Copertina
Autore Kira Salak
Titolo La donna bianca
EdizioneCairo, Milano, 2009 , pag. 416, cop.ril.sov., dim. 15,5x21,7x3,4 cm , Isbn 978-88-6052-219-1
OriginaleThe White Mary [2008]
TraduttoreMaria Grazia Gini
LettoreAngela Razzini, 2010
Classe narrativa statunitense , viaggi , storia criminale
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Pagina 11

Non c'è traccia di corrente nelle acque nere di Elobi Creek. Altre acque morte, pensa Marika, che generano solo zanzare e coccodrilli. Altre acque scure e immobili in cui si riflette ogni sua debolezza. Queste acque, quest'afa che toglie il respiro sembrano attendere da lei una risposta, un invito ad agire. Ma risposte non ne ha e, se deve essere onesta con se stessa, non ne ha mai avute. I nodi verranno al pettine. Tutto andrà a pezzi.

Se deve essere onesta con se stessa — e quant'è dolorosa quest'onestà, ma anche doverosa — le toccherà ammettere che questa volta ha dato inizio a qualcosa che non è in grado di fermare. Come se nel domino della sua vita le tessere avessero iniziato a cadere, e lei potesse solo stare a guardare, mentre ogni singolo momento scompare nell'inutilità. È ancora alla ricerca del suo fantasma. Quasi tre mesi in Papua Nuova Guinea e di lui nemmeno l'ombra. Lo sa Robert Lewis che lei ha abbandonato tutto per cercarlo? E soprattutto, gliene importa qualcosa? Dovrebbe andare a casa. Tornare. Ammettere che quest'avventura è stata un disastro.

La bellezza la sovrasta. Stormi di pappagalli rossi e verdi. Farfalle azzurre e dorate che danzano sopra le acque nere. Colombe coronate con i loro regali copricapo di piumaggio grigio. Le piacerebbe conoscere questa bellezza, non solo vederla. Come se camminando lungo una strada di città guardasse pigramente la folla indistinta e individuasse un volto che risveglia dentro di lei qualcosa di vitale. Un desiderio, magari. Un moto di compassione. Osserva attorno a sé la giungla fitta, lussureggiante: palme da sago annidate lungo le rive del fiume; alberi secolari che salgono verso le nuvole scure. Non dovrebbe essere così difficile conoscerla, questa bellezza.

Thomas, il giovane allampanato che manovra la piroga ricavata da un tronco d'albero, spegne il motore fuoribordo. Pare che il caldo torrido non gli dia mai fastidio, nonostante la maglietta verde intrisa di sudore e la pelle nera luccicante. Prende l'arco e una freccia di bambù a quattro denti; mira a una colomba coronata. Scaglia la freccia e la osserva cadere nella foresta pluviale dopo aver sfiorato l'uccello, che si alza in volo. Irritato, Thomas dice qualcosa in lingua tribale, posa l'arco e riaccende il motore. La giungla non sembra farci caso. Le farfalle non smettono di danzare. I pappagalli chiacchierano. Un cacatua arruffa le penne, poi le distende. Mentre il sole scompare dietro una grossa nuvola grigia, Marika abbassa la tesa del cappello e osserva l'intrico della vegetazione tutt'attorno. Vuole un segno. Vorrebbe avere la certezza che tutti gli eventi della sua vita hanno concorso per portarla fino a questo preciso istante nel tempo, e che nessuno – davvero nessuno – è stato un errore.

Ma questo mondo, la Papua Nuova Guinea, non le dirà nulla. Non farà che bruciarle la pelle bianca tingendola di un rosso acceso. Le succhierà via tutti i liquidi che le restano, la pungerà e la morderà, le impedirà di dormire come si deve. Il fiume si restringe e la vegetazione si alza fitta lungo entrambe le rive, intrecciandosi in alto; sembra di entrare nelle viscere di un gigantesco serpente verde. Marika ha la sensazione di uscire viva da ogni giornata per miracolo.

Viva e più vicina a Robert Lewis, spera.

Le nuvole grigie ormai velano il sole. La piroga oltrepassa alcuni canneti; lo stridio delle cavallette è assordante. Marika siede incuneata nel punto più stretto dell'imbarcazione, i piedi immersi in qualche centimetro d'acqua limacciosa sul fondo dello scafo. Sulle unghie degli alluci ha ancora le ultime tracce di smalto rosso applicato mesi prima, quando ancora viveva con Seb. Nei momenti peggiori, più sgradevoli, spesso immagina che lui la veda: quando s'accovaccia nel fango di una riva a lavarsi i denti o si schiaccia sul viso le zanzare piene di sangue. Cosa penserebbe di lei, ora? Ha la pelle scottata e madida di sudore, il naso spellato, la maglietta sudicia e strappata. Sicuramente verrebbero confermate le sue peggiori previsioni su questo viaggio.

