individui di quanti riescano a riprodursi (se si riproducessero tutti, il numero dei membri di ogni specie crescerebbe esponenzialmente, mentre la limitazione delle risorse non lo permette);

b) variabilità: non solo gli individui sono diversi tra loro, ma appaiono anche continuamente variazioni nuove (per cause che Darwin sa di ignorare);

c) ereditarietà: i caratteri individuali, seguendo leggi all'epoca ignote, si trasmettono, almeno in parte, alla prole.


Poiché a ogni generazione gli individui con caratteristiche «migliori», ossia più adatte a sopravvivere nel proprio ambiente (e, nel caso dei maschi di molte specie, a vincere le competizioni per l'accoppiamento), hanno maggiore probabilità di riprodursi, si ha una continua lenta modifica della specie, e anche delle sue varietà, che possono divenire specie. In questo modo, secondo Darwin, tutta la diversità animale si è originata da un solo antenato comune. Le maggiori o minori affinità tra le specie, riconosciute dalle categorie tassonomiche, riflettono la loro parentela più o meno prossima.

Va detto che Darwin, pur dando grande importanza al meccanismo di selezione appena descritto, non lo ritiene l'unica causa dell'evoluzione; rifiuta l'idea di una generale tendenza a una crescente perfezione, ma crede che possano giocare un ruolo anche la legge dell'uso e non uso invocata da Lamarck e le modifiche indotte direttamente dall'ambiente esterno. Su un punto era stato meno coraggioso di Lamarck: nell' Origine delle specie aveva evitato accuratamente di applicare la sua teoria all'origine dell'uomo; affronterà il problema, dedicandogli un libro, solo nel 1872.

Darwin cita più volte l'apparente contraddizione tra l'evoluzione graduale prevista dalla sua teoria e la documentazione fossile, che mostrava vistose discontinuità tra le specie e i gruppi documentati. Era stata questa la principale obiezione di Cuvier all'evoluzionismo e Darwin crede di superarla sottolineando l'incompletezza dei dati disponibili: una risposta debole, se si tiene conto che la discontinuità, ad esempio, tra la fauna del primario e quella del secondario era riscontrabile esattamente allo stesso modo in tutti i siti noti.

Nella terza edizione dell'opera, del 1861, Darwin inserì un'introduzione storica. Il primo autore citato è Aristotele, per il brano della Physica che abbiamo riportato a p. 162. Darwin riconosce che nel passo è adombrato il principio della selezione naturale, ma lo considera poco rilevante perché il contesto in cui è inserito va in tutt'altra direzione.

Nei decenni successivi all'apparizione dell' Origine delle specie la teoria di Darwin non ebbe vita facile: mentre l'evoluzionismo in sé si diffuse abbastanza rapidamente (solo negli Stati Uniti vi furono a lungo forti resistenze dovute a motivi religiosi), una minoranza abbastanza esigua di biologi accettò il ruolo della selezione naturale; la maggioranza preferì riscoprire Lamarck, attribuendo l'evoluzione alla legge dell'uso e non uso e all'ereditarietà dei caratteri acquisiti. Una notevole eccezione fu costituita dai biologi russi, che accogliendo negli aspetti essenziali la teoria di Darwin, ne svilupparono interessanti varianti a lungo poco note in occidente. L'unico evoluzionista russo non del tutto ignorato fu l'anarchico Pëtr Alekseevič Kropotkin (1842-1921), che si stabilì in Inghilterra e pubblicò in inglese. Mentre Darwin aveva considerato essenziale la competizione tra gli individui, Kropotkin sottolineò il vantaggio selettivo, nella competizione tra gruppi, di quelli che sviluppano comportamenti collaborativi.

