Copertina
Autore Edward W. Said
Titolo Orientalismo
SottotitoloL'immagine europea dell'Oriente
EdizioneFeltrinelli, Milano, 2007 [1991], UE Saggi 1695 , pag. 400, cop.fle., dim. 12,5x19,5x2,2 cm , Isbn 978-88-07-81695-6
OriginaleOrientalism
EdizionePantheon, New York, 1978
TraduttoreStefano Galli
LettoreRenato di Stefano, 2009
Classe storia: Europa , storia: Asia , storia sociale , storia culturale , critica letteraria
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Indice


  7 Ringraziamenti

 11 Introduzione

 37 1. Il campo dell'orientalismo

 37    1. Conoscere l'Oriente
 56    2. Una geografia immaginaria e le sue rappresentazioni:
          orientalizzare l'Oriente
 78    3. Progetti
 97    4. Crisi

115 2. Strutture e ristrutturazioni dell'orientalismo

115    1. Frontiere ridisegnate, questioni ridefinite,
          religione secolarizzata
126    2. Silvestre de Sacy ed Ernest Renan: antropologia
          razionale e laboratorio filologico
151    3. Residenza orientale ed erudizione: le richieste di
          lessicografia e immaginazione
168    4. Pellegrini e pellegrinaggi, inglesi e francesi

199 3. L'orientalismo oggi

199    1. Orientalismo latente e orientalismo manifesto
224    2. Stile, competenza, lungimiranza: l'orientalismo nel mondo
251    3. Il moderno orientalismo anglofrancese in pieno rigoglio
281    4. La fase più recente

327 Postfazione
351 Note
373 Indice dei nomi


 

 

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Pagina 11

Introduzione


                                Non possono rappresentare se stessi;
                                devono essere rappresentati.

                                K. MARX, Der achtzehnte Brumaire des
                                         Louis Bonaparte


                                L'Est è una carriera.

                                B. DISRAELI, Tancred



I

Visitando Beirut durante la terribile guerra civile del 1975-1976, un giornalista francese scrisse con rincrescimento dei semidistrutti quartieri del centro che "un tempo sembravano appartenere [...) all'Oriente di Chateaubriand e di Nerval". E per quanto riguarda Beirut aveva naturalmente ragione, soprattutto dal punto di vista di un europeo. L'Oriente stesso era in un certo senso un'invenzione dell'Occidente, sin dall'antichità luogo di avventure, popolato da creature esotiche, ricco di ricordi ricorrenti e paesaggi, di esperienze eccezionali. E ora stava scomparendo, come se tutto fosse finito. Forse sembrava irrilevante che in ciò fossero coinvolti degli orientali, che persino al tempo di Chateaubriand e di Nerval degli orientali avessero abitato quei quartieri, e che adesso fossero loro a soffrire. Il fatto più importante per l'ospite europeo erano la rappresentazione europea dell'Oriente e la sorte che a tale rappresentazione stava toccando. L'una e l'altra avevano un significato comune e privilegiato, tanto per il giornalista francese quanto per i suoi lettori.