Marika abbassa ancora di più la tesa del cappello. Piove; gocce fredde e pesanti le percuotono la pelle. Ma sempre meglio la pioggia del sole, almeno le concede la rara occasione di rinfrescarsi. Altrimenti non smette mai di sudare, nemmeno di notte. Questo è un mondo appiccicoso e soffocante, che non dà tregua.

Thomas è in piedi dietro di lei, al motore. La prua della barca è intagliata a forma di testa di coccodrillo e a Marika piace immaginarlo cavalcare la grande creatura creatrice. La gente di qui crede che un tempo la terra fosse completamente ricoperta dall'acqua. Poi per noia, o forse per presunzione, un coccodrillo gigante si era immerso fin sul fondo del mare ed era tornato con un po' di fango sul dorso: così si era formato il mondo. In quanto Creatore, il coccodrillo è l'animale più temuto, da queste parti. In una terra dove gli indigeni credono che ogni pianta e ogni animale, ogni fiume, ogni pietra contengano spiriti da doversi ingraziare praticamente di continuo, lui è il re degli dèi. Persino alle religioni dei missionari tocca competere con il rettile. Una volta, quando aveva appena iniziato a cercare Lewis, Marika aveva visto in una casa dello spirito un intaglio che raffigurava Gesù stesso a cavallo di un coccodrillo.

«Signora» dice Thomas. La piroga si ferma contro le canne. Marika guarda indietro: Thomas le sta indicando un corridoio stretto in una foresta di mangrovie. «Tobo» dice.

«Quanto manca al suo villaggio?»

«Non tanto.»

Ma Thomas resta immobile. Un bucero dal gigantesco becco giallo sorvola il tetto di vegetazione, producendo con le ali il rumore di un elicottero in avvicinamento. Gli elicotteri però non si spingono fin qui, e Marika lo sa. Qui non arriva praticamente nulla. Questi acquitrini infestati dalla malaria impediscono ogni tentativo di civilizzazione. Sono soprattutto i cacciatori a passare di qui: i loro capanni improvvisati compaiono lungo il fiume ogni pochi chilometri. Più la zona è letale per gli uomini, più le prede sono appetibili. Maiali selvatici. Giganteschi casuari. Il mansueto, indifeso cusco, un marsupiale che si lascia cogliere direttamente dagli alberi. Per vivere quaggiù si deve essere un po' pazzi, ed è per questo che pensa di trovare Lewis in un posto così.

Thomas non vuole proseguire. Si lamenta del compenso. Trecento dollari non bastano. Ne vuole altri trecento. Dopo tutto stanno andando da Tobo, e Tobo potrebbe gettargli addosso il malocchio. La donna bianca non sa in quale pericolo si stanno cacciando. Probabilmente sono già passati da zone che Tobo ha stregato. Thomas si tocca la croce che porta al collo e si chiede, come fa da diversi anni, quanto sia potente in realtà questo spirito Gesù. I missionari gli hanno detto che Gesù è un re, un capo tra i capi, ma è da un pezzo che lui ha dei dubbi.

«Quattrocento kina, signora. Ti ci porterò per altri quattrocento.»

Da quando avevano lasciato l'avamposto sul fiume Sepik diretti all'interno, navigando attraverso distese di giungla spopolata, Marika si aspettava che lui le chiedesse altro denaro. Le era già successo in tante altre parti del mondo. Thomas, che è andato a scuola dai missionari e parla l'inglese, sa il fatto suo. Marika tira fuori l'equivalente di duecento dollari in kina, glielo dà e si volta.

«Quattrocento, signora.»

Lei si limita a guardarsi lo smalto smangiato sulle unghie dei piedi. Il sole trova uno spiraglio tra le nuvole e illumina per un momento un tratto d'acqua nera li accanto. Thomas ha notato che questa donna bianca non parla un granché, forse ce l'ha con lui. A quanto pare i bianchi se la prendono sempre, anche se lo sanno tutti che le tariffe cambiano.