Le leggi dell'ereditarietà, scoperte da Gregor Mendel nel 1865, nonostante fossero state pubblicate e più volte citate, erano rimaste praticamente sconosciute fino al 1900, quando tre ricercatori le riscoprirono indipendentemente. Nel decennio successivo la genetica, che poteva basarsi anche sui progressi ottenuti nel frattempo dalla citologia, si sviluppò notevolmente, ma in quegli anni le leggi di Mendel, che prevedevano la trasmissione di caratteri inalterati anche attraverso salti generazionali, sembrarono poco compatibili con l'idea di una graduale evoluzione delle specie. Successivamente però, grazie all'affermarsi del concetto di mutazione e alle ricerche di genetica delle popolazioni, in particoare da parte del biologo e statistico Ronald A. Fisher (1890-1962), fu sempre più chiaro che la genetica poteva fornire una solida base alla teoria dell'evolusione per selezione naturale. Allo stesso tempo l'antica idea dell'ereditarietà dei aratteri acquisiti divenne sempre meno accettabile. La definitiva falsificazione lel lamarckismo si ebbe negli anni Cinquanta del Novecento, con la prova che gli acidi nucleici responsabili della trasmissione dei caratteri non possono essere alterati da modifiche della fisiologia dell'individuo. Nel 1959, in occasione del centennale della pubblicazione dell' Origine delle specie, furono organizzati vari convegni che permisero di fare il punto sullo stato delle teorie evoluzionistiche. Fu così possibile verificare che la comunità dei biologi aveva raggiunto l'unanimità su quella che fu chiamata la Moderna Sintesi. Coniugando la moderna genetica con la teoria di Darwin, si era ottenuta una teoria semplice e unitaria che riteneva di poter descrivere ogni caratteristica dell'evoluzione della vita grazie all'apparizione, con ritmo costante, di mutazioni genetiche che esploravano tutte le direzioni possibili di cambiamento e alla selezione naturale, che favoriva gli individui meglio adattati all'ambiente. Si riteneva che ogni caratteristica attuale degli organismi potesse essere spiegata identificando il vantaggio selettivo che l'aveva prodotta. Rimaneva in realtà qualche problema, come le discontiuità nella documentazione fossile che avevano impedito a Cuvier di accettare l'evoluzionismo e la presenza di organi inutili, come le mammelle dei maschi che avevano già dato da pensare a Teofrasto, ma sembra che pochi evoluzionisti se ne preoccupassero.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 172

11.6 Sviluppi recenti


A partire dagli anni Settanta del secolo scorso la teoria dell'evoluzione si è trasformata. L'importanza del meccanismo della selezione naturale è stata confermata, ma lo svolgimento dell'evoluzione e i suoi meccanismi si sono rivelati molto più complessi di quanto si fosse ritenuto in precedenza.

Darwin era stato un continuista, aveva cioè creduto in un'evoluzione dovuta a graduali modifiche delle specie e anche i neodarwinisti avevano accettato questo quadro, nonostante l'evidenza paleontologica, molto più ricca di quella che Darwin aveva giudicato incompleta, continuasse a mostrare evidenti discontinuità. La visione continuista si era affermata combattendo il catastrofismo basato sul ricordo del diluvio universale e delle periodiche catastrofi seguite da nuovi atti creativi in cui aveva creduto Cuvier. Opponendosi a questi scenari e sostenendo che nel passato avessero agito tutte e sole le forze ancora operanti, scienziati come Lyell e Darwin avevano scelto l'unica alternativa che sembrava loro permettere uno studio scientifico del passato.

Il paradigma del continuismo, che era stato utile per superare concezioni mitiche, finì però con il costituire un freno al progresso quando indusse a ignorare le evidenze paleontologiche. I pochi che, basandosi su tali evidenze, avevano assunto posizioni «neocatastrofiste» erano stati a lungo emarginati dalla comunità scientifica, prima che fosse riconosciuta la realtà delle «estinzioni di massa». La più disastrosa, avvenuta alla fine dell'era primaria, intorno a 250 milioni di anni fa, provocò la scomparsa di circa il 95% delle specie. Oltre a una ventina di eventi minori, sono state individuate quattro estinzioni di massa di intensità media, una delle quali, dovuta all'impatto di un asteroide, alla fine del secondario, 65 milioni di anni fa, eliminò circa la metà delle specie allora viventi (inclusi i dinosauri). È chiaro che la storia della vita sulla Terra non può prescindere da questi eventi, che costringono ad abbandonare ogni idea di gradualità. Il lungo disconoscimento delle maggiori estinzioni di massa appare particolarmente strano se si osserva che esse sono avvenute sempre al confine tra ere o periodi geologici, evidentemente perché le cesure da esse provocate nell'evidenza paleontologica sono così chiare da aver fornito una guida ai geologi per le loro periodizzazioni sin dal XVIII secolo.