L'atteggiamento americano è forse un po' diverso; il concetto di Oriente suscita in genere associazioni con l'Estremo Oriente, con la Cina e il Giappone soprattutto. Diversamente dagli americani, francesi e inglesi - e in minore misura tedeschi, russi, spagnoli, portoghesi, italiani e svizzeri - hanno una lunga tradizione in ciò che designerò col termine orientalismo: vale a dire un modo di mettersi in relazione con l'Oriente basato sul posto speciale che questo occupa nell'esperienza europea occidentale. L'Oriente non è solo adiacente all'Europa; è anche la sede delle più antiche, ricche, estese colonie europee; è la fonte delle sue civiltà e delle sue lingue; è il concorrente principale in campo culturale; è uno dei più ricorrenti e radicati simboli del Diverso. E ancora, l'Oriente ha contribuito, per contrapposizione, a definire l'immagine, l'idea, la personalità e l'esperienza dell'Europa (o dell'Occidente). Nulla, si badi, di questo Oriente può dirsi puramente immaginario: esso è una parte integrante della civiltà e della cultura europee persino in senso fisico. L'orientalismo esprime e rappresenta tale parte, culturalmente e talora ideologicamente, sotto forma di un lessico e di un discorso sorretti da istituzioni, insegnamenti, immagini, dottrine, e in certi casi da burocrazie e politiche coloniali. In confronto, la conoscenza statunitense dell'Oriente appare assai più superficiale, anche se il conflitto col Giappone e le recenti avventure coreana e indocinese hanno in parte promosso una più sobria e realistica percezione del mondo "orientale". Inoltre, il ruolo via via più importante dell'America nel Vicino Oriente (Medio Oriente) rende sempre più necessaria una più approfondita conoscenza.

Avrà già intuito il lettore (e ne troverà conferma nel seguito) che parlando di orientalismo mi riferisco a fatti molteplici, tutti, a mio giudizio, strettamente interdipendenti. L'accezione più comune del termine è di natura accademica: "orientalismo", o "orientalistica", è l'insieme delle discipline che studiano i costumi, la letteratura, la storia dei popoli orientali, e "orientalista" è chi pratica tali discipline, sia egli antropologo, sociologo, storico o filologo. È vero che tali termini sono oggi meno usati dagli specialisti, che spesso preferiscono espressioni come "studi orientali" e area studies, in parte per la loro maggiore specificità, in parte perché meno legate all'atteggiamento di superiorità dell'imperialismo europeo del secolo XIX e degli inizi del XX; nondimeno, anche oggi si scrivono libri e si tengono conferenze e congressi sull'"Oriente" che per forma e contenuto, a mio avviso, rientrano pienamente nell'"orientalismo" classicamente inteso, a dispetto dell'etichetta più o meno nuova che si decida di applicarvi. Mi interessa sottolineare quindi che, sebbene in modo meno evidente di un tempo, l'orientalismo sopravvive in ambito accademico attraverso le teorie e le dottrine elaborate a proposito dell'Oriente e degli orientali.

A tale tradizione accademica, la cui fortuna,- diffusione, evoluzione e specializzazione è uno degli argomenti di questo libro, può ricondursi una accezione più ampia del termine "orientalismo". Mi riferisco a uno stile di pensiero fondato su una distinzione sia ontologica sia epistemologica tra l'"Oriente" da un lato, e (nella maggior parte dei casi) l'"Occidente" dall'altro. È in virtù di tale distinzione che un gran numero di scrittori - poeti, romanzieri, filosofi, ideologi, economisti, funzionari e amministratori coloniali - hanno adottato la contrapposizione tra "Oriente" e "Occidente" come punto di partenza per le loro opere poetiche, teorico-scientifiche o politiche sull'Oriente e sul suo popolo. Tracce di questo tipo di orientalismo sono reperibili in autori tanto diversi quanto Eschilo e Victor Hugo, Dante Alighieri e Karl Marx. Nel seguito dell'introduzione mi soffermerò su alcuni problemi metodologici, inerenti alla sistematizzazione di un campo di indagine così vasto.