Thomas sospira e tira fuori il motore dall'acqua per evitare che le pale rimangano impigliate nelle radici. Raccoglie la pagaia e spinge la piroga lungo l'angusto canale tra le mangrovie. È da un po' che il canale non viene ripulito, e i rami delle mangrovie formano un arco dinanzi a loro. Marika s'abbassa di continuo per non essere colpita mentre Thomas taglia i cespugli con un machete e le piovono addosso foglie e piccoli rami.

Le ore passano così. Sembra che le mangrovie non finiscano mai. Ogni tanto Thomas si ferma per sgottare acqua dall'imbarcazione e riempire le incrinature dello scafo con manciate di argilla di fiume. Non si vede altro che l'intrico dei rami tutt'attorno e le nuvole nere del temporale a nord.

Quando il canale sbocca in una piccola laguna, Marika si raddrizza e socchiude gli occhi nella penombra del crepuscolo che avanza. C'è un minuscolo villaggio, là davanti. Poche capanne appollaiate sulla riva, davanti a una è acceso un fuoco per cucinare. Alcuni tronchi d'albero intagliati e dipinti di rosso fiancheggiano la sponda del fiume, come totem. Rappresentano ciascuno una creatura non umana ma nemmeno animale e sono decorati con grandi ciuffi di penne di casuario.

Thomas indica le capanne. «Tobo abita li. Quello è il villaggio anasi.»

«A cosa servono quei pali?» chiede Marika.

«Pali?»

«Quelle statue.»

Thomas le guarda di sbieco. Agita una mano come per respingerle. «È stregoneria. Tobo non è cristiano.»

«Ma a cosa servono?»

Davanti a tanta ignoranza Thomas ride. «Per proteggersi dai demoni, signora.»

Marika sa che lo stregone anasi è famoso per i suoi «poteri». Secondo alcuni missionari con cui ha parlato, nella regione del fiume Sepik i suoi servizi sono molto richiesti. Ma a lei non interessano i suoi «poteri»; il fatto è che Tobo si sposta in lungo e in largo, e si dice abbia visitato molti villaggi dell'interno. Se c'è qualcuno che può avere notizie di Robert Lewis, quello è Tobo.

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La sera prima, Marika aveva stretto la mano a un morto. Pierre, il ragazzino congolese che aveva ingaggiato come interprete. Lo ritrovarono quella mattina sul ciglio della strada, senza più niente addosso. Gli avevano sparato in testa. Strana la mente umana: a Marika venne solo da pensare che era un pessimo interprete, sapeva poco l'inglese, e aveva un accento fortissimo. Dopo avergli dato una mancia di cinquanta dollari l'aveva mollato per un altro, uno migliore. Ma questo era successo il giorno prima. Oggi era alla mercé dei cani.

Alcune cose di Bodo non le avrebbe mai capite: perché le campanule blu continuavano ad arrampicarsi sui muri di cemento butterati dai proiettili per sbocciare al sole; come facevano i soldati ONU uruguayani a corteggiarla dopo che aveva appena percorso una strada piena di cadaveri; com'è che la pioggia rianimava i rifugiati inebetiti, quando nient'altro ci riusciva.

Le sparatorie si erano ridotte a pochi colpi isolati, come miccette di Capodanno. Per le strade di Bodo i bambini-soldato, annoiati e armati di kalashnikov, cercavano l'occasione buona per scatenare un po' di caos. Erano imbottiti di droghe che eliminavano la paura, seppellivano le emozioni, forse per sempre. Bodo non era il posto giusto per cercare un po' di coscienza o di compassione. O di pietà.

Marika decise di uscire dalla missione per dare un'occhiata fuori. Nella cappella di mattoni davanti alla sua stanza era iniziata la messa; il canto degli inni era quasi indecente, dopo le sparatorie e i colpi di mortaio della notte. L'uomo al portone, afflosciato su una sedia sotto una grande acacia, la osservò avvicinarsi, le mani strette in grembo.

«Ça va?» gli chiese.

L'uomo alzò le spalle, ma per il resto non si mosse.

«Vorrei uscire.»

Sembrò pensarci su un momento, osservando il chiavistello. Si alzò in piedi a fatica. Estrasse le chiavi dalla tasca, aprì il lucchetto e socchiuse leggermente per sbirciare fuori. Poi di colpo si rianimò e le fece segno di uscire. Sul suo volto Marika colse il guizzo di un lieve sorriso che diceva molte cose, ma soprattutto: «Va' pure, giornalista, va' a vedere com'è il mio mondo». Marika uscì svelta, e lui le chiuse subito il portone alle spalle, tirando il chiavistello.

