Copertina
Autore Oliver Sacks
Titolo Musicofilia
EdizioneAdelphi, Milano, 2009 [2008], Biblioteca 522 , pag. 486, cop.fle., dim. 14x22x3,4 cm , Isbn 978-88-459-2419-4
OriginaleMusicophilia. Tales of Music and the Brain [2007]
TraduttoreIsabella Blum
LettoreGiorgia Pezzali, 2009
Classe psichiatria , musica , scienze cognitive
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Indice


Prefazione                                                       13

PARTE PRIMA - Tormentati dalla musica                            21

 1. Un fulmine a ciel sereno: musicofilia improvvisa             23
 2. Una sensazione stranamente familiare: epilessie musicali     41
 3. Paura della musica: epilessia musicogena                     46
 4. La musica in testa: immagini mentali e immaginazione         55
 5. «Tarli», musica appiccicosa e motivi orecchiabili            67
 6. Allucinazioni musicali                                       78

PARTE SECONDA - Le dimensioni della musicalità                  121

 7. «Ragione e sentimento», ovvero le dimensioni
    della musicalità                                            123
 8. Le cose si dissociano: amusia e disarmonia                  134
 9. Papà si soffia il naso in sol: l'orecchio assoluto          161
10. Amusia cocleare, ovvero l'imperfetta percezione
    dell'altezza dei suoni                                      174
11. Ascolto in living stereo: ecco perché abbiamo due orecchie  188
12. Duemila opere: i savants musicali                           198
13. Un mondo uditivo: musica e cecità                           209
14. Un suono verde brillante: sinestesia e musica               215

PARTE TERZA - Memoria, movimento e musica                       239

15. Qui e ora: musica e amnesia                                 241
16. Parola e canto: afasia e musicoterapia                      274
17. Movimenti accidentali e significato:
    discinesia e cantillazione                                  287
18. Ritrovare l'unità: la musica e la sindrome di Tourette      291
19. Tenere il tempo: ritmo e movimento                          298
20. Melodia cinetica: il morbo di Parkinson e la musicoterapia  316
21. Dita fantasma: il caso del pianista con un braccio solo     331
22. Gli atleti dei piccoli muscoli: la distonia del musicista   336

PARTE QUARTA - Emozione, identità e musica                      349

23. Nella veglia e nel sonno: sogni musicali                    351
24. Seduzione e indifferenza                                    360
25. Lamentazioni: musica, follia e malinconia                   373
26. Il caso di Harry S.: musica ed emozione                     382
27. Senza freni: lobi temporali e musica                        388
28. Una specie ipermusicale: la sindrome di Williams            403
29. Musica e identità: demenza e musicoterapia                  422

Ringraziamenti                                                  439
Bibliografia                                                    445
Indice analitico                                                469


 

 

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Pagina 13

PREFAZIONE



Θ proprio strano vedere un'intera specie – miliardi di persone – ascoltare combinazioni di note prive di significato e giocare con esse: miliardi di persone che dedicano buona parte del loro tempo a quella che chiamano «musica», lasciando che essa occupi completamente i loro pensieri. Questo, se non altro, era un aspetto degli esseri umani che sconcertava i Superni, gli alieni dall'intelletto superiore descritti da Arthur C. Clarke nel romanzo Le guide del tramonto. Spinti dalla curiosità, essi scendono sulla Terra per assistere a un concerto, ascoltano educatamente e alla fine si congratulano con il compositore per la sua «grande creatività» – sebbene per loro l'intera faccenda rimanga incomprensibile. Questi alieni non riescono a concepire che cosa accada negli esseri umani quando fanno o ascoltano musica, perché in loro non accade proprio nulla: in quanto specie, sono creature senza musica.

Possiamo immaginare i Superni, risaliti sulle loro astronavi, ancora intenti a riflettere: dovrebbero ammettere che, in un modo o nell'altro, questa cosa chiamata «musica» ha una sua efficacia sugli esseri umani ed è fondamentale nella loro vita. Eppure la musica non ha concetti, non formula proposizioni; manca di immagini e di simboli, ossia della materia stessa del linguaggio. Non ha alcun potere di rappresentazione. Né ha alcuna relazione necessaria con il mondo reale.

Esistono rari esseri umani che, come i Superni, forse mancano dell'apparato neurale per apprezzare suoni o melodie. D'altra parte, sulla quasi totalità di noi, la musica esercita un enorme potere, indipendentemente dal fatto che la cerchiamo o meno, o che riteniamo di essere particolarmente «musicali». Una tale inclinazione per la musica – questa «musicofilia» – traspare già nella prima infanzia, è palese e fondamentale in tutte le culture e probabilmente risale agli albori della nostra specie. Può essere sviluppata o plasmata dalla cultura in cui viviamo, dalle circostanze della vita o dai particolari talenti e punti deboli che ci caratterizzano come individui; ciò nondimeno, è così profondamente radicata nella nostra natura che siamo tentati di considerarla innata, proprio come Edward O. Wilson considera innata la «biofilia», il nostro sentimento verso gli altri esseri viventi. (Forse la stessa musicofilia è una forma di biofilia, giacché noi percepiamo la musica quasi come una creatura viva).

Il canto degli uccelli – per quanto abbia evidenti usi adattativi (nel corteggiamento, nel comportamento aggressivo, nella delimitazione del territorio, eccetera) – ha una struttura relativamente fissa e, in larga misura, è cablato nel sistema nervoso aviario (sebbene vi siano alcuni uccelli canori – pochissimi – che sembrano improvvisare o cantare duetti). L'origine della musica umana è molto meno facile da comprendere. Lo stesso Darwin ne era palesemente sconcertato, e nell' Origine dell'uomo scrisse: «Giacché né il piacere legato alla produzione di note musicali, né la capacità [di produrle] sono facoltà che abbiano il benché minimo utile diretto per l'uomo ... devono essere collocate fra le più misteriose di cui egli è dotato». Ai giorni nostri, Steven Pinker ha definito la musica «una leccornia uditiva», chiedendosi «Che beneficio può esserci nel dedicare tempo ed energie a produrre tintinnii? ... In termini di cause ed effetti biologici, la musica è inutile ... potrebbe svanire dalla nostra specie lasciando il nostro modo di vivere essenzialmente immutato sotto ogni altro aspetto». Pinker è un individuo molto musicale e sicuramente percepirebbe l'assenza di musica come un grave impoverimento della sua vita; eppure non vede in essa né in qualsiasi altra arte un adattamento evolutivo diretto. In un articolo del 2007, suggerisce che

probabilmente molte arti non hanno alcuna funzione adattativa. Forse sono sottoprodotti di altri due tratti: i sistemi motivazionali che ci fanno provare piacere quando percepiamo segnali legati a esiti adattativi (sazietà, sesso, stima, ambienti ricchi di informazione) e il know how tecnologico per creare dosi purificate e concentrate di tali segnali.