L'interazione tra orientalismo accademico ed extraccademico non è mai mancata; dalla fine del secolo XVIII l'azione reciproca tra le due forme è ulteriormente aumentata, e hanno avuto inizio sforzi crescenti volti a disciplinarla. Giungiamo così alla terza accezione del termine "orientalismo", dotata di un referente più concreto e storicamente localizzato. Prendendo il tardo secolo XVIII quale approssimativo limite cronologico, l'orientalismo può essere studiato e discusso come l'insieme delle istituzioni create dall'Occidente al fine di gestire le proprie relazioni con l'Oriente, gestione basata oltre che sui rapporti di forza economici, politici e militari, anche su fattori culturali, cioè su un insieme di nozioni veritiere o fittizie sull'Oriente. Si tratta, insomma, dell'orientalismo come modo occidentale per esercitare la propria influenza e il proprio predominio sull'Oriente. In tale contesto ho trovato utilissima la nozione di "discorso" messa in luce da Michel Foucault in opere quali L'Archéologie du savoir e Surveiller et punir. Ritengo infatti che, a meno di concepire l'orientalismo come discorso, risulti impossibile spiegare la disciplina costante e sistematica con cui la cultura europea ha saputo trattare - e persino creare, in una certa misura - l'Oriente in campo politico, sociologico, militare, ideologico, scientifico e immaginativo dopo il tramonto dell'Illuminismo. Né va dimenticato come tale fosse il prestigio dell'orientalismo che nessun atto politico e nessuna creazione artistica hanno potuto esimersi dal fare i conti con i limiti che esso imponeva, esplicitamente o implicitamente. In breve, a causa dell'orientalismo l'Oriente non è stato - e non è - oggetto di atti e teorie liberamente concepiti. Ciò non significa che l'orientalismo abbia determinato e determini unilateralmente tutto ciò che può essere detto e pensato dell'Oriente; significa però che l'intero campo di interessi che esso rappresenta fa sentire il suo peso, ogni volta che la peculiare entità detta "Oriente" è chiamata in causa. Cercherò nel corso del testo di esaminare il modo in cui ciò avviene, e di mostrare come la cultura europea abbia acquisito maggior forza e senso di identità contrapponendosi all'Oriente, e facendone una sorta di sé complementare e, per così dire, sotterraneo.

Da un punto di vista storico e culturale vi è una differenza quantitativa e qualitativa tra i rapporti con l'Oriente di Inghilterra e Francia da un lato, e quelli di ogni altra nazione europea o nordamericana dall'altro - almeno prima dell'apogeo dell'influenza politica degli Stati Uniti, cioè sino alla fine della seconda guerra mondiale. Parlare di orientalismo significa quindi soprattutto, anche se non esclusivamente, parlare di un'impresa culturale britannica e francese, un progetto le cui dimensioni si estendono in campi tanto disparati quanto l'immaginazione stessa: l'India intera e il Levante, i testi e i luoghi biblici, il commercio delle spezie, le armate coloniali e una lunga tradizione di amministratori coloniali, la formidabile mole di dati e teorie più o meno fondate, gli innumerevoli "esperti" di cose orientali, i docenti e le istituzioni universitarie, l'intrico di idee e pregiudizi sull'Oriente (dispotismo, splendore, crudeltà, sensualità orientali), le numerose sette orientali, le forme di filosofia e saggezza orientali più o meno addomesticate per l'uso occidentale, e l'elenco potrebbe ancora continuare. Sostengo comunque che l'orientalismo annoveri tra le sue fonti una peculiare "prossimità" avvertita da Francia e Gran Bretagna nei confronti dell'Oriente, intendendosi con "Oriente", almeno sino ai primi decenni del secolo scorso, quasi esclusivamente l'India e le regioni menzionate nella Bibbia. Dagli inizi dell'Ottocento sino alla seconda guerra mondiale, Francia e Inghilterra predominarono in Oriente e nell'orientalismo; dalla fine della seconda guerra mondiale, l'egemonia passò agli Stati Uniti, insieme a molte nozioni e atteggiamenti coltivati in precedenza da Francia e Gran Bretagna. Da quella prossimità, la cui dinamica è stata enormemente produttiva, a dispetto di uno squilibrio di forze a favore dell'Occidente (britannico, francese o americano) mai venuto meno, è scaturita l'enorme mole di testi che definisco "orientalisti".

