Copertina
Autore Michele Salvati
Titolo Occasioni mancate
SottotitoloEconomia e politica in Italia dagli anni '60 a oggi
EdizioneLaterza, Roma-Bari, 2000, Sagittari 121 , pag. 142, dim. 140x210x15 mm , Isbn 978-88-420-6066-6
LettoreRenato di Stefano, 2000
Classe economia , politica , lavoro
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Indice


    Introduzione                         V

I.  Uno sguardo a volo d'uccello         3

II. Crescita del reddito e ristagno
    degli investimenti (1963-1969)       9

III.Un intermezzo: lo schema
    interpretativo                      15
    Impreparazione e inadeguatezze,
    p. 18 - Perché?  Tre brevi flash,
    p. 22 - Occasioni mancate, p. 32

IV. La grande inflazione (1970-1979)    35
    Domanda e offerta di inflazione:
    la domanda, p. 37 - L'offerta di
    inflazione, p. 41 - La crisi di
    metà decennio, p. 45 - Un tentativo
    di stabilizzazione consensuale,
    p. 48 - Eppur si muove, p. 54

V.  Il grande debito (1980-1992)        59
    Una stabilizzazione incompleta e
    semi-conflittuale, p. 61 - Inflazione,
    disavanzi, debito: tredici anni di
    politiche, p. 64 - L'economia reale:
    crescita, occupazione, Mezzogiorno,
    imprese, p. 76

VI. Crisi politica e risanamento
    macroeconomico (1992-1999)          83
    La crisi finanziaria, p. 84 -
    La crisi politica, p. 87 - La
    stabilizzazione e le politiche
    pubbliche: il metodo della
    concertazione, p. 93 - Sviluppo,
    occupazione, Mezzogiorno,
    privatizzazioni, p. 99

VII.La politica come ostacolo e
    come risorsa                       109

    Appendice                          115
    Note                               123
    Bibliografia                       133

 

 

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Pagina 3

Capitolo primo
Uno sguardo a volo d'uccello


L'esposizione che segue copre un periodo molto lungo: quello che va dai primi anni Sessanta sino ai nostri giorni. Tale periodo comprende l'ultima parte della fase del grande sviluppo postbellico dei paesi industrialmente avanzati e l'intera fase successiva, a sviluppo più lento e instabile, nella quale tuttora viviamo. Dal punto di vista interno esso si estende da un «miracolo economico» reale ad un «miracolo» finanziario e fiscale: dal grande boom dei primi anni Sessanta al risanamento degli anni Novanta. Dopo aver sottolineato l'importanza dello snodo degli anni Settanta tra le due diverse fasi di sviluppo internazionale, queste pagine introduttive sorvolano l'intera vicenda sotto esame e spiegano le ragioni della periodizzazione adottata.

Chiunque osservi lo sviluppo postbellico dei paesi europei (e, più in generale, dei paesi economicamente avanzati) non può non essere colpito da un fenomeno evidente: con alcune sfasature temporali e variazioni di intensità, in tutti questi paesi il ritmo dello sviluppo (il tasso di crescita del reddito e le variabili ad esso più strettamente collegate: tasso di crescita della produttività, tasso di crescita e quota nel reddito degli investimenti) si spezza nel corso degli anni Settanta. La rottura lascia nella prima parte - dalla fine della guerra sino agli anni Settanta - quella fase di travolgente crescita industriale che ha ricevuto le denominazioni più fantasiose (l'«età dell'oro», il «compromesso keynesiano», l'«accumulazione fordista», «les treinte glorieuses», ecc.); lascia nella seconda parte una fase di sviluppo assai più modesta, nella quale il tasso di crescita del reddito e della produttività (in media e grosso modo) si dimezzano, e il tasso di crescita e la quota nel reddito degli investimenti si riducono in proporzione (aumenta anche la turbolenza: la varianza del tasso di crescita è quasi doppia rispetto al periodo precedente).

[...]