Pinker ritiene (e non è il solo) che le nostre capacità musicali – per lo meno alcune di esse – siano rese possibili attraverso l'uso, il reclutamento o la cooptazione di sistemi cerebrali già sviluppati per altre funzioni. Questa ipotesi sarebbe coerente con il fatto che negli esseri umani non esiste un singolo «centro della musica», ma si assiste al coinvolgimento di una buona decina di reti, distribuite in tutto il cervello. Stephen Jay Gould , che fu il primo ad affrontare a viso aperto la questione lungamente dibattuta dei cambiamenti non adattativi, parla a questo proposito non di ad-attamenti ma di ex-attamenti (exaptations), e individua nella musica un chiaro esempio di questi ultimi. (Probabilmente William James pensava a qualcosa del genere quando scrisse che la nostra suscettibilità alla musica e altri aspetti della «nostra vita intellettuale, morale ed estetica superiore» avevano fatto il loro ingresso nella mente umana «dall'entrata posteriore»).

Eppure, a prescindere da tutto questo – dalla misura in cui le facoltà e la suscettibilità musicali umane siano cablate nel cervello o siano piuttosto sottoprodotti di altre facoltà e inclinazioni – la musica rimane fondamentale e centrale in tutte le culture.

Noi esseri umani, come specie, siamo creature musicali non meno che linguistiche, e questo aspetto della nostra natura assume molte forme diverse. Siamo tutti in grado (con pochissime eccezioni) di percepire la musica: l'altezza delle note, il timbro, l'ampiezza degli intervalli, i contorni melodici, l'armonia e (forse nel modo più primordiale) il ritmo. Noi integriamo tutto questo e «costruiamo» mentalmente la musica servendoci di molte parti diverse del cervello. A questo apprezzamento strutturale, in larga misura inconscio, si aggiunge poi una reazione emozionale spesso intensa e profonda. Schopenhauer scrisse: «Ciò che nella musica vi è di ineffabilmente intimo ... eppur così inspiegabile, sta nel suo riprodurre tutti i moti della nostra più intima natura, ma senza la loro tormentosa realtà». Prima ancora aveva detto: «... la musica non esprime che la quintessenza della vita e dei suoi avvenimenti, mai essi stessi».

L'ascolto della musica è un'esperienza non solo uditiva ed emozionale, ma anche motoria. Come scrisse Nietzsche , quando ascoltiamo la musica «ascoltiamo con tutti i muscoli». Teniamo il tempo della musica senza volerlo, anche quando non siamo consapevoli di prestarle attenzione, e con il volto e le posture del corpo rispecchiamo la «trama» della melodia, insieme ai pensieri e ai sentimenti che essa provoca.

Gran parte di ciò che accade durante la percezione della musica può aver luogo anche quando essa «è suonata nella mente». L'immaginazione della musica, perfino in individui relativamente poco musicali, tende a essere assai fedele all'originale: non solo nella melodia e nel sentimento, ma anche nell'altezza assoluta e nel tempo. Alla base di tutto questo c'è la straordinaria tenacia della memoria musicale, così che gran parte di quello che viene udito nei primi anni di vita può rimanere «inciso» nel cervello per il resto dell'esistenza. Il sistema uditivo e il sistema nervoso degli esseri umani presentano infatti, nei confronti della musica, una spiccata e raffinata sensibilità. Ancora non sappiamo in quale misura ciò sia dovuto alle caratteristiche intrinseche della musica stessa (i suoi complessi disegni sonori intessuti nel tempo, la sua logica, la sua forza, le sequenze indivisibili, i ritmi e le ripetizioni insistenti, il modo misterioso in cui essa incarna emozione e «volontà») ; e in quale misura dipenda invece da particolari risonanze, sincronie, oscillazioni, sollecitazioni reciproche o retroazioni nei circuiti neurali che, immensamente complessi, si sviluppano su molteplici livelli e sono alla base della capacità di percepire e riprodurre la musica.

D'altra parte, tale meraviglioso meccanismo – forse proprio perché così complesso e altamente sviluppato — è vulnerabile a varie distorsioni, eccessi e cedimenti. La capacità di percepire (o immaginare) la musica può essere compromessa in presenza di alcune lesioni cerebrali; esistono molte forme di questa amusia. All'altro estremo, l'immaginazione musicale può diventare eccessiva e incontrollabile, portando all'incessante ripetizione di motivetti orecchiabili o addirittura ad allucinazioni musicali. In alcune persone, la musica può provocare crisi convulsive. Esistono particolari evenienze neurologiche, «disturbi delle capacità», che possono colpire i musicisti di professione. In alcune circostanze, la normale associazione fra intellettuale ed emozionale può venir meno, al punto che alcuni percepiscono la musica in modo accurato senza farsene tuttavia coinvolgere e restandole indifferenti; altri, al contrario, finiscono per esserne coinvolti in modo appassionato, a dispetto dell'incapacità di trovare un «senso» qualsiasi in ciò che percepiscono. Mentre ascoltano la musica, alcune persone – un numero sorprendentemente alto – «vedono» colori o provano varie sensazioni «gustative», «olfattive» o «tattili»: tale sinestesia, d'altra parte, può essere considerata non tanto un sintomo, quanto un dono.

William James parlava della nostra «suscettibilità alla musica» e se è vero che la musica influenza tutti noi – ci può calmare, animare, dare conforto, emozionare, o contribuire a organizzarci e sincronizzarci nel lavoro o nel gioco –, è vero anche che può rivelarsi particolarmente efficace e avere un immenso potenziale terapeutico in pazienti con affezioni neurologiche assai diverse. Queste persone possono rispondere in modo intenso e specifico alla musica (e, a volte, quasi ad essa soltanto). Alcuni di tali pazienti hanno problemi corticali diffusi derivanti da ictus, dal morbo di Alzheimer o da altre cause di demenza; altri presentano sindromi corticali specifiche: perdita del linguaggio o di funzioni motorie, amnesie o sindromi frontali. Alcuni sono ritardati, alcuni autistici; altri hanno sindromi sottocorticali come il parkinsonismo o disturbi del movimento di natura diversa. Tutte queste condizioni, e molte altre ancora, possono rispondere alla musica e alla musicoterapia.