A tale riguardo ritengo di dover precisare che, nonostante il gran numero di opere da me esaminate nel presente studio, di gran lunga maggiore è il numero di quelle che ho dovuto semplicemente trascurare. Le mie ipotesi, tuttavia, non dipendono dall'esaustività del mio esame dei testi relativi all'Oriente, né vi è un sottogruppo preciso di scritti, teorie e autori che possa essere considerato una sorta di canone orientalista. Ho optato per una diversa alternativa metodologica, la cui spina dorsale, per così dire, è costituita dalle generalizzazioni di carattere storico sin qui delineate. Mi accingo ora a discutere tali generalizzazioni in modo più dettagliato.

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Pagina 14

II

Muovo dall'assunto che l'Oriente non sia un'entità naturale data, qualcosa che semplicemente c'è, così come non lo è l'Occidente. Dobbiamo prendere molto sul serio l'osservazione di Vico che gli uomini sono gli artefici della loro storia, e che ciò che possono conoscere è quanto essi stessi hanno fatto, per trasporla su un piano geografico: quali entità geografiche e culturali, oltre che storiche, "Oriente" e "Occidente" sono il prodotto delle energie materiali e intellettuali dell'uomo. Perciò, proprio come l'Occidente, l'Oriente è un'idea che ha una storia e una tradizione di pensiero, immagini e linguaggio che gli hanno dato realtà e presenza per l'Occidente. Le due entità geografiche si sostengono e in una certa misura si rispecchiano vicendevolmente.

Chiarito ciò, mi pare si richiedano alcune precisazioni. In primo luogo, sarebbe errato considerare l'Oriente essenzialmente un'idea, o una costruzione culturale priva di corrispettivo materiale. Quando Disraeli nel Tancred afferma che "l'Est è una carriera", intende dire che l'interesse per l'Est può diventare, per alcuni giovani e brillanti occidentali, una passione capace di prevalere su ogni altra, non certo che si tratta solo di una possibilità di trovare un impiego. Esistono - oggi come in passato - culture la cui sede geografica è in Oriente, popolazioni con storia e costumi la cui concreta esistenza, ovviamente, non dipende affatto da alcunché possa essere scritto o detto in proposito dagli occidentali. Su questo il presente studio ha poco da aggiungere, a parte il riconoscere implicitamente tale dato di fatto. Il problema che qui intendo affrontare non sta tanto nel rapporto tra l'Oriente reale e la rappresentazione che di esso ha l'Occidente, quanto nell'intrinseca coerenza dell'orientalismo nonostante, e prescindendo da ogni corrispondenza o mancanza di corrispondenza con l'Oriente "reale". Ritengo insomma che Disraeli si riferisse soprattutto a tale coerente sistema di idee come aspetto decisivo dell'Oriente, ben più decisivo delle sue caratteristiche obiettive.

La seconda precisazione riguarda il fatto che idee, culture e vicende storiche non possono venire comprese se non si tiene conto delle forze storiche, o più precisamente delle configurazioni di potere, che a esse sono sottese. Credere che l'Oriente sia stato creato - o, come mi piace dire, "orientalizzato" - per il solo gusto di esercitare l'immaginazione, sarebbe alquanto ingenuo, oppure tendenzioso. Il rapporto tra Oriente e Occidente è una questione di potere, di dominio, di varie e complesse forme di egemonia, come è indicato chiaramente dal titolo di un classico sull'argomento, Asia and Western Dominance di K.M. Panikkar. L'Oriente è stato orientalizzato non solo perché lo si è trovato "orientale", soprattutto nel senso che a tale aggettivo è stato attribuito dagli europei del secolo scorso, ma anche perché è stato possibile renderlo "orientale". Non è di consenso che si tratta, allorché dall'incontro di Flaubert con una cortigiana egiziana nasce uno stereotipo letterario della donna orientale destinato ad avere grande fortuna; ella non parla mai di sé, non esprime le proprie emozioni, la propria sensibilità o la propria storia. È Flaubert a farlo per lei. Egli è uno straniero di sesso maschile e di condizione relativamente agiata, e tale posizione di forza gli consente non solo di possedere fisicamente Kuchuk Hanem, ma anche di descriverne e interpretarne l'essenza, e di spiegare al lettore in che senso ella fosse "tipicamente orientale". Io ritengo che la posizione di forza di Flaubert nei confronti di Kuchuk Hanem non fosse un fatto casuale o isolato. Al contrario, esemplifica bene il complessivo rapporto di forze tra Oriente e Occidente allora esistente, e il discorso sull'Oriente che tendeva a scaturirne.