Le estinzioni di massa non sono la sola causa di discontinuità. Mentre Darwin credeva che l'evoluzione avvenisse soprattutto attraverso la lenta modifica delle specie, la teoria degli «equilibri punteggiati» di Gould ed Eldredge ha mostrato che le specie si modificano molto poco, rimanendo a lungo in equilibrio con il proprio ambiente, e l'evoluzione è dovuta in massima parte alla nascita di specie nuove. Il caso tipico è quello di una piccola popolazione di una specie che rimane isolata geograficamente: la piccolezza del gruppo permette l'affermarsi di mutazioni genetiche in tempi relativamente brevi, provocando un progressivo distanziarsi dalla specie madre, fino a dar vita a una specie nuova, che, se risulta meglio adattata all'ambiente di quella originaria, può sostituirla se e quando le due popolazioni rientrano in contatto. Poiché le transizioni avvengono non solo in un tempo breve (una nuova specie può formarsi in un tempo che è dell'ordine di grandezza di un centesimo della vita media di una specie), ma anche coinvolgendo una popolazione piccola in un'area ristretta, è chiaro che solo per un caso eccezionale potrebbero essere documentate dai fossili.

Anche se l'antica idea della scala naturae, nella sua generalità, era stata superata già da Lamarck, ne era sopravvissuto un frammento, minuscolo ma di grande importanza ideologica: quello relativo agli ominidi, che a lungo sono stati visti come una successione lineare di specie via via più vicine a noi. Da alcuni decenni anche quest'ultimo residuo dell'idea di un progresso lineare è stato eliminato: le scoperte paleoantropologiche hanno mostrato che l'evoluzione della nostra famiglia è meglio rappresentata da un modello «a cespuglio», con ramificazioni che hanno portato a più specie coesistenti in ogni epoca. Solo nelle ultime decine di migliaia di anni Homo sapiens si è imposto come l'unica specie del suo genere.

Anche il meccanismo che produce l'evoluzione è stato rivisto. Darwin aveva considerato soprattutto la selezione (e quindi competizione) tra individui, anche se aveva accennato anche alla competizione tra specie (senza la quale non si capirebbe la loro sistematica estinzione, che Darwin conosceva). I neodarwinisti esponenti della Moderna Sintesi avevano lasciato però cadere completamente questi accenni (presenti anche in vari altri autori, come Wallace e, in misura più organica, Kropotkin). Oggi la maggioranza dei biologi evoluzionisti riconosce che competizione e selezione agiscono a tutti i livelli, tra cellule, individui, popolazioni, specie, generi e gruppi tassonomici di livello più elevato. Una conseguenza importante sul piano ideologico è il riconoscimento del vantaggio selettivo dato dai comportamenti collaborativi, già individuato da Kropotkin, che toglie ogni validità al «darwinismo sociale», che aveva preteso di individuare su base scientifica la regola fondamentale delle comunità umane nella lotta per la vita tra i suoi membri.