Come vedremo, gli anni Settanta, tutti gli anni Settanta, sono caratterizzati da una forte ridistribuzione del reddito e del potere nei luoghi di lavoro a favore del lavoro dipendente, da tensioni sociali di inconsueta intensità, da una forte instabilità politica, da un problema di politica economica che sovrasta sugli altri e non viene mai efficacemente affrontato: quello dell'inflazione. È certo possibile periodizzare all'intemo degli anni Settanta, in particolare intorno al 1975: l'hanno fatto tanti e l'ha fatto anche chi scrive in altri lavori, un poco per far coincidere un punto di svolta interno con la più consueta tra le periodizzazioni della svolta internazionale, un poco perché dopo quella data effettivamente si attenua la spinta ridistributíva a favore del lavoro dipendente e i governi di solidarietà nazionale attuano un primo tentativo di affrontare seriamente, anche se senza successo, il problema dell'inflazione. Ma la vera rottura - nel clima sociale, negli equilibri politici, nelle politiche economiche - è quella che avviene all'inizio degli anni Ottanta, in cui il mutamento di regime internazionale appena imposto dagli Stati Uniti trova nel nostro paese governi e «clima» capaci di assecondarlo. Assecondarlo era inevitabile; e poi si tratterà di un «nuovo regime» all'italiana, in cui l'inflazione viene ridotta assai più lentamente che altrove in Europa e sovrapponendo ad essa un debito pubblico sempre più pesante; ma lo stacco rispetto agli anni Settanta è molto netto.

Fissati due punti cardine della periodizzazione che adotteremo - in buona misura, e soprattutto il secondo, attribuibili a influenze internazionali, ma anche coincidenti con significativi mutamenti nell'impulso di variabili politiche e sociali interne - è a queste ultime che occorre soprattutto rivolgere l'attenzione per stabilire gli altri. Due momenti di svolta si impongono con evidenza. Il momento da cui parte il nostro racconto è costituito dal primo intervento di politica economica fortemente restrittivo dopo la stabilizzazione einaudiana del 1947-1948, attuato nel 1963 allo scopo di frenare le tensioni infiazionistiche e lo squilibrio nella bilancia dei pagamenti che si erano sviluppati nella fase finale del miracolo economico. A differenza dei paesi a noi vicini, e in condizioni internazionali favorevolissime, l'economia (ma soprattutto la politica e la società) del nostro paese dimostra di non essere in grado di sostenere uno sforzo di accumulazione e di crescita prolungato, di far seguire ai successi della prima industrializzazione degli anni Cinquanta uno sforzo di modernizzazione - di «seconda generazione», per così dire - coronato da un analogo successo. Le restrizioni monetarie e fiscali del 1963 non avrebbero di per sé alcun significato periodizzante: altri paesi hanno dovuto ricorrervi per raffreddare momentanei surriscaldamenti dell'economia, ma sono poi rapidamente tornati sulla stessa pista di crescita che avevano dovuto momentaneamente abbandonare. Non avviene così nel caso italiano: il raggiungimento della piena occupazione nei primi anni Sessanta e le tensioni sui mercati del lavoro che ne scaturiscono, ma soprattutto il mutamento degli equilibri politici (i governi di centro-sinistra) che avviene in concomitanza a questi eventi, costituiscono un trauma per il capitalismo del nostro paese. Trascinato dalle esportazioni, il processo di crescita riprenderà con vigore; ma il processo di accumulazione - la dinamica degli investimenti e soprattutto di quelli volti ad incorporare nuove tecniche o a sviluppare nuovi e più avanzati prodotti - subirà una flessione significativa, di gran lunga precedente al rallentamento che colpirà tutti i paesi industriali nel corso del decennio successivo. Insomma, uno «sciopero del capitale», come chi scrive l'ha definito altrove per contrapporlo agli «scioperi del lavoro» con i quali si chiudono gli anni Sessanta e si aprono i turbolenti anni Settanta.

Rimane da scandire il lungo periodo che va dalla svolta (internazionale e interna) del 1979-1980 sino ai nostri giorni. Proponiamo per questo una sola scansione, quella che coincide con la crisi valutaria, finanziaria e soprattutto politico-sociale del 1992, una crisi prevalentemente giustificata da motivi interni, anche se influenze internazionali giocarono un ruolo maggiore che nel 1963.

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Capitolo secondo
Crescita del reddito
e ristagno degli investimenti
(1963-1969)


L'Italia verso la piena occupazione: così Pasquale Saraceno titolava una raccolta di suoi scritti sul periodo che stiamo considerando. Una strana piena occupazione. La tumultuosa espansione industriale del miracolo economico aveva sì condotto a diffuse carenze di mano d'opera, soprattutto specializzata, nelle regioni a più alta crescita industriale e aveva spinto il tasso di disoccupazione, come definito dalle Rilevazioni trimestrali dell'Istat da poco iniziate, al livello più basso che mai sarà raggiunto in Italia (poco sotto il 4%, nel 1963); ma questo avveniva nel contesto di un forte calo dei tassi di occupazione e di attività, cioè del rapporto tra gli occupati o gli attivi (occupati più disoccupati) e il totale della popolazione.