Il primo stimolo a pensare alla musica e a scriverne mi si presentò nel 1966, quando vidi i profondi effetti che essa esercitava sui pazienti gravemente parkinsoniani che in seguito avrei descritto in Risvegli. E da allora, in molti modi – più di quanti potessi forse immaginare – la musica si è imposta di continuo alla mia attenzione, mostrandomi i suoi effetti su quasi ogni aspetto della funzione cerebrale, e della vita.

La voce «musica» è sempre una delle prime che vado a cercare nell'indice di un nuovo manuale di neurologia o di fisiologia. Tuttavia, fino al 1977, quando Macdonald Critchley e Ronald Alfred Henson pubblicarono il loro libro La musica e il cervello, ricco di esempi storici e clinici, l'argomento era menzionato soltanto di rado. Forse, una ragione per spiegare la scarsità di casi clinici musicali è che raramente i medici interrogano i loro pazienti sugli incidenti che interessano la percezione della musica (un problema di linguaggio, invece, tanto per fare un esempio, affiorerà subito). Un'altra ragione di questa dimenticanza è che ai neurologi piace descrivere, spiegare e scovare ipotetici meccanismi: e prima degli anni Ottanta le neuroscienze non si erano praticamente mai occupate della musica.

Questa situazione è del tutto cambiata negli ultimi vent'anni, e oggi disponiamo di nuove tecnologie che ci consentono di osservare il cervello di un essere umano vivente mentre ascolta e immagina — e perfino mentre compone — della musica. Esiste oggi un corpus di ricerche, vastissimo e in rapida espansione, sulle basi neurali della percezione e dell'immaginazione musicali, come pure sui disturbi complessi e spesso bizzarri ai quali esse sono soggette. Queste nuove acquisizioni delle neuroscienze sono oltremodo stimolanti, tuttavia comportano sempre anche un certo rischio: e cioè che la semplice arte dell'osservazione possa andare perduta, la descrizione clinica divenga superficiale e la ricchezza del contesto umano finisca per essere ignorata.

Θ evidente che sono necessari tutti e due gli approcci: occorre miscelare giudiziosamente l'osservazione e la descrizione «all'antica» con gli ultimi ritrovati della tecnologia – e io qui ho cercato di incorporare entrambi. Soprattutto, però, ho cercato di ascoltare i miei pazienti e soggetti, di immaginare le loro esperienze e di penetrare in esse: sono proprio queste, infatti, che costituiscono il cuore di Musicofilia.

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1
UN FULMINE A CIEL SERENO:
MUSICOFILIA IMPROVVISA



A quarantadue anni, Tony Cicoria era un uomo robusto e in ottima forma; giocatore di football ai tempi del college, era diventato uno stimato chirurgo ortopedico in una cittadina nella parte settentrionale dello Stato di New York. In un pomeriggio d'autunno, si trovava in un padiglione sulle rive di un lago per una riunione di famiglia. Era una bella giornata ventosa, ma lui fece caso, in lontananza, ad alcune nubi temporalesche. Aveva tutta l'aria di voler piovere.

Uscito dal padiglione si diresse a un telefono pubblico per chiamare sua madre (era il 1994, prima dell'èra dei cellulari). Ricorda ancora ogni secondo di ciò che accadde poi: «Stavo parlando con mia madre al telefono. Pioveva appena, si sentiva tuonare in lontananza. Mia madre riattaccò. Il telefono era a una trentina di centimetri da dove mi trovavo io, quando fui colpito. Ricordo un lampo di luce uscire dall'apparecchio. Mi prese in pieno viso. La prima cosa che ricordo, subito dopo, è che stavo volando all'indietro».

«Poi» e qui sembrò esitare prima di raccontarmelo «stavo volando in avanti. Stupefatto. Mi guardai intorno. Vidi il mio corpo per terra. Dissi a me stesso: "Cazzo, sono morto". Vidi della gente radunarsi convergendo intorno al corpo. E vidi una donna — una che prima era in piedi proprio dietro di me, in attesa che io liberassi il telefono — mettersi sopra al corpo e praticargli una manovra di rianimazione ... Salii fluttuando le scale, e la coscienza mi venne dietro; vidi i miei figli ed ebbi la percezione che sarebbero stati bene. Poi mi ritrovai circondato da una luce bianco-azzurra ... una sensazione di enorme benessere e di pace. Vidi scorrere velocissimi, vicino a me, i momenti migliori della mia vita e quelli peggiori. Non erano associati ad alcuna emozione ... puro pensiero: estasi pura. Ebbi la percezione di accelerare, di essere attirato verso l'alto ... percepii velocità e direzione. Poi, mentre stavo dicendo a me stesso: "Questa è la sensazione più splendida che abbia mai provato" — PAM! Ero tornato».

Il dottor Cicoria capì di essere tornato nel suo corpo perché sentì dolore — il dolore causato dalle bruciature al volto e al piede sinistro, dove la scarica elettrica era entrata e uscita — e, si rese conto, «solo un corpo prova dolore». Voleva tornare indietro, pensava, voleva dire a quella donna di smetterla con la rianimazione, di lasciarlo morire; ma ormai era troppo tardi: era stabilmente tornato fra i vivi. Dopo uno o due minuti, quando riuscì a parlare, disse: «Va tutto bene, sono un medico!». La donna (emerse in seguito che faceva l'infermiera in una unità di terapia intensiva) replicò: «Qualche minuto fa non andava bene per niente».

Arrivò la polizia; volevano chiamare un'ambulanza, ma Cicoria rifiutò. Così lo portarono a casa («mi sembrò di impiegarci ore»), da dove poté chiamare il suo medico, un cardiologo. Questi, visitandolo, pensò che Cicoria avesse avuto un breve arresto cardiaco, ma non riuscì a trovare nulla fuori posto, né a un esame obiettivo, né facendogli un ECG. «In questi casi, o vivi o muori» osservò. Pensava che il dottor Cicoria non avrebbe patito alcuna conseguenza per quel bizzarro incidente. Cicoria consultò anche un neurologo: si sentiva indolente (cosa estremamente insolita per lui) e aveva qualche problema di memoria. Gli capitava di dimenticare nomi di persone che conosceva bene. Fu sottoposto a un esame neurologico; gli fecero un EEG e una risonanza magnetica. Ancora una volta, sembrava non ci fosse nulla fuori posto.