Bodo era come qualunque altra cittadina dell'Africa centrale. Una strada principale. In questo caso sterrata. O forse asfaltata, un tempo, quando il Congo si chiamava Zaire, ma oggi ridotta a un nastro di buche e fango. L'intonaco degli edifici in mattoni si staccava come smalto dalle unghie, quando iniziavano a volare i proiettili. C'erano pochi alberi perché gli alberi erano carbone per cucinare, cioè denaro. Lungo le strade malconce gli automezzi gemevano per lo strazio delle marce ridotte. Le distanze si misurano in ore e minuti, in base al tempo necessario per andare da un posto all'altro. Dai quartieri dell'ONU all'aeroporto venti minuti salvo pioggia, salvo nuove offensive dei ribelli, salvo strade bloccate da cadaveri. Quelli erano la cosa peggiore. Bisognava aspettare di trovare qualcuno che li portasse via, anche se i cecchini potevano essere nascosti ovunque.

Quel giorno Marika notò i vuoti là dove prima esisteva qualcosa: un edificio, forse, un albero, un veicolo. Qualche volta notava solo il vuoto in sé, senza riuscire a ricordare che cosa c'era prima. Adesso c'erano solo buchi, spazi liberi. Stranamente, lei non notava le altre cose, solo quelle che mancavano.

Al momento, Bodo era ingannevolmente tranquilla. Marika si fermò all'angolo di un muro crivellato di pallottole. L'odore dei corpi in putrefazione la aggredì; un odore pesante, denso, che le annientò i sensi. I cadaveri erano allineati sul ciglio della strada in ogni posizione, le braccia piegate sotto il busto, le gambe aperte. A molti erano stati portati via i vestiti. Cercò Pierre, ma probabilmente se lo avesse visto non lo avrebbe riconosciuto. Il caldo faceva gonfiare i corpi, li sfigurava, li ingrossava fino al doppio, li trasformava in mostri neri e surreali. Ripensò a come Pierre si era messo a piangere quando gli aveva chiesto dei suoi genitori. Le aveva detto che avevano sparato a tutti e due davanti ai suoi occhi, e che lui era scappato dai preti, dove aveva trovato un'occupazione facendo lavoretti saltuari per loro. Lei gli aveva accarezzato una mano, ma era stato un errore; se in un posto così ci si fa coinvolgere, si finisce distrutti dal dolore.

Odiava confessare a se stessa che si sentiva a casa in posti come quello. Il pericolo le dava la sensazione di avere uno scopo. La sua vita, quel mistero che non era mai riuscita a comprendere, con la sua totale mancanza di significato, in un posto come Bodo trovava una direzione. Aveva l'assoluta, inequivocabile certezza che ci fosse finalmente un posto che voleva lei e che di lei poteva farsene qualcosa. Doveva solo occuparsi di un problema, sempre: vivere o morire. Tutto il resto rientrava nel dominio dell'insignificante. Non aveva passato né futuro, e poteva essere chiunque, in qualunque momento. C'era sempre una ragione per aver paura: poteva essere la sua ultima ora, il suo ultimo giorno. E c'era sempre una ragione per provare gratitudine: il mondo l'aveva tenuta in vita per altre ventiquattr'ore. In qualsiasi momento, le emozioni erano solo due: terrore o gratitudine. E bastava così. A soli trentadue anni, ogni giorno che passava Marika aveva l'impressione di aver vissuto una vita intera.

All'ONU, col suo penoso contingente di soldati stanziati in città come «forze di pace», in realtà non sembrava importare granché della situazione. I caschi blu non dovevano proteggere nessuno se non se stessi e potevano solo assistere alle violenze, non essendo autorizzati a fermarle. Ogni giorno un'altra valanga di vittime si riversava nei campi profughi e negli ospedali improvvisati: donne con le braccia amputate, neonati feriti dai fucili, vecchi quasi decapitati. Una crudeltà impensabile, persino ingegnosa. Gente lasciata viva, ma senza gambe né braccia. Donne stuprate coi machete. Occhi cavati. Bambini costretti a mangiare la carne dei genitori. E avanti, senza fine. Aveva visto di tutto. Negli ultimi giorni aveva assistito a una sfilata ininterrotta delle atrocità peggiori, le più inconcepibili. Poi era successo qualcosa, aveva iniziato a guardare, ma senza vedere. I suoi occhi percepivano la realtà, ma la mente non cercava più il senso, si limitava a immagazzinarla da qualche parte, negli spasmi dell'intestino forse, o nei mal di testa. Si era fatta un grosso album mentale pieno di ricordi che, lo sapeva, le si sarebbero ripresentati in sogno, ma solo dopo essere tornata a casa, quando avrebbe pensato di essere sana, salva e fortunata.