Anche la fiducia di poter individuare in ogni caso la funzione di ciascun organo e il vantaggio selettivo di ogni mutamento apparso nel corso dell'evoluzione sembra oggi esagerata. Alcune modifiche possono essere causate da un semplice fenomeno di deriva genetica, senza essere né vantaggiose né svantaggiose; altre possono consistere in sottoprodotti di modifiche vantaggiose. Spesso un organo non è ottimizzato per la funzione svolta perché è stato ottenuto trasformando un suo antecedente che svolgeva una funzione completamente diversa. In sintesi, le mutazioni non esplorano indifferentemente tutte le possibili direzioni di cambiamento e la selezione non può quindi agire plasmando a volontà una materia amorfa, come aveva creduto Darwin, ma solo modificando il materiale fornito dalla storia precedente nelle direzioni permesse dalle complesse e rigide leggi (solo parzialmente esplorate) che regolano i rapporti tra genotipo e fenotipo.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 201

14. Lo studio del sistema nervoso




14.1 Dalle origini al periodo ellenico

Diverse antiche culture avevano qualche conoscenza sulla morfologia del cervello, anche perché molti popoli praticavano la trapanazione del cranio a scopo terapeutico: tra questi erano gli Egizi, che ci hanno lasciato sull'argomento i più antichi testi scritti. Tali testi non mostrano tuttavia alcuna conoscenza né delle funzioni del cervello né dell'esistenza di altri componenti del sistema nervoso.

Nel periodo ellenico la funzione del cervello è discussa da diversi autori; sappiamo che Alcmeone di Crotone (attivo probabilmente intorno al 500 a.C.) aveva sostenuto che fosse la sede delle attività mentali e ricevesse le percezioni. Sulla base di una tarda testimonianza si è anche ipotizzato che Alcmeone avesse scoperto i nervi ottici. Non vi sono tuttavia elementi per pensare che avesse descritto in generale struttura e funzione dei nervi, distinguendola da quella dei vasi sanguigni.

Il termine greco [...] (neuron), che nel periodo ellenistico fu usato per denotare i nervi, è un termine antico che in epoca classica poteva riferirsi a molte strutture non chiaramente distinte tra loro, come fibre nervose, tendini, legamenti cartilaginei e altro.

Nonostante l'intuizione di Alcmeone, il ruolo centrale del cervello nell'attività psichica, probabilmente perché non basato su una sufficiente base empirica, non venne acquisito in forma stabile nella cultura greca del periodo ellenico, ma si alternò alla visione che attribuiva tale ruolo al cuore. Per esempio, mentre Democrito e Platone seguirono Alcmeone, Aristotele ritenne che il cervello servisse soprattutto a rinfrescare il sangue.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 205

14.4 La localizzazione delle facoltà cerebrali

Le ricerche moderne sulla fisiologia del sistema nervoso sono usualmente fatte risalire al medico britannico Thomas Willis (1621-1675). Professore a Oxford e membro della Royal Society dal 1655, Willis fu uno degli scienziati inglesi più celebri del suo tempo. Le sue indagini su anatomia e funzioni delle varie strutture presenti nel cervello iniziarono nella sua Cerebri anatome (illustrata dal famoso architetto e scienziato Christopher Wren), pubblicata nel 1664, e continuarono nel decennio successivo. Willis realizzò un netto progresso nell'accuratezza della descrizione dell'anatomia del cervello e del sistema nervoso, ma le sue teorie fisiologiche e terapeutiche appaiono oggi molto meno interessanti. Chi ha letto i paragrafi precedenti non troverà, ad esempio, particolarmente nuova l'idea che i nervi sensori comunichino le sensazioni al cervello perché attraversati da un animal spirit e neppure il ruolo particolare attribuito al cervelletto (anche se all'antica idea che controllasse l'attività motoria volontaria Willis aggiunse il controllo delle attività circolatoria e respiratoria). È probabilmente molto più moderna, ma non particolarmente attraente, la sua convinzione che alcune malattie mentali potessero essere curate con bastonate sulla testa del paziente.

L'idea che alcune strutture cerebrali potessero svolgere particolari funzioni (come, almeno nel caso del cervelletto, era stato sostenuto già in epoca ellenistica) fu accantonata in seguito al successo della teoria dell'irritabilità di Haller, che aveva visto nel cervello nella sua interezza la sede del sensorium commune, ma fu ripresa negli scritti di uno strano personaggio, che esemplifica bene i percorsi complessi e contorti attraverso i quali si fecero strada molte idee della scienza moderna, almeno fino al primo Ottocento: Franz Joseph Gall (1758-1828).