Un paio di settimane dopo, ritrovate le energie, il dottor Cicoria tornò al lavoro. Aveva ancora qualche problema con la memoria — capitava che dimenticasse il nome di malattie rare o di procedure operatorie; tutte le abilità chirurgiche, però, erano intatte. Scomparsi nell'arco di altre due settimane i problemi di memoria, Cicoria pensò che ormai la faccenda fosse definitivamente chiusa.

Ciò che accadde poi lo riempie di meraviglia ancora oggi, a distanza di dodici anni. Quando in apparenza la vita era ormai tornata alla norma, «all'improvviso, nell'arco di due o tre giorni, mi venne un insaziabile desiderio di ascoltare musica per pianoforte». Era proprio una cosa senza precedenti. Da bambino, mi disse, aveva preso qualche lezione di piano, «ma senza alcun reale interesse». Non aveva un pianoforte in casa. Quella che ascoltava di solito era musica rock.

Spinto da questo improvviso, intenso desiderio di musica per pianoforte, Cicoria cominciò ad acquistare dischi e si innamorò in modo particolare di un'incisione di Vladimir Askenazi, Chopin Favorites: la Polacca «Militare», lo Studio «Vento d'inverno», lo Studio «Sui tasti neri», la Polacca in la bemolle maggiore e lo Scherzo in si bemolle minore. «Mi piacevano tutti moltissimo» mi spiegò Tony. «Volevo suonarli io. Ordinai tutti gli spartiti. A questo punto, una delle nostre baby-sitter ci chiese il permesso di portare il suo pianoforte da noi; così, proprio nel momento in cui ne desideravo immensamente uno, ecco che mi arrivava uno strumento: un piccolo piano verticale, molto bello. Per me era perfetto. Leggevo appena la musica, a malapena riuscivo a suonare, ma cominciai a imparare da autodidatta». Erano passati più di trent'anni da quelle poche lezioni prese da bambino, e si sentiva le dita rigide e legate.

E poi, subito dopo questo improvviso desiderio di pianoforte, Cicoria cominciò a sentirsi suonare in testa della musica. «La prima volta» mi disse «fu in sogno. Ero su un palco, con uno smoking addosso; stavo suonando qualcosa che avevo scritto io. Mi svegliai stupito, e la musica era ancora lì, nella mia testa. Saltai giù dal letto, e cercai di metter nero su bianco tutto quello che riuscivo a ricordare. Ma non sapevo da che parte cominciare per scrivere con le note ciò che sentivo». Questo non era certo sorprendente: prima di allora, non aveva mai cercato di scrivere della musica usando la notazione. Adesso, però, ogni volta che sedeva al piano per lavorare su Chopin, ecco che subentrava la sua musica: «Affiorava e mi assorbiva completamente. Era una presenza prepotente».

Proprio non sapeva che cosa pensare di questa musica perentoria che si intrometteva in lui sopraffacendolo. Erano forse delle allucinazioni musicali? No, disse il dottor Cicoria, non erano allucinazioni: «ispirazione» era una parola più appropriata. La musica era là, in lui, nel profondo – o comunque da qualche parte — e tutto quello che lui doveva fare era lasciare che gli venisse incontro. «Θ come una frequenza, una banda radio. Se io mi apro, lei arriva. Insomma, intendo che "viene dal cielo", come diceva Mozart».

La sua musica è incessante: «Non si esaurisce mai» continuò Cicoria. «Quanto meno, sono io che devo spegnerla».

Ora Cicoria doveva combattere non solo per imparare a suonare Chopin, ma anche per dar forma alla musica che gli scorreva continuamente in testa, provando a suonarla al piano, fissandola sulla carta. «Era una lotta terribile» mi disse. «Mi alzavo alle quattro di mattina e suonavo finché non andavo al lavoro; e quando tornavo a casa, me ne stavo al piano tutta la sera. Mia moglie non era certo contenta. Ero come posseduto».

Nel terzo mese dall'incidente, Cicoria (che un tempo era stato un tipo socievole, tutto casa e famiglia, quasi indifferente alla musica) si ritrovò così ispirato, addirittura posseduto, dalla sua nuova passione che quasi non trovava il tempo di fare altro. Gli venne in mente che forse era stato «salvato» per uno scopo particolare. «Arrivai a pensare» mi raccontò «che la musica fosse l'unica ragione per la quale mi era stato concesso di sopravvivere». Gli chiesi del suo rapporto con la religione prima dell'incontro con il fulmine. Aveva ricevuto un'educazione cattolica, mi disse, ma non era mai stato troppo osservante: oltretutto, aveva qualche credenza «non proprio ortodossa», per esempio la reincarnazione.

Era giunto a convincersi di essere lui stesso protagonista di una sorta di reincarnazione: aveva subito una metamorfosi e ricevuto un dono speciale, una missione – quella di «sintonizzarsi» sulla musica che lui chiamava, solo per metà metaforicamente, «la musica venuta dal cielo». Spesso, essa si presentava come un «torrente assoluto» di note senza interruzioni fra una e l'altra – senza pause – e toccava a lui dar loro un contorno e una forma. (Mentre mi raccontava questo, mi venne in mente Caedmon, il poeta anglosassone del settimo secolo, un pastore privo di istruzione che si diceva avesse ricevuto l'«arte del canto» in sogno, una notte, e che aveva passato il resto della vita tessendo le lodi di Dio e del creato nei suoi inni e nelle sue poesie).

Cicoria continuò a lavorare alla tecnica del pianoforte e alla composizione. Acquistò libri sulla notazione musicale e subito si rese conto di aver bisogno di un maestro. Andava ai concerti tenuti dai suoi esecutori preferiti, ma non aveva nulla a che fare con i circoli musicali della sua città o con le attività musicali che vi si svolgevano. La sua era una ricerca solitaria, qualcosa fra lui e la sua musa.