Era possibile vedere certe cose e rimanere la stessa persona? Vivere la «solita» vita? Chissà. Alcuni caschi blu – i «deboli», come li aveva definiti un comandante — avevano perso la ragione ed erano stati mandati a casa. Ma forse la pazzia era la risposta più sana, in un posto del genere. L'idea di non impazzire era uno spettro inquietante.

Marika si fermò. Si stava avvicinando a un gruppo di kodogo, bambini-soldato, degli hema. Erano lì per strada, tredici o quattordici anni, più vecchi della media. Portavano tutti un kalashnikov a tracolla. Un ragazzino più grande aveva due preziosi M-16, uno per mano, e una cintura di munizioni al collo, come una pessima imitazione di Rambo. Il paese stava crescendo un'intera generazione che conosceva solo massacri, stupri, razzie. Un'intera nazione di psicopatici.

In cielo gli uccelli si misero a cantare forte, sguaiati, nel silenzio. Quanto tempo le ci sarebbe voluto questa volta per ricominciare a provare dei sentimenti? Si affrettò a tornare alla missione.

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Pagina 215

Marika è certa di una cosa: se Robert Lewis è davvero vivo ed è lì da qualche parte, non vuole essere trovato. Si è sperduto nel bel mezzo di questo paese. Si è aperto un tunnel in questa incredibile massa di verde intricato e inospitale. La giungla non si aspetta che lui torni indietro. Ha allungato gli artigli, ha piantato il suo seme. Ha riempito il suo sentiero con nuovi arbusti, impedendo ogni fuga.

Tobo e Marika non camminano. Si arrampicano, sopra gli alberi, sotto gli alberi. Si immergono nel fango nero fino alla vita. Per una settimana Tobo la guida attraverso vallate paludose; il calore e l'umidità l'aggrediscono. Si preoccupa costantemente della disidratazione, la testa le martella a più non posso.

Quando raggiungono le montagne, inizia a piovere. Marika non è mai stata presa di mira da tempeste come queste; forse uno degli dèi di Tobo sta cercando di sommergere la terra. Subito la giungla si allaga e Tobo le dice che devono cominciare ad arrampicarsi. Lei si chiede se dice sul serio — le montagne s'innalzano ripide ad angoli di quasi novanta gradi e sembra impossibile scalarle, ma lui inizia a salire su un pendio aiutandosi con le radici degli alberi e i rampicanti, puntando le dita dei piedi nella melma. Marika lo segue come può, con il terreno che le cede sotto i piedi, allentato dalla pioggia. Dopo qualche progresso ricade al punto di partenza ai piedi della montagna fangosa. Tobo scende a prenderla, la aiuta, la incoraggia, anche se nei suoi occhi traspare la stanchezza. Sa che dovranno muoversi in quelle condizioni per settimane, e che l'inesperienza della wait meri renderà il viaggio ancora più lungo.

Procede più lentamente per lei, in modo che si abitui e capisca come mettere i piedi nella maniera giusta. Per essere una donna, almeno non è debole come inizialmente temeva. Il suo corpo è sorprendentemente forte ed è in grado di scalare le montagne. È solo la testa che non è pronta: non vede quello che ha davanti, non sente i suoni e il linguaggio della giungla. Non sa ancora che cosa può toccare, che cosa può mangiare. Glielo deve insegnare lui, come a una bambina: dirle i nomi delle cose, mostrarle come muoversi nella giungla e guadagnare il suo rispetto. Tobo lo trova noioso; gli manca il villaggio anasi, i figli, le mogli. Se solo non avesse mai incontrato quel criminale di un baku, pensa.

Affrontano le montagne una alla volta. All'inizio procedono piano, ma poi Marika capisce cosa deve fare. Adesso sa trovare appigli per i piedi e per le mani. Smette di muoversi goffamente tra le piante. Mentre segue Tobo da vicino, è sempre più abituata all'onnipresente vista della sua schiena nera e sudata e delle foglie secche che gli coprono le natiche. Non passa molto prima che perda il conto dei giorni. Il tempo non ha importanza: conta solo sapere quando cala la notte e ci si può riposare. Nemmeno le zanzare le danno più fastidio. Dorme come fosse morta, un sonno senza sogni. Il fumo acre della palma di betel le riempie i polmoni; si sveglia col catarro in gola, gli occhi rossi che bruciano.