[...]

Questa è l'Italia della «piena occupazione», agli inizi degli anni Sessanta. Ma le tensioni sui mercati del lavoro moderni sono vere e la discesa del tasso di disoccupazione le segnala correttamente. I salari di fatto cominciano a salire oltre i minimi contrattuali e i sindacati, che proprio a cavallo del 1960 erano giunti al punto più basso della loro forza organizzativa, tornano ad alzare il capo: verso la fine del «miracolo» essi si dimostrano capaci di una intensa attività di mobilitazione e di lotta, spesso condotta in collaborazione, dopo le divisioni e i conflitti politici degli anni Cinquanta. Tra il 1962 e il 1963 esplodono i costi del lavoro, comprimendo fortemente, in una situazione di cambi fissi, la quota dei profitti nel valore aggiunto dell'industria. Simultaneamente, la fortissima dinamica delle componenti interne della domanda (ai consumi, sospinti dalla ridistribuzione del reddito a favore del lavoro, si aggiungono gli investimenti, che intanto proseguono nella loro corsa vorticosa) genera per la prima volta un preoccupante disavanzo commerciale nella bilancia dei pagamenti. Per arginare queste tendenze, era necessario un intervento delle autorità economiche.

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Capitolo terzo
Un intermezzo: lo schema interpretativo


Affinché lo slancio di industrializzazione e modernizzazione del paese continuasse ai ritmi e coll'intensità che aveva conosciuto fino ai primi anni Sessanta, molte cose dovevano cambiare e col senno di poi è oggi facile rendersene conto. O meglio, molte cose dovevano essere diverse da quelle che erano di fatto. Un rapido confronto tra stato di fatto ed esigenze, tra come la situazione economica, sociale e politica era e come sarebbe dovuta essere affinché il processo di modernizzazione dell'economia e della società italiane potesse dispiegarsi appieno non costituisce un'argomentazione «controfattuale» irrilevante: è, al contrario, l'unico strumento di cui disponiamo per capire perché il tasso di crescita dell'economia italiana (e, più in generale, il modello di modernizzazione verso cui il nostro paese si avviò) furono quelli che di fatto furono. Un'interpretazione storica - dato un insieme di esigenze strutturali del processo di modernizzazione - è sempre un confronto tra risposte possibili e risposte effettive, dal quale emergono le ragioni per cui una società fornisce le seconde e non le prime.

Le esigenze strutturali più immediate riguardano l'economia, e in particolare i due cruciali fattori da cui lo sviluppo economico dipende: il lavoro e il capitale. Quanto al primo, la prosecuzione di uno sviluppo economico intenso richiedeva la disponibilità di forza lavoro dotata di preparazione adeguata e disponibile a salari e intensità lavorativa in grado di mantenere continue condizioni di competitività nella situazione di cambi fissi allora prevalente. Le tensioni del 1962-1963 dovevano dunque suonare come un campanello d'allarme: il lavoro, quantomeno quello utilizzabile nel settore moderno dell'economia, non era una risorsa illimitata, le modalità con le quali lo si era impiegato e remunerato durante gli anni Cinquanta non erano più efficaci in un'economia che stava muovendo «verso la piena occupazione» e molte cose dovevano cambiare affinché tensioni analoghe (molto più forti, come poi fu il caso) non si ripetessero. Lo stesso è vero per l'altro grande fattore di produzione, il capitale. Durante gli anni Cinquanta l'accumulazione era stata intensissima e la ripartizione di compiti tra il settore privato e quello pubblico molto efficace; ma a metà degli anni Sessanta, sia il disegno e gli indirizzi degli investimenti pubblici e privati, sia lo stesso riparto di compiti tra i due settori dovevano essere modificati. L'accumulazione «facile», su modelli largamente importati, era ormai dietro le spalle e lo stesso peso anomalo dell'impresa pubblica (anomalo in un confronto internazionale) doveva probabilmente ridursi, dopo che questa aveva assolto - e così bene - il compito di dare al paese i fondamentali beni intermedi di cui lo sviluppo industriale ha bisogno.