Gli chiesi se avesse sperimentato altri cambiamenti dal giorno in cui era stato colpito dal fulmine: un nuovo apprezzamento dell'arte, forse, oppure gusti diversi nella lettura, o nuove credenze. Cicoria mi disse che dopo quella sua esperienza di quasi-morte era diventato «molto spirituale»: aveva cominciato a leggere tutti i libri che era riuscito a trovare sulle esperienze di quasi-morte o sulle persone colpite dai fulmini. Inoltre, si era fatto «un'intera biblioteca su Tesla» e aveva raccolto qualsiasi cosa riguardasse il potere, meraviglioso e terribile, dell'elettricità ad alto voltaggio. Era convinto di riuscire a percepire, a volte, «aure» di luce o di energia intorno al corpo delle persone: una cosa che non gli era mai capitata prima di essere colpito dal fulmine.

Passarono alcuni anni e, nella sua nuova vita, Cicoria non perse mai l'ispirazione. Continuò a lavorare a tempo pieno come chirurgo, ma il suo cuore e la sua mente erano ormai concentrati sulla musica. Nello stesso anno del suo divorzio, il 2004, ebbe uno spaventoso incidente in motocicletta, del quale non conservò alcun ricordo. La sua Harley fu tamponata da un altro veicolo e lui, incosciente e ferito in modo grave, fu ritrovato in un fosso con le ossa rotte, la milza spappolata, un polmone perforato, contusioni cardiache e, nonostante il casco, un trauma cranico. A dispetto di tutto questo, guarì completamente e in capo a due mesi era di nuovo al lavoro. Né l'incidente, né il trauma cranico e nemmeno il divorzio sembravano aver scalfito la sua passione per l'esecuzione musicale e la composizione.

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La scorsa primavera, Cicoria prese parte a un ritiro musicale di dieci giorni per studenti, dilettanti di talento e professionisti. Il luogo dell'evento faceva anche da show room per Erica vanderLinde Feidner, che oltre a essere una pianista è specializzata nel trovare il pianoforte perfetto per ciascuno dei suoi clienti. Tony aveva appena acquistato uno dei suoi strumenti, un Bφsendorfer a coda, prototipo unico fabbricato a Vienna; Erica pensava che Tony avesse uno straordinario istinto per individuare un pianoforte che avesse esattamente il suono che desiderava lui. Secondo Cicoria, quello era un buon momento e un buon luogo per debuttare come musicista.

Per il suo concerto preparò due pezzi: il suo primo amore, lo Scherzo in si bemolle minore di Chopin; e la sua prima composizione, che aveva intitolato Rapsodia, opera 1. Il suo modo di suonare e la sua storia elettrizzarono tutti i presenti al ritiro (molti fantasticarono di poter essere a loro volta colpiti da un fulmine). Come disse Erica, Tony suonò con «gran passione, grande brio» – e se non proprio con un genio soprannaturale, quanto meno con un'abilità degna di elogio: impresa sorprendente per uno che in effetti non aveva alcuna formazione musicale e aveva imparato a suonare da autodidatta a quarantadue anni.


Il dottor Cicoria mi chiese che cosa pensassi, tutto considerato, della sua storia. Mi ero mai imbattuto in qualcosa di simile? Io gli chiesi che cosa ne pensasse lui, che interpretazione desse di quanto gli era accaduto. Mi rispose che come medico proprio non sapeva come spiegare gli eventi, e si vedeva quindi costretto a considerarli in termini «spirituali». Io ribattei che secondo me, senza nulla togliere alla dimensione spirituale, perfino gli stati della mente più esaltati e le trasformazioni più sorprendenti dovevano avere una qualche base fisica o per lo meno un correlato fisiologico nell'attività neurale.

Quando era stato colpito dal fulmine, il dottor Cicoria aveva vissuto un'esperienza di quasi-morte e, insieme, un'esperienza extracorporea. Per dare ragione di queste ultime sono state chiamate in causa molte spiegazioni soprannaturali o mistiche; esse sono state però anche oggetto – ormai da un secolo, o forse più – di indagine neurologica. Lo schema di tali esperienze sembra relativamente stereotipato: l'individuo ha la sensazione di non essere più nel proprio corpo ma fuori di esso e molto spesso lo guarda da due-tre metri di altezza (i neurologi chiamano questo dettaglio «autoscopia»). Il soggetto ha la sensazione di vedere chiaramente la stanza, le persone e gli oggetti nei pressi, ma li percepisce da una prospettiva aerea. Chi ha avuto esperienze di questo tipo spesso descrive sensazioni vestibolari, per esempio quella di «galleggiare» o di «volare». Le esperienze extracorporee possono ispirare paura o gioia o un senso di distacco; di solito però sono descritte come intensamente «reali»: assolutamente diverse da sogni o allucinazioni. Sono state riferite in molti tipi di esperienze di quasi-morte, come pure nel caso di crisi epilettiche del lobo temporale. Alcuni dati indicano che sia gli aspetti visivo-spaziali, sia quelli vestibolari delle esperienze extracorporee sono legati a un disturbo della funzione corticale, soprattutto a livello della giunzione fra lobi temporali e parietali.

Quella descritta dal dottor Cicoria, però, non era soltanto un'esperienza extracorporea. Cicoria vide una luce bianco-azzurra, vide i suoi figli, la sua vita intera gli passò davanti agli occhi come un flash, provò un senso di estasi e, soprattutto, ebbe la percezione di qualcosa di trascendentale ed enormemente importante. Quale potrebbe essere la base neurale di tutto questo? Esperienze di quasi-morte simili a questa sono state spesso descritte da persone che si sono trovate o hanno creduto di trovarsi in grande pericolo, non importa se coinvolte in incidenti improvvisi, colpite da fulmini o, più comunemente, rianimate dopo un arresto cardiaco. Tutte queste situazioni non sono solo permeate di terrore; ci sono buone probabilità che causino anche una brusca caduta della pressione arteriosa con una riduzione del flusso ematico a livello cerebrale (e, in caso di arresto cardiaco, con una privazione di ossigeno del cervello). Θ probabile che in questi stati vi sia un'intensa attivazione emozionale e un'impennata di noradrenalina e altri neurotrasmettitori, indipendentemente dal fatto che l'emozione sia dominata dal terrore o dall'estasi. A tutt'oggi, non abbiamo un'idea precisa di quali possano essere gli effettivi correlati neurali di tali esperienze; le alterazioni della coscienza e dell'emozione che vi hanno luogo, tuttavia, sono molto profonde e devono coinvolgere le parti emozionali del cervello – l'amigdala e i nuclei del tronco encefalico – come pure la corteccia.