Arrivano in cima a una delle montagne più alte che hanno dovuto scalare, e all'improvviso il suo corpo urla per il mal di pancia. Sente gorgogliare le viscere. Nausea. Mal di testa. Corre nella boscaglia umida e fangosa per abbassarsi i pantaloni e liberarsi. Teme sia l'inizio di una dissenteria. O qualcosa di peggio. Potrebbe essere tante cose, molte delle quali le sono già venute durante i vari reportage in giro per il mondo. La giardiasi e la dissenteria hanno sintomi quasi uguali ma richiedono terapie medicinali completamente diverse. E poi ci sono due tipi di dissenteria. Amebica, batterica. Una peggio dell'altra. Una in grado di piantarle il suo seme negli organi e pian piano, di soppiatto, metterla completamente fuori uso, anche nel caso fosse riuscita a sopravvivere senza farmaci. In tutti i suoi viaggi, si era sempre portata una scatola di antibiotici Cipro, la sua panacea. Quante volte quelle piccole pastiglie ovali l'avevano protetta e le avevano salvato la vita? Adesso però con sé non ha niente, e il suo organismo è costretto ad affrontarne le conseguenze.

Dopo l'ennesima corsa nella boscaglia, comincia a vedere dei puntini rossi. Ci siamo. Sta per iniziare la battaglia.

«Tobo!» grida.

Non sente risposta.

«Tobo!»

Non vede più nulla e cade, svenuta.

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Pagina 366

Lewis voleva scrivere qualcosa sulla resurrezione di Timor Est, un piccolo paese di cui poca gente aveva sentito parlare. L'esercito l'aveva occupato illegalmente dal 1976 al 1999, scatenandosi in un genocidio in cui era rimasto ucciso un terzo della popolazione. Timor Est meritava un posto di tutto rispetto accanto al Rwanda o alla Bosnia. Il suo popolo aveva visto compiere nella più totale impunità violenze e devastazioni tanto gravi, da mettere duramente alla prova la capacità di crederci.

Lewis giunse a Dili, la capitale, nel settembre 1999, poco dopo la concessione dell'indipendenza da parte dell'Indonesia. L'esercito indonesiano in fuga aveva saccheggiato la città per punire un'ultima volta la resistenza locale. Le case erano state bruciate. Le strade erano piene di macerie e cadaveri. Dili era terra di nessuno. Erano intervenute le truppe ONU britanniche e australiane per difendere alcune zone chiave, come l'aeroporto, ma gran parte della città era ancora ostile e pericolosa, percorsa da milizie filoindonesiane o filotimoesi in lotta tra loro. Lewis scendeva in strada ogni giorno sotto la gigantesca statua del Cristo supplice, con le braccia spalancate. Attraversava i quartieri sventrati, ascoltava i testimoni delle violenze.

Lewis non avrebbe potuto fare il suo reportage senza l'aiuto dell'amico Manuel da Silva, un timorese conosciuto durante un precedente viaggio nell'isola. Manuel viveva con la figlia Anamaria in un piccolo villaggio di pescatori non lontano da Dili. Era uno dei luoghi più sicuri del paese, dove Lewis poteva stare e stabilire dei contatti. Fu lì che Manuel gli presentò Paulo Ozorio, un attivista del Falintil, l'esercito di resistenza timorese. Paulo aveva avuto notizie di un massacro appena compiuto a Becora, un villaggio appena fuori Dili. Le atrocità commesse dagli indonesiani erano tanto comuni quanto terribili, ma i resoconti questa volta mettevano in ombra tutti gli orrori del passato: gli indonesiani avevano radunato una trentina tra donne e bambine, le avevano stuprate e appese a ganci da macellaio, e, quando ancora erano vive, gli avevano amputato braccia e gambe. Paulo disse che i corpi erano stati gettati in un fosso lì vicino e invitò Lewis ad andare a vedere e documentare.

Lewis si attivò all'istante. Manuel gli raccomandò di essere prudente, di mantenere un profilo basso. Era pericoloso spostarsi fuori da Dili ma le centinaia di militari australiani appena arrivati davano a Lewis più sicurezza. Un uomo del posto, Jorge, si disse disposto a portarlo a Becora in motocicletta, e così nel giro di un'ora partirono.