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Certo, col senno di poi oggi è facile rendersi conto dei limiti della strategia dell'intervento straordinario, della Cassa per il Mezzogiorno, già nella fase eroica della grande industrializzazione: nonostante il tempo trascorso, nonostante le risorse profuse, il Mezzogiorno ancora non possiede (nel suo insieme e in particolare nelle due regioni più popolose, Campania e Sicilia) una struttura economica autonoma e competitiva, in grado di sostenere senza contributi esterni il livello di consumo che le sue popolazioni hanno raggiunto. E soprattutto non sembrano essersi attenuati di molto quei caratteri della sua cultura, della sua società e delle sue istituzioni che rendono l'iniziativa imprenditoriale privata più difficile che in altre zone del paese. Ma l'iniziativa della Cassa non aveva un retroterra teorico ingenuo: nella Svimez, tra i pianificatori e i meridionalisti che si schierarono per forzare nel Mezzogiorno lo sviluppo economico attraverso la grande industria, non faceva difetto la comprensione dell'obiettivo finale di questa strategia, che era proprio quello di cambiare la società, la cultura, le mentalità: era questo il sostrato sul quale una crescita autonoma si sarebbe dovuta sostenere in futuro. Nel contesto «programmatorio» di allora, col grande e meritato prestigio che l'industria pubblica si era conquistata, in una situazione di intenso sviluppo economico, fu convinzione prevalente che fosse opportuno mettere la leva su una trasformazione della struttura industriale forzata dall'esterno, nella speranza che forme associative, istituzioni sociali, mentalità e orientamenti individuali favorevoli allo sviluppo seguissero, come l'intendenza di Napoleone.

Oggi, la convinzione prevalente è che - fatte salve alcune facilitazioni di base che compensino le più gravi diseconomie esterne - la leva debba essere posta prevalentemente sulla società e le sue istituzioni: questa volta dovrebbe essere l'attività economica (ancora l'industria, ma soprattutto attraverso piccole imprese d'origine locale) a giocare il ruolo dell'intendenza di Napoleone, a seguire. Rispetto ad allora il mutamento di clima è reale, ma una strategia che voglia far leva sulla società e le sue istituzioni non è per nulla facile: una «ingegneria» istituzionale e sociale è assai più controversa nel suo disegno e incerta nei suoi effetti della semplice ingegneria economica dei programmi di sviluppo e dell'intervento straordinario della Cassa. Essa passa necessariamente attraverso un forte miglioramento dei servizi gestiti dallo Stato (giustizia, ordine pubblico, istruzione, sanità, altri servizi ai cittadini e alle imprese forniti dalle amministrazioni centrali e dagli enti locali) e dunque attraverso la soluzione di uno dei più ostici problemi di lunga durata che affliggono il nostro paese: l'inefficienza dell'amministrazione pubblica.

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Va subito aggiunto, per mettere in prospettiva questa «sorpresa», che anche in altri paesi, anche in quelli dove l'attività economica è quasi esclusivamente organizzata da privati e dove la cultura liberale è più radicata, lo Stato non è indifferente allo sviluppo dell'economia. Esso però manifesta il suo interesse in maniera diversa. Lo manifesta, sostanzialmente, in tre modi: creando un assetto di regole, stabile e accompagnato da sanzioni efficaci, che favorisce lo sviluppo dell'iniziativa privata e la sua diffusione competitiva; fornendo efficienti servizi in settori in cui il mercato non è in grado di fornirli o dove si ritiene politicamente preferibíle provvedere in altro modo (dalla giustizia all'ordine pubblico, ma anche dall'istruzione alla sanità); intervenendo ad hoc in situazioni di emergenza o in settori strategici, ma senza mai organizzarli stabilmente attraverso l'impresa pubblica («socializzando le perdite e privatizzando i profitti», come osservano, non senza qualche ragione, i critici del capitalismo). Presupposto essenziale di queste modalità più indirette di intervento è, naturalmente, un'amministrazione pubblica «ordinaria» di qualità adeguata, oltre che un consenso politico diffuso sugli orientamenti di fondo dell'intervento pubblico nell'economia. Perché si dovettero attendere gli anni Novanta, colle privatizzazioni e le nuove regole sul governo delle imprese, per un serio tentativo di adeguarsi a questo modello altrove prevalente? Che cosa ha impedito, nei primi anni Cinquanta, quando il problema effettivamente si pose sull'agenda politica, di devolvere ai privati la gran parte delle attività industriali e finanziarie racchiuse nel sistema delle Partecipazioni Statali, com'era esplicitamente indicato nello stesso progetto che portò alla costituzione dell'Iri? Che cosa, anzi, indusse a sviluppare, a partire da un ente pubblico economico che doveva essere liquidato, un'altra gigantesca iniziativa pubblica come l'Eni?