La terza precisazione, cui del resto già si è accennato, è che la struttura dell'orientalismo non è affatto una mera struttura di miti e bugie, che si dissolverebbe come nebbia spazzata dal vento appena la verità le venisse contrapposta. Personalmente, ritengo che l'orientalismo sia più veritiero in quanto espressione del dominio euroamericano che come discorso obiettivo sull'Oriente (come vorrebbe l'orientalismo accademico o comunque erudito). Nondimeno, ciò che dobbiamo rispettare e cercare di capire è la forte coerenza del discorso orientalista, il suo stretto legame con vicende e istituzioni politiche e socioeconomiche, la sua eccezionale durata. Dopotutto un sistema di idee sostanzialmente stabile che può essere insegnato (tramite università e istituzioni varie, libri, congressi e convegni) per un periodo che da Ernest Renan, verso la metà del secolo scorso, arriva fino a oggi, dev'essere ben più solido di una mera collezione di mistificazioni. L'orientalismo, quindi, non è solo una fantasia inventata dagli europei sull'Oriente, quanto piuttosto un corpus teorico e pratico nel quale, nel corso di varie generazioni, è stato effettuato un imponente investimento materiale. Tale investimento ha fatto dell'orientalismo, come sistema di conoscenza dell'Oriente, un film attraverso il quale l'Oriente è entrato nella coscienza e nella cultura occidentali.

Gramsci ha proposto una preziosa distinzione teorica tra società civile e politica, la prima essendo costituita da associazioni spontanee, razionali e non coercitive come la famiglia, il sistema scolastico e i sindacati, la seconda da istituzioni i cui membri sono legati in modo non spontaneo e la cui funzione è connessa con forme di dominio entro la società (esercito, polizia, magistratura ecc.). La cultura opererebbe nell'ambito della società civile, e l'influenza di idee, istituzioni e singole persone dipenderebbe non dal dominio, ma da ciò che Gramsci chiama "consenso". Allora, in ogni società non totalitaria, alcune forme culturali saranno preponderanti rispetto ad altre, alcune concezioni saranno più seguite, si realizzerà cioè lo spontaneo prevalere di determinati sistemi di idee che Gramsci chiama "egemonia", concetto di fondamentale importanza per comprendere la vita culturale dell'Occidente industriale. È proprio l'egemonia, o più precisamente il risultato dell'egemonia culturale, a dare all'orientalismo la durata e la forza su cui abbiamo or ora richiamato l'attenzione. L'orientalismo non è lontano da ciò che Denys Hay ha chiamato "idea dell'Europa", cioè la nozione collettiva tramite cui si identifica un "noi" europei in contrapposizione agli "altri" non europei; e in fondo si può dire che la principale componente della cultura europea è proprio ciò che ha reso egemone tale cultura sia nel proprio continente sia negli altri: l'idea dell'identità europea radicata in una superiorità rispetto agli altri popoli e alle altre culture. A ciò si aggiunge l'egemonia delle idee europee sull'Oriente, ove è ribadita la superiorità europea sull'immobile tradizionalismo orientale, egemonia che ha per lo più impedito l'elaborazione e la diffusione di altre opinioni in proposito.