Mentre le esperienze extracorporee hanno il carattere di un'illusione percettiva (per quanto complessa e singolare), le esperienze di quasi-morte hanno tutti i segni distintivi dell'esperienza mistica definiti da William James: passività, ineffabilità, transitorietà e una qualità noetica. Quando vive un'esperienza di quasi-morte, l'individuo è del tutto consumato, spazzato via, quasi letteralmente, in un lampo (a volte un tunnel o un imbuto) di luce, e attirato verso un Aldilà: al di là della vita, al di là dello spazio e al di là del tempo. Mentre ci si libra verso la propria destinazione, si ha la sensazione di guardare tutto per l'ultima volta, di dare un addio (estremamente accelerato) alle cose terrene, ai luoghi e alle persone e agli eventi della propria vita, insieme a un senso di estasi e di gioia: un simbolismo archetipico della morte e della trasfigurazione. Chi ha vissuto esperienze come queste non le liquida con facilità; a volte esse possono portare a una conversione o a una metanoia, ovvero a un cambiamento radicale del modo di pensare che altera la direzione e l'orientamento di tutta una vita. Non si può supporre, non più di quanto lo si possa fare nel caso delle esperienze extracorporee, che tali eventi siano pura fantasia: tutte le descrizioni enfatizzano aspetti molto simili. Anche le esperienze di quasi-morte devono avere una loro base neurologica, qualcosa che alteri profondamente la coscienza stessa.

Che pensare della straordinaria acquisizione di musicalità del dottor Cicoria, della sua improvvisa musicofilia? Pazienti con degenerazione delle parti frontali del cervello, la cosiddetta demenza frontotemporale, vanno a volte incontro – nel momento in cui perdono le capacità di astrazione e il linguaggio – alla comparsa o alla liberazione, comunque sorprendenti, di talenti e passioni musicali; ma questo chiaramente non era il caso del dottor Cicoria, il quale rimase perfettamente in grado di esprimersi e mantenne le proprie elevate competenze sotto ogni aspetto. Nel 1984, Daniel Jacome descrisse un paziente che aveva avuto un ictus riportando danni all'emisfero sinistro del cervello; insieme all'afasia e ad altri problemi, l'uomo aveva in seguito sviluppato un'«ipermusia» e una «musicofilia». Ma nulla indicava che Tony Cicoria avesse subìto un qualsiasi danno cerebrale significativo, a parte un disturbo molto transitorio che aveva interessato i sistemi mnemonici per una o due settimane dopo il colpo inferto dal fulmine.

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La maggior parte dei miei pazienti e corrispondenti con allucinazioni musicali ha avuto una perdita di udito, in molti casi grave. Non tutti, ma parecchi di loro hanno anche avuto qualche tipo di «rumore nell'orecchio» – rombi, sibili, altre forme di tinnito o anche, paradossalmente, fenomeni di reclutamento: un'amplificazione anormale e spesso spiacevole di voci e rumori particolari. A volte, sembra che a spingere l'individuo oltre una soglia critica contribuiscano fattori aggiuntivi come una malattia, un intervento chirurgico, oppure un'ulteriore riduzione dell'udito.

Detto questo, circa un quinto dei miei corrispondenti non presenta riduzioni significative dell'udito; tra coloro che ne lamentano una compromissione, solo circa il 2 per cento sviluppa allucinazioni musicali (considerando il numero crescente di persone anziane con ipoacusia, però, ciò significa che potenzialmente centinaia di migliaia di persone sono candidate a sperimentare il fenomeno). La maggioranza dei miei corrispondenti è costituita da anziani ed esiste una considerevole sovrapposizione fra questa popolazione e quella dei soggetti con problemi di udito. Pertanto, sebbene né l'età né la perdita dell'udito siano sufficienti da sole a causare le allucinazioni uditive, la combinazione di un cervello che invecchia con una compromissione dell'udito o con altri fattori può spingere quello che è un fragile equilibrio fra inibizione ed eccitazione verso un'attivazione patologica dei sistemi uditivi e musicali del cervello.

Alcuni dei miei corrispondenti e pazienti, tuttavia, non sono né anziani, né duri d'orecchio: uno era un bambino di nove anni.

Esistono pochissimi casi documentati di allucinazioni musicali in bambini più piccoli - malgrado non sia chiaro se ciò rappresenti l'effettiva rarità di tali allucinazioni nei bambini o piuttosto la loro reticenza o incapacità di parlarne. Michael B., però, aveva allucinazioni musicali chiarissime. I suoi genitori dissero che erano costanti, «senza tregua, dalla mattina alla sera ... Sente una canzone dopo l'altra. Quando è stanco o teso, la musica aumenta di volume ed è distorta». Michael se ne lamentò per la prima volta a sette anni, dicendo: «Sento della musica nella testa ... Devo controllare la radio per vedere se è accesa davvero». Sembra probabile, tuttavia, che avesse avuto delle allucinazioni anche prima, perché quando viaggiava in auto, a cinque anni, capitava che a volte strillasse coprendosi le orecchie e chiedendo che spegnessero la radio, quando di fatto non era accesa.

Michael non poteva attenuare o spegnere le sue allucinazioni musicali, tuttavia in una certa misura riusciva a soffocarle o a sostituirle ascoltando o suonando della musica a lui familiare, oppure utilizzando un generatore di rumore bianco, specialmente di notte. Di mattina, però, non appena si svegliava, la musica riattaccava. Quando è sotto pressione, può diventare quasi insopportabilmente alta: in questi casi Michael strilla e sembra dibattersi in quella che sua madre definisce un'«agonia acustica». Grida: «Toglietemela dalla testa. Portatemela via!». (Questo mi ricordò un aneddoto riportato da Robert Jourdain a proposito di Cajkovskij bambino, il quale una volta - a quanto si dice - fu trovato che piangeva nel suo letto e diceva: «Questa musica! Ce l'ho qui in testa. Salvatemi da lei!»).

Per Michael non c'è mai una vacanza dalla musica, sottolinea sua madre. «Non ha mai potuto godere la muta bellezza di un tramonto, fare una passeggiata silenziosa nei boschi, riflettere tranquillamente o leggere un libro senza sentire, sullo sfondo, una banda che suona».

Da qualche tempo, però, Michael ha cominciato a prendere farmaci per ridurre la sua eccitabilità corticale e specificamente musicale, e sta cominciando a mostrare qualche risposta alle cure, sebbene sia sempre sopraffatto dalla musica. Sua madre mi ha scritto: «Ieri sera Michael era felicissimo perché la sua musica interna si è fermata per circa quindici secondi. Non era mai accaduto prima».