Al massimo livello di generalità, la risposta non può che appoggiarsi su tre ragioni. Anzitutto, non c'era la volontà di ridisegnare l'assetto industriale e finanziario emerso dalla grande crisi degli anni Trenta: per motivi diversi, erano contrarie le due grandi forze politiche che predominavano nel governo e nell'opposizione. Esistevano però conflitti interni alla coalizione di maggioranza: se i privati fossero stati in grado di mobilitare risorse finanziarie adeguate e avessero presentato progetti credibili e all'altezza dei problemi che allora affliggevano il paese, la battaglia per la privatizzazione e per un nuovo assetto del sistema finanziario non sarebbe stata necessariamente persa. Ma la grande industria privata di allora non aveva né le risorse, né i progetti, e questa è la seconda ragione. Risorse e progetti, soprattutto grandi progetti, li aveva l'industria pubblica, allora guidata da un ceto dirigente di grande competenza tecnica e di forte passione civile, e questa terza ragione - insieme a forze di conservazione e trascinamento dell'esistente - chiudeva il cerchio.

[...]

Per concludere su questo punto: la limitatezza territoriale, l'inadeguatezza progettuale, l'impreparazione manifesta ogni volta che si posero scadenze importanti sono tratti evidenti in una valutazione comparativa della grande industria privata del nostro paese. La possibile obiezione a questo giudizio - che il bambino dev'essere buttato in acqua per imparare a nuotare, e dunque che lo Stato ostacolò la formazione di una grande industria più diffusa, più adeguata e più preparata evitando di porla alla prova, svolgendo in prima persona il compito che i privati avrebbero dovuto svolgere e non costruendo un contesto di regole e un sistema di servizi capaci di assistere il «bambino buttato in acqua» - non è priva di plausibilità. Come tutti i controfattualí («che cosa sarebbe accaduto se...») essa soffre della mancanza di controprove: i privati erano effettivamente impreparati e lo Stato è effettivamente intervenuto, alimentando cosí un circuito di deresponsabilizzazione e di influenze reciproche, spesso perverse, che si è protratto sino a tempi recentissimi. Questa è una parte della storia che deve essere raccontata. L'altra parte deve però mettere in rilievo che ci furono momenti in cui si assistette ad una efficace divisione del lavoro tra i due segmenti, pubblico e privato, del sistema finanziario e della grande industria, momenti che perdurarono fino a quando il segmento pubblico non entrò in un processo degenerativo inarrestabile.

Le premesse sistemiche di questa degenerazione erano insite nello stesso disegno delle Partecipazioni Statali e dell'impresa pubblica, nel contesto politico e amministrativo del nostro paese: la cura degli interessi dei fornitori dei capitali investiti (e insieme, perché si tratta della stessa cosa, la cura degli interessi di lungo periodo del paese) da parte dei dirigenti delle imprese pubbliche non discendeva da regole che collegassero tale compito coll'interesse stesso dei dirigenti, come avviene per il perseguimento del profitto da parte dei dirigenti (agenti) dell'impresa privata, sottoposti al controllo degli azionisti (ossia del «principale»). La «cura» poteva durare fino a quando il timone fosse rimasto nelle mani di una generazione «straordinaria» per capacità e devozione all'interesse pubblico e i suoi successori non fossero stati catturati da un «principale» politico con interessi divergenti. Ma la presenza di un rischio sistemico di degenerazione nel rapporto tra principale e agente non implica di necessità una degenerazione effettiva. Altrove, e ci siamo già riferiti alla Francia, una amministrazione ordinaria di alta qualità e un ceto politico che, in momenti cruciali, seppe far proprie le esigenze di sviluppo e ammodernamento del paese, aprirono all'industria pubblica una stagione di efficienza e innovazione che arriva sino ai nostri giorni: se oggi anche in Francia l'industria pubblica è sotto attacco, ciò avviene più per la pressione di influenze esterne (l'Unione Europea, l'internazionalizzazione) che per inefficienza interna. In Italia, un ceto politico diviso, clientelare, largamente estraneo ai problemi dell'índustria e della finanza, privo di una visione condivisa di lungo periodo, condusse allo sfacelo un'esperienza che, a metà degli anni Sessanta, l'intera Europa ci invidiava.