Lewis arrivò a Becora senza problemi, e trovò i cadaveri. Il racconto di Paulo si rivelò persino riduttivo. Le vittime erano in gran parte bambine, quarantadue in tutto. Erano chiaramente state percosse, stuprate, mutilate. Lewis, che pensava di avere già visto di tutto in posti come la Liberia, la Cecenia, il Congo, a Becora trovò qualcosa che andava oltre ogni comprensione, qualcosa che non poteva essere descritto a parole.

Lewis raccolse le prove. Fece delle fotografie. Trascrisse il racconto dei genitori delle vittime e ascoltò la gente del posto. Con quella documentazione schiacciante, riprese la motocicletta e corse insieme a Jorge verso Dili, in modo da poter scrivere il suo reportage presso la sede locale dell'ONU e mandarlo a New York.

Avevano quasi raggiunto Dili, quando sulla strada comparvero cinque uomini armati di fucile e con indosso la divisa dell'esercito indonesiano. Jorge si fermò subito, ma mentre cercava di fare dietro front gli spararono alla testa. Un altro proiettile colpì al polpaccio Lewis e gli impedì di correre. Cercò di raggiungere zoppicando la boscaglia vicina ma i soldati lo presero e gli puntarono i fucili alla testa. Lewis pensò che volessero ucciderlo subito, ma invece lo gettarono in una camionetta e lo portarono in una specie di carcere.

Lo misero in una cella torrida, priva di finestre, con pareti di cemento striate di sangue ed escrementi. Lo spogliarono completamente, gli legarono i polsi alle caviglie e lo incappucciarono. Lo lasciarono in quelle condizioni per un giorno intero, senza cibo né acqua, con la schiena che urlava per il dolore. Ogni paio d'ore qualcuno entrava a picchiarlo e gli raccontava in ogni minimo particolare che cosa avevano intenzione di fargli. Quando alla fine lo slegarono, non riusciva più a camminare. Aveva una spalla rotta e gli cedevano le gambe.

Lo trascinarono in una stanza degli interrogatori: una stanza coi muri sbrecciati dipinti di verdazzurro, con una sedia, una batteria d'automobile e una branda di ferro, a cui lo legarono con corde di nylon. Volevano sapere chi era il militante del Falintil che gli aveva detto del massacro. Lui non rispose, e allora gli tolsero il cappuccio, per fargli vedere dove attaccavano i fili elettrici. Glieli misero attorno ai testicoli. Nel retto. In bocca. «Ti facciamo diventare impotente» gli dissero. Ad accendere la batteria era sempre lo stesso uomo, un tizio dalla faccia torva. Lewis poteva prevedere l'intensità del dolore da quanto abbassava la maniglia dell'apparecchio con quelle sue manine. Il dolore... come descriverlo? Era come un trapano che gli perforava la carne. Un dolore atroce, da impazzire, che gli strappava urla dalla gola e gli dava le convulsioni. Se era fortunato sveniva, ma riprendeva conoscenza pochi minuti dopo, immerso nei propri escrementi.

Andò avanti così per giorni. Senza tregua. Lewis avrebbe potuto non sopravvivere, ma loro erano dei maestri: sapevano come tenere una persona sull'orlo della morte infliggendole il massimo dolore. Parte della loro abilità consisteva nel farlo stare costantemente sulla corda; non sapeva mai quando sarebbero tornati a prenderlo. Gli davano qualche ora di riposo in cella, poi lo trascinavano di nuovo nella stanza degli interrogatori e lo legavano alla branda. Dopo un po' iniziarono a fargli altre cose. Lo appendevano a testa in giù e gli versavano urina nelle narici. Gli introducevano oggetti nell'ano. Gli percuotevano le piante dei piedi con dei tubi. Chi era il suo contatto nella resistenza Falintil? Gli infilavano in testa un sacco imbevuto di benzina. Gli facevano dei tagli sulle braccia e sulle gambe. «Perché vuoi morire?» gli chiedevano. «Dicci il nome.» Ma non sapevano che a Lewis non importava di morire. Lui si rifugiava in quell'angolo della sua mente dove non potevano toccarlo, lo spazio dove aveva riposto tutto il suo dolore per la morte di suo figlio. Lì lo spirito di Daniel lo raggiungeva, lo teneva stretto, lo guidava attraverso quel tormento.