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La sensibilità musicale – la «musicalità», intesa nella sua accezione più ampia – richiede anche uno specifico potenziale neurologico? La maggior parte di noi probabilmente può sperare in una certa armonia, una coincidenza, fra le aspirazioni da una parte, e le capacità e le opportunità dall'altra; tuttavia vi saranno sempre quelli come George, in cui le capacità non sono all'altezza delle aspirazioni, e quelli come Cordelia, che sembrano avere tutti i talenti possibili, tranne il più importante: senso critico o gusto. Nessuno possiede tutti i talenti, né dal punto di vista cognitivo, né da quello emotivo. Perfino Cajkovskij era profondamente consapevole del fatto che la sua grande fecondità melodica non si accompagnava a un paragonabile controllo della struttura musicale; del resto egli non aveva alcun desiderio di costruire, al pari di Beethoven, grandiose architetture sonore; si accontentava invece di essere uno straordinario autore di melodie.

Molti dei pazienti o dei corrispondenti che descrivo in questo libro sono consapevoli di disallineamenti musicali di un tipo o dell'altro. Le aree «musicali» del loro cervello non sono interamente al loro servizio e può anzi sembrare che abbiano una volontà propria. Questo si verifica, per esempio, nel caso delle allucinazioni musicali; queste ultime si impongono a coloro che le subiscono (i quali non le cercano affatto) e sono perciò del tutto diverse dalla creazione di immagini musicali, o immaginazione musicale, sulla quale invece si percepisce di avere il controllo. Sul versante dell'esecuzione musicale, poi, questo è ciò che accade nel caso della distonia del musicista, quando le dita si rifiutano di obbedire alla volontà e si flettono ripiegandosi, o comunque mostrano una «volontà» tutta loro. In tali circostanze, una parte del cervello è in contrasto con l'intenzione della persona, con il suo sé.

Anche se non vi sono disallineamenti estremi, ovvero situazioni in cui mente e cervello si trovano in conflitto, la musicalità, proprio come altri doni, può creare problemi. Penso a Tobias Picker, un insigne compositore con la sindrome di Tourette. Ci eravamo appena conosciuti quando mi raccontò di avere «un disturbo congenito» che l'aveva tiranneggiato per tutta la vita. Avevo dato per scontato che stesse parlando del suo tourettismo; lui, invece, mi disse che no, il disturbo congenito era la sua grande musicalità. A quanto pare possedeva quel dono dalla nascita; fin dai primi anni di vita riusciva a riconoscere delle melodie e a batterne il ritmo; a soli quattro anni aveva cominciato a comporre e a suonare il piano. A sette era ormai in grado di riprodurre brani lunghi ed elaborati dopo un unico ascolto e si ritrovava di continuo «sopraffatto» dall'emozione trasmessagli dalla musica. Mi disse di come fosse praticamente inteso, sin dall'inizio, che sarebbe diventato un musicista, e di come avesse avuto ben poche possibilità di fare qualcos'altro, giacché la sua musicalità lo consumava totalmente. Non credo che Picker avrebbe imboccato una via diversa; a volte però aveva la sensazione che fosse la sua musicalità a controllare lui, e non viceversa. Molti artisti ed esecutori, senza dubbio, hanno a volte la stessa sensazione – ma le abilità musicali (come quelle matematiche) possono essere particolarmente precoci e determinare la vita di un individuo sin dalla più tenera età.

Ascoltando la musica di Picker, oppure osservandolo mentre suona o compone, ho la sensazione che abbia un cervello speciale, da musicista: molto diverso dal mio. Θ un cervello che funziona in un altro modo; ha connessioni e interi campi di attività assenti nel mio. Θ difficile capire in quale misura tali differenze possano essere «congenite», come dice Picker, e in quale misura derivino invece dall'educazione: un problema di non facile soluzione, visto che l'educazione musicale di Picker, come quella di molti musicisti, è cominciata in tenerissima età.

Negli anni Novanta, con lo sviluppo delle tecniche di neuroimmagine, è diventato possibile ottenere una vera e propria visualizzazione del cervello dei musicisti e confrontarlo con quello dei non musicisti. Utilizzando tecniche di morfometria basate sulla risonanza magnetica, Gottfried Schlaug e i suoi colleghi di Harvard hanno effettuato meticolosi confronti fra le dimensioni di varie strutture cerebrali. Nel 1995 hanno pubblicato un articolo nel quale mostrano in primo luogo che nei musicisti di professione il corpo calloso - ossia la grande commessura che connette i due emisferi cerebrali - è più sviluppato; e in secondo luogo che il planum temporale (una parte della corteccia uditiva) presenta un aumento dimensionale asimmetrico nei musicisti dotati dì orecchio assoluto. Schlaug et al. hanno dimostrato anche un aumento di volume della sostanza grigia nelle aree motrici, uditive e visuospaziali della corteccia, come pure nel cervelletto. Oggi gli anatomisti avrebbero serie difficoltà a identificare il cervello di un individuo particolarmente versato nelle arti visive, oppure quello di uno scrittore o di un matematico; ma potrebbero riconoscere il cervello di un musicista di professione senza esitare un solo istante.

In quale misura, si chiedeva Schlaug, queste differenze riflettono una predisposizione innata o sono invece effetto di un'educazione musicale precoce? Ovviamente non sappiamo che cosa distingua il cervello dei bambini di quattro anni musicalmente dotati prima che la loro educazione musicale abbia inizio; d'altra parte, Schlaug e i suoi colleghi hanno dimostrato che gli effetti di tale educazione sono davvero impressionanti: le modificazioni anatomiche osservate nel cervello dei musicisti erano fortemente correlate con l'età d'inizio della loro formazione musicale e con l'intensità dello studio e dell'esercizio.

Αlvaro Pascual-Leone, a Harvard, ha mostrato quanto rapidamente il cervello risponda all'educazione musicale. Utilizzando come test degli esercizi per pianoforte con le cinque dita, ha dimostrato che la corteccia motrice può presentare dei cambiamenti già nell'arco di qualche minuto dall'inizio dell'esercitazione. Misurazioni del flusso ematico regionale in diverse parti del cervello, inoltre, hanno evidenziato - nei gangli basali, nel cervelletto e in varie aree della corteccia cerebrale - un aumento dell'attività associato non solo all'esercizio fisicamente eseguito, ma anche al solo esercizio mentale.