Con straordinaria continuità, l'orientalismo ha potuto basare la propria strategia su questa flessibile superiorità di posizione, che permette agli occidentali di coltivare le più svariate forme di rapporto con l'Est senza mai perdere la propria prevalenza relativa. E come avrebbe potuto andare diversamente, nel lungo periodo della straordinaria ascesa dell'Europa, dal tardo Rinascimento all'epoca presente? Lo scienziato, l'umanista, il missionario, il mercante, il condottiero potevano recarsi materialmente in Oriente o raccogliere intorno a esso ogni sorta di informazioni, incontrando un'opposizione scarsa o nulla. A partire dalla fine del secolo XVIII, sotto l'etichetta generale di "conoscenza dell'Oriente" è emersa, all'interno dell'egemonia occidentale, una complessa concezione dell'Oriente suscettibile di essere insegnata e perfezionata nelle università, mostrata nei musei, utilizzata praticamente dalle amministrazioni coloniali, di venire approfondita teoricamente in studi antropologici, biologici, linguistici, storici e razziali, di essere portata a sostegno di ipotesi generali sull'uomo e la sua storia, sul suo sviluppo economico e sociale, sulle rivoluzioni, sui caratteri delle culture, delle religioni, delle nazioni. Analogamente, l'approccio immaginativo a ciò che è orientale ha preso le mosse da una sovrana coscienza occidentale, dalla cui indiscussa centralità è emerso un mondo orientale conforme dapprima a nozioni generali un po' vaghe, poi a una logica più stringente coadiuvata non solo dalle nozioni empiriche che via via si accumulavano, ma anche da una quantità di desideri, rimozioni, investimenti e proiezioni. E se possiamo indicare opere sull'Oriente di grande e genuina erudizione, come la Chrestomathie arabe di Silvestre de Sacy o l' Account of the Manners and Customs of the Modem Egyptians di Edward William Lane, dobbiamo altresì constatare che le idee razziste di un Renan o di un Gobineau scaturirono dal medesimo impulso, così come molti racconti pornografici del periodo vittoriano (cfr. l'analisi di The Lustful Turk condotta da Steven Marcus).

E ancora, ci si deve sempre chiedere se ciò che più conta, nell'orientalismo, sia il gruppo ristretto di nozioni generali con cui si è tentato di dominare un'imponente mole di dati empirici - e in tali nozioni, chi potrebbe negare la presenza esplicita o implicita di pregiudizi sulla superiorità europea, di dottrine razziste e di un'immagine dell'Oriente troppo astratta e immutabile? - o le opere assai più sfaccettate portate a termine da scrittori pressoché innumerevoli. Innegabilmente, anche queste ultime sono esempi di come l'Occidente abbia interpretato e creato l'Oriente. A seconda della risposta, il nostro stesso discorso sull'orientalismo tenderà a essere più generale, o più analitico e particolare. D'altra parte l'approccio globale e quello analitico non sono che due prospettive da cui ci proponiamo di cogliere un unico e medesimo oggetto. Anche se adottassimo uno solo di questi approcci, non potremmo fare a meno di occuparci di pionieri del settore come William Jones, o di scrittori eminenti quali Flaubert e Nerval. Perché dunque non servirsi di entrambi, contemporaneamente o in successione? Non vi è un evidente pericolo di distorcere i fatti (il principale pericolo che l'orientalismo accademico ha costantemente corso), qualora si privilegino in modo esclusivo generalizzazioni molto ampie, o al contrario, un positivismo analitico eccessivamente angusto?

Come conciliare allora il rispetto per il significato primo e immediato dei singoli fatti, sempre restio a farsi chiudere tra le mura di astratte generalizzazioni, e l'elaborazione di ipotesi teoriche più vaste, che dei casi singoli mettano in luce il potenziale valore paradigmatico? Ho tentato di risolvere il dilemma esaminando tre aspetti della realtà contemporanea, tra le cui pieghe si trova a mio avviso l'indicazione per una via di uscita metodologica.

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