Gall era convinto che particolari aree del cervello ospitassero ciascuna una diversa facoltà. Ne distinse ventisette, diciannove delle quali presenti anche negli animali; l'amore per i figli, la tendenza a uccidere, la memoria e l'istinto di proprietà erano incluse tra le facoltà comuni a uomini e animali, mentre tra le facoltà esclusivamente umane vi sarebbero state la facoltà metafisica, quella religiosa e la perseveranza. Secondo Gall ogni facoltà è presente in diversa misura, sin dalla nascita, in ciascun individuo e il loro sviluppo determina lo spessore dell'area corrispondente della corteccia; grazie alla plasticità del cranio dei neonati, le facoltà che si sviluppano maggiormente provocano protuberanze del cranio. L'espressione «avere il bernoccolo di qualcosa», oggi interpretata metaforicamente, nasce con un preciso riferimento anatomico negli scritti di Gall, che credette di individuare le varie aree studiando la conformazione cranica di molte persone, soprattutto criminali e malati di mente. Usando un termine coniato dal suo allievo Spurzheim, la nuova presunta «scienza» fu detta frenologia, ebbe larga diffusione e dette origine a teorie fisiognomiche che ebbero una sinistra influenza sull'antropologia criminale.

Gli aspetti ciarlataneschi di questa teoria non debbono far dimenticare i contributi di Gall allo sviluppo dell'anatomia del sistema nervoso (fu lui il primo, in particolare, a studiare le differenze tra materia grigia e materia bianca del cervello) né il fatto che l'idea della localizzazione delle facoltà cerebrali, affermatasi grazie a Gall, dette frutti pienamente scientifici in autori successivi.

Contributi decisivi furono dati dall'italiano Luigi Rolando (1773-1831) e dal francese Pierre Flourens (1794-1867), che si basarono entrambi su indagini sperimentali condotte in vivo in animali, danneggiandone parti diverse del cervello. Non è il caso di esaminare in dettaglio gli sviluppi successivi che, basandosi oltre che sulla vivisezione di animali anche sullo studio di uomini cerebrolesi, portarono nel corso dell'Ottocento a localizzare molte funzioni cerebrali. Ricordiamo solo il contributo di Paul Broca, che nel 1861, in seguito a un'autopsia condotta su un paziente afasico, individuò il ruolo svolto nella comprensione e produzione del linguaggio dall'area ora detta, appunto, «di Broca».

Questi progressi, ottenuti su base empirica, prescindevano tuttavia completamente dalla comprensione della struttura microscopica del sistema nervoso e, a maggior ragione, dei meccanismi biofisici che ne permettevano il funzionamento: non bisogna dimenticare che all'epoca di Broca nessuno sospettava l'esistenza dei neuroni.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 209

14.7 L'attività elementare dei neuroni e la complessità del sistema

All'inizio del XX secolo erano stati stabiliti due elementi fondamentali della neurofisiologia: la natura elettrica del segnale nervoso e la struttura e i collegamenti tra i neuroni. Senza descrivere il lavoro svolto nel mezzo secolo successivo da fisiologi, biofisici e biochimici per chiarire i meccanismi della trasmissione del segnale, riassumiamo brevemente i principali risultati raggiunti sul funzionamento elementare del sistema nervoso, ossia sui meccanismi sui quali è basata l'attività di un singolo neurone.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 211

14.8 Un cenno alle reti neurali

Gli aspetti biochimici della neurofisiologia non si sono ovviamente affatto esauriti con i pochi risultati ricordati fin qui. Argomenti come il meccanismo di differenziazione e crescita dei neuroni o la sintesi dei neurotrasmettitori sono stati e sono tuttora temi caldi di ricerca, anche con il fine di prevenire e curare le malattie neurodegenerative. È d'altra parte vero che il meccanismo elementare descritto nel paragrafo precedente è stato sufficiente per porre importanti sfide a matematici e fisici. Ci si è cioè chiesto se modelli matematici di reti basati sul meccanismo elementare di funzionamento dei neuroni potessero spiegare attività mentali semplici.