Il talento musicale presenta chiaramente un intervallo di variazione amplissimo; molti dati indicano tuttavia la presenza di una certa musicalità innata pressoché in chiunque, come indica in modo assai evidente il successo del metodo Suzuki per insegnare il violino ai bambini piccoli, interamente a orecchio e per imitazione. Praticamente tutti i bambini dotati di udito normale rispondono a tale insegnamento.

Θ possibile che una breve esposizione alla musica classica stimoli o potenzi le capacità matematiche, verbali e visuospaziali dei bambini? Al principio degli anni Novanta, Frances Rauscher e i suoi colleghi della California University di Irvine progettarono una serie di studi per capire se l'ascolto della musica potesse modificare facoltà cognitive non musicali. A tali studi seguì la pubblicazione di diversi articoli, scritti con toni cauti, nei quali gli autori riferivano che l'ascolto di Mozart (rispetto all'ascolto di musica «rilassante» o al silenzio) in effetti potenziava in modo temporaneo il ragionamento spaziale astratto. L'effetto Mozart – così fu chiamato il fenomeno – non solo sollevò alcune controversie scientifiche, ma suscitò un'intensa attenzione da parte della stampa e, forse inevitabilmente, diede adito ad asserzioni esagerate, che si spinsero ben oltre qualsiasi possibile implicazione delle sobrie pubblicazioni originali. La validità dell'effetto Mozart è stata contestata da Schellenberg e altri; quello che comunque è indiscutibile è l'influenza esercitata sul cervello ancora plastico del bambino da un'educazione musicale intensiva impartita in età precoce. Takako Fujioka e i suoi colleghi, utilizzando la magnetoencefalografia per esaminare i potenziali uditivi evocati nel cervello, hanno registrato evidenti cambiamenti nell'emisfero sinistro di bambini che avevano studiato violino per un anno, rispetto a coetanei che non avevano ricevuto alcun insegnamento.

Tutto ciò ha chiare implicazioni pedagogiche. Probabilmente una piccola dose di Mozart non migliorerà le doti matematiche di un bambino, tuttavia non c'è dubbio che una regolare esposizione e soprattutto la partecipazione attiva alla musica possano stimolare lo sviluppo di molte aree diverse del cervello: aree che devono cooperare quando il soggetto è impegnato nell'ascolto o nell'esecuzione musicale. Nella stragrande maggioranza dei casi, la musica può avere la stessa importanza pedagogica della lettura o della scrittura.

Possiamo dunque pensare che la competenza musicale sia un potenziale umano universale, come quella linguistica? In ogni famiglia ha luogo una certa esposizione al linguaggio, ed entro i quattro o i cinque anni di età praticamente tutti i bambini sviluppano una competenza linguistica (in senso chomskiano). Nel caso della musica non è detto che sia così; alcuni ambienti familiari, infatti, possono essere quasi del tutto privi di musica e, come tutti gli altri potenziali, anche quello musicale, per svilupparsi appieno, deve essere stimolato. In assenza di incoraggiamento o stimolazione, è possibile che i talenti musicali non si sviluppino. Tuttavia, mentre – nei primi anni di vita – esiste un periodo critico abbastanza ben definito per l'acquisizione del linguaggio, per la musica questo è meno vero. La mancata acquisizione del linguaggio a sei-sette anni è un evento catastrofico (che probabilmente si verifica solo nei bambini sordi ai quali non sia offerto un accesso efficace al linguaggio dei segni o al linguaggio verbale); d'altra parte, alla stessa età, la mancata acquisizione della musica non fa per forza prevedere un futuro che ne sia del tutto privo. Il mio amico Gerry Marks è cresciuto con una scarsissima esposizione alla musica. I suoi genitori non andavano mai ai concerti e raramente ascoltavano musica alla radio; in casa non c'erano strumenti, né libri sulla musica. Quando i suoi compagni di classe parlavano di musica, Gerry era sconcertato e si chiedeva perché la trovassero tanto interessante. «Proprio non avevo orecchio» ricorda. «Non riuscivo a cantare un motivo, non capivo se gli altri cantavano con la giusta intonazione, né distinguevo una nota dall'altra». Bambino precoce, Gerry era appassionato di astronomia, e sembrava pronto a intraprendere una vita da scienziato, senza musica.

A quattordici anni, però, rimase affascinato dall'acustica, soprattutto dalla fisica delle corde vibranti. Lesse di questi argomenti e fece degli esperimenti nel laboratorio scolastico; ma provava, sempre più forte, il desiderio di avere uno strumento a corde tutto suo. Per il suo quindicesimo compleanno i genitori gli regalarono una chitarra e lui ben presto imparò da solo a suonarla. Galvanizzato dal suono della chitarra e dalla sensazione delle corde pizzicate, Gerry fece rapidi progressi: a diciassette anni, quando stava finendo le superiori, arrivò terzo in una gara per eleggere «il più dotato per la musica». (Il suo compagno di liceo, Stephen Jay Gould, portato per la musica fin da bambino, arrivò secondo). Al college Gerry si specializzò in musica e si mantenne agli studi dando lezioni di chitarra e banjo. Da allora, la passione per la musica è stata un elemento centrale della sua vita.

Ciò nondimeno, esistono limiti imposti dalla natura. Una capacità come l'orecchio assoluto, per esempio, dipende in larga misura da un'educazione musicale precoce, la quale, d'altra parte, non basta di per sé a garantirne la presenza. Né, come dimostra Cordelia, la presenza dell'orecchio assoluto può garantire quella di altri doni musicali di livello superiore. Senza dubbio Cordelia aveva un planum temporale ben sviluppato, ma forse le mancava qualcosa nella corteccia prefrontale, in termini di senso critico. Quanto a George, malgrado fosse senza dubbio dotato per quanto riguarda le aree cerebrali coinvolte nelle reazioni emozionali alla musica, con ogni probabilità in altre aree era carente.

Gli esempi di George e di Cordelia introducono un tema che sarà ripreso ed esplorato in molti dei casi clinici raccontati nelle pagine che seguono. In particolare, quella che chiamiamo «musicalità» comprende una gamma estesa di abilità e recettività: dalle più elementari percezioni del tempo e dell'altezza del suono, ai più elevati aspetti riconducibili all'intelligenza e alla sensibilità musicali; in linea di principio, ciascuno di essi è dissociabile dagli altri. In effetti, quanto a musicalità, tutti siamo più forti in certi aspetti e più deboli in altri; e così abbiamo tutti qualche affinità con George e Cordelia.

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