Ma presto Daniel smise di venire. Lewis stava perdendo il controllo di sé. Appena sentiva dei passi avvicinarsi alla sua cella si pisciava addosso. Nella sua mente le voci urlavano, lo aggredivano, gli dicevano che l'essere umano è cattivo per sua natura, che lui doveva capirlo e accettarlo. Gli ricordavano com'era morto suo figlio, lo costringevano a rivedere il suo corpo. Gli mostravano le raccapriccianti istantanee di tutto l'orrore che aveva visto nel mondo: torture, stupri, mutilazioni, scempi. Non gli avrebbero dato pace, doveva accettare i loro insegnamenti, riconoscere che quello che dicevano era vero. Allo stesso tempo gli uomini continuavano a venire a prenderlo: lo trascinavano via, lo legavano alla branda, volevano il nome del suo contatto nel Falintil. Ma se avesse fatto il nome di Paulo lo avrebbero arrestato, avrebbero ucciso lui e la sua famiglia. L'unica speranza di Lewis era mentire. Lewis non pensava di sopravvivere, ma almeno Paulo non sarebbe morto.

Alla fine però non resse più. Fece un nome, falso. Ma sapevano che aveva mentito. Dissero che avevano scoperto il suo vero contatto e aspettavano solo che lui glielo svelasse. Volevano sentirlo dire da lui, altrimenti le conseguenze sarebbero state molto gravi. Fu a quel punto che fecero entrare la piccola Anamaria, la figlia undicenne di Manuel da Silva. Gli tolsero il cappuccio, per fargli vedere cosa le avevano fatto. Anamaria aveva gli occhi gonfi, quasi del tutto chiusi. Era nuda, ricoperta dai segni delle frustate. Le gambe erano ricoperte di sangue e ferite e quasi non riusciva a camminare. Lewis capì che l'avevano brutalmente stuprata. Quando Anamaria lo vide e lo riconobbe, scoppiò a piangere e lo supplicò.

L'interrogatore gli chiese di nuovo il vero nome del suo contatto. Chi gli aveva dato l'informazione sul massacro? Lewis non rispose, e allora trascinarono Anamaria in mezzo alla stanza. Lewis vide nei suoi occhi che una parte di lei stava morendo. Adesso non si muoveva più. Non urlò, nemmeno quando un soldato prese il coltello e le tagliò la lingua.

Sarebbero andati avanti. Dissero a Lewis che le avrebbero tagliato le orecchie. Le dita. I seni.

«Vi uccideremo tutti e due e vi getteremo nel fiume, e non lo verrà mai a sapere nessuno» disse un soldato.

Quel preciso istante segnò la fine della persona che Robert Lewis era stato. Gli diede il nome. Paulo Ozorio. Gli sfuggì dalle labbra senza un'esitazione, rimase sorpreso dalla facilità con cui lo disse. Fu incredibilmente facile, e si vergognò di essere stato così stupido da aspettare e sopportare tanto.

Naturalmente, Anamaria fu comunque seviziata, e lui fu costretto a guardare. Aveva quasi l'età di Lina. Solo undici anni.

Dopo un paio d'ore portarono dentro Paulo e gli fecero le stesse cose che avevano fatto ad Anamaria, poi lo lasciarono a morire li per terra. Lewis s'aspettava di essere il successivo. Lo desiderava, perché sapeva che la sua vita era finita.

Ma i soldati gli vollero infliggere una punizione esemplare, per sottolineare la loro opposizione all'indipendenza di Timor Est. Lo lasciarono vivere. Il mattino dopo, appena prima dell'alba, lo slegarono e lo portarono fuori dalla sua cella. Lo misero su una camionetta. Lo portarono alla periferia di Dili e lo scaricarono sul ciglio di una strada. Fu ritrovato da un contadino e finì alla sede locale dell'ONU, curato dai medici dell'esercito australiano, e per giorni non poté muoversi né parlare. La sua storia finì sui giornali, ma nessuno dei medici scoprì chi era. Lui stesso faticò a riconoscersi allo specchio; la sua faccia era così gonfia e livida che sembrava quella di un povero derelitto sconosciuto. Si fece trasportare in aereo in un ospedale di Singapore per ricevere cure più intensive. I medici capirono subito che cosa gli era successo ma lui non disse una parola sui responsabili, su dove gli fosse accaduto, sul perché. Ormai era troppo tardi. Non aveva più nessuna importanza.

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