[...]

Non è il caso di descrivere qui i molti risultati ottenuti in questa direzione, ma solo di accennare ad alcune caratteristiche generali del settore. La prima è il suo progressivo slittamento dai tentativi di costruire modelli matematici del funzionamento del cervello alla progettazione di software di grande utilità pratica, perché adattabile alla soluzione di molti problemi non facilmente formalizzabili (come è il caso, ad esempio, del riconoscimento di una scrittura manoscritta): uno slittamento che sembra confermare che i metodi matematici siano più utili per progettare tecnologia che per fornire modelli di fenomeni biologici. Si tratta, d'altra parte, di un esempio di un fenomeno ricorrente nella storia della scienza: anche la progettazione medievale di planetari e astrari, concepiti come modelli dei moti celesti, finì con il generare, apparentemente come sottoprodotto, gli orologi meccanici.

Il caso delle reti neurali rientra in un fenomeno più generale che ha riguardato in tempi recenti le interazioni tra meccanica statistica (disciplina in cui si può includere lo studio delle reti neurali artificiali) e informatica. Per risolvere molti problemi di meccanica statistica si è mostrata molto utile la simulazione numerica. Poiché l'oggetto di studio è costituito da sistemi con molte componenti, le simulazioni numeriche dovevano trattare un gran numero di variabili, spesso usando il calcolo parallelo. Si scoprì che gli algoritmi sviluppati per tali simulazioni potevano essere utili per molti altri problemi, di varia origine (ad esempio di natura economica), che per essere trattati richiedono un gran numero di variabili. La meccanica statistica ha così generato una serie di tecniche utili in settori lontani dal suo ambito originario.

Mentre le reti neurali artificiali diventavano di interesse crescente per fisici, informatici e ingegneri, lo studio dei veri sistemi nervosi ha seguito altre strade: lo sviluppo recente delle neuroscienze è avvenuto soprattutto combinando la ricerca sperimentale sull'attività cerebrale (oggi visualizzabile con varie tecniche raffinate) con le scienze cognitive, con un contributo nel complesso scarso dei modelli matematici.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 217

15. Breve storia dei concetti di matematica e fisica




15.1 Cosa sono la matematica e la fisica?

Gli storici della scienza che hanno scritto una storia della matematica o una storia della fisica hanno per lo più assunto implicitamente l'esistenza statica di due discipline con questo nome sin dall'antichità.

La matematica fornirebbe un linguaggio alla fisica, ma di per sé sarebbe capace solo di elaborare tautologie; la fisica, procurandosi con il metodo sperimentale i contenuti empirici che esprime nel linguaggio matematico, fornirebbe invece una descrizione del mondo. Ad esempio l'affermazione che il quadrato costruito sull'ipotenusa è equivalente alla somma dei quadrati costruiti sui cateti, in quanto dimostrabile senza ricorrere a misure empiriche, sarebbe un teorema matematico, mentre il principio di Archimede, che fornisce la forza agente su un corpo immerso in un fluido, avendo un fondamento sperimentale, sarebbe una legge fisica.

Alcune semplici considerazioni bastano però a mostrare come il quadro precedente sia troppo semplicistico. L'affermazione appena ricordata sui quadrati costruiti su ipotenusa e cateti di un triangolo rettangolo era già nota nella matematica paleobabilonese, che ignorava però i procedimenti dimostrativi. Quello che per noi è il «teorema» di Pitagora per uno scriba paleobabilonese aveva quindi solo un fondamento empirico. Archimede aveva invece dimostrato come teorema l'affermazione oggi nota come suo «principio», deducendolo dai propri postulati dell'idrostatica. Naturalmente, nel formulare le sue teorie Archimede si era basato su una conoscenza sperimentale dei fenomeni di idrostatica, ma anche i postulati di Euclide dai quali deduciamo il teorema di Pitagora avevano avuto un'origine empirica.

Senza trattare qui direttamente il problema epistemologico dello status delle due scienze (problema che è di grande importanza per la filosofia della scienza) accontentiamoci per il momento di notare che non si tratta di un problema banale. Per affrontarlo può essere di qualche utilità ripercorrere la storia dei due concetti: una storia complessa e probabilmente non sufficientemente studiata.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 225

15.6 La scissione tra fisica e matematica e la storia della scienza


Le teorizzazioni metodologiche esposte da Newton e Cotes si diffusero insieme alla meccanica newtoniana. La scienza esatta ne risultò spezzata in due tronconi: la matematica e la fisica. Ambedue le scienze avevano ereditato dall'antica «matematica» il metodo quantitativo e molti risultati tecnici e dall'antica «fisica» (ossia dalla filosofia naturale) l'idea di produrre affermazioni assolutamente «vere». La differenza essenziale riguardò la natura di tale verità. Mentre le assunzioni della matematica (dette postulati) furono considerate verità immediatamente evidenti, le assunzioni della fisica (dette principi), furono considerate vere in quanto «provate dai fenomeni», come aveva scritto Cotes. Quanto alle altre affermazioni, esse potevano essere dedotte da quelle iniziali; mentre però nel caso della matematica il metodo dimostrativo era essenziale, costituendo l'unico metodo per stabilire verità non immediatamente evidenti, le affermazioni fisiche, pur essendo deducibili dai principi, erano considerate anche direttamente verificabili, e ciò indeboliva, nel loro caso, l'interesse per il metodo dimostrativo, il cui uso diveniva opzionale. Le differenze appena individuate erano naturalmente strettamente connesse alla diversa natura attribuita agli enti studiati dalle due discipline: gli enti «matematici», pur essendo utilizzabili per descrivere oggetti concreti, furono considerati astratti, mentre le entità «fisiche» furono considerate tanto concrete quanto gli oggetti ai quali erano riferite.

La scelta degli argomenti che furono considerati «matematici» o «fisici» può sembrare in una certa misura arbitraria. Ad esempio la statica e l'ottica finirono sotto l'etichetta «fisica», mentre la geometria rimase un capitolo essenziale della «matematica». Il metodo, che nell'antichità era stato lo stesso nei tre casi, si modificò in modo coerente ai nuovi criteri di classificazione. In geometria, in particolare, si indebolì il rapporto con la pratica del disegno, eliminando dalle trattazioni moderne tutte le proposizioni costruttive di Euclide. Nelle discipline incluse nella fisica si indebolì invece l'uso del metodo dimostrativo, finendo spesso col considerare «leggi sperimentali» anche affermazioni dimostrabili sulla base di principi semplici. Ad esempio nelle trattazioni moderne dell'idrostatica si enunciò come legge sperimentale il cosiddetto «principio di Archimede», che nel trattato originale di Archimede Sui galleggianti non era affatto un principio, ma era dimostrato come teorema. Slittamenti analoghi si possono documentare in diversi altri casi (ad esempio in statica) e sospettare in altri, come in quello della legge della rifrazione, che fu presentata in genere nelle trattazioni moderne direttamente come una verità sperimentale, invece di essere dedotta da un principio di minimo.

Il nome «matematica» rimase legato soprattutto a quei settori in cui l'uso dei trattati greci continuò a essere essenziale. Un buon motivo per questa scelta può essere individuato nella circostanza che quando, tra Seicento e Settecento, si compì la scissione tra matematica e fisica, si era in grado di usare compiutamente il metodo dimostrativo (che appariva essenziale per caratterizzare la matematica) solo su argomenti già sviluppati dagli autori classici o sui quali si poteva almeno seguire da vicino il loro modello. Naturalmente il nome «matematica» fu poi esteso anche agli argomenti sviluppati con continuità a partire da questi primi, ma lo sviluppo impetuoso della matematica nel Settecento e nel primo Ottocento, via via che si discostava dai contenuti classici, finì con l'allontanarsi anche dal rigore del metodo dimostrativo.

| << |  <  |