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Pagina 33

Il concetto di «occasione mancata» - nell'uso che in questo saggio ne viene fatto - null'altro è se non una manifestazione particolarmente evidente dello scostamento tra lo sviluppo effettivo e quello possiliile e dunque si tratta di una categoria intimamente legata all'uso di un ragionamento controfattuale. Gli anni tra il 1963 e il 1970 ne sono un esempio, perché le circostanze esterne erano favorevolissime, le pressioni inflazionistiche interne erano state sedate e dunque nessun impedimento grave ostacolava un maggior sviluppo degli investimenti o iniziative più incisive di riforma economica. Un altro buon esempio, come vedremo, è costituito dagli anni Ottanta: qui venne mancata l'evidente occasione di frenare la crescita del debito pubblico, quando tale crescita era perfettamente prevedibile, già molto minacciosa e circostanze esterne favorevoli avrebbero permesso di bloccarla con costi economici e sociali assai minori di quelli che dovemmo sopportare negli anni Novanta. Nelle «occasioni mancate», dunque, si rivelano con maggiore trasparenza quell'impreparazione e quelle inadeguatezze dei ceti dirigenti di cui abbiamo lungamente parlato.

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Capitolo quarto
La grande inflazione
(1970-1979)


Il periodo tra il 1973 (guerra del Kippur e conseguente quadruplicazíone dei prezzi del petrolio) e il 1975 (la più intensa recessione dal dopoguerra) è quello cui solitamente ci si riferisce, per i paesi più sviluppati, come spartiacque tra l'«età dell'oro» e la fase di crescita più moderata e instabile nella quale ancora stiamo vivendo. Come spesso avviene, i contemporanei non si rendevano affatto conto di vivere un momento di passaggio così significativo. I primi anni Settanta avevano visto il crollo del sistema monetario internazionale a cambi fissi disegnato a Bretton Woods; con intensità diversa, molti paesi stavano sperimentando forti pressioni inflazionistiche e alcuni, l'Italia soprattutto, turbolenze sociali inconsuete. Ma l'interpretazione prevalente era quella che si trattasse di un concorso di circostanze eccezionali e sfortunate (la guerra del Vietnam) e di errori di politíca economica (una creazione eccessiva di moneta negli Stati Uniti). La stessa interpretazione venne data agli eventi traumatici del 1973-1975: circostanze eccezionali (la quadruplicazione dei prezzi del greggio) ed errori di politica economica (tutti avevano adottato, simultaneamente, misure restrittive troppo forti).

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Pagina 38

La fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta vedono quasi ovunque, nei paesi capitalistici avanzati, i sindacati all'offensiva e rivendicazioni salariali potenzialmente inflazionistiche, irrealizzabili in termini reali: il lungo pieno impiego dell'«età dell'oro», la flessione nella crescita della produttività, condizioni monetarie permissive a livello internazionale sono le cause più frequentemente addotte per spiegare questa intensa e quasi simultanea ondata rivendicativa. L'insoddisfazione e il disagio nei confronti della distribuzione del reddito, degli assetti di potere, degli stessi orientamenti culturali che avevano accompagnato il lungo ciclo espansivo postbellico non erano solo degli operai dell'industria: in molti paesi - negli Stati Uniti, in Francia, in Germania, in Italia - il periodo che va dalla metà alla fine degli anni Sessanta è caratterizzato dalla protesta degli studenti, sorprendente (nel senso letterale del termine: prese di sorpresa tutti gli osservatori e anche oggi è solo parzialmente spiegata) per intensità, estensione e radicalismo di obiettivi. È in questo clima, un clima «sessantottino», che si scatena «l'autunno caldo» degli operai italiani, in occasione del rinnovo del contratto collettivo dei metalmeccanici nell'autunno-inverno 1969-1970.

Non c'è curva di Phillips (la correlazione negativa tra il tasso di crescita dei salari e il tasso di disoccupazione, eventualmente aggiustata per la crescita dei prezzi) che dia conto, sulla base dell'esperienza passata, degli eccezionali incrementi salariali conseguenti all'autunno caldo. L'economia era in forte espansione e gli investimenti erano tornati a crescere vigorosamente dopo il ristagno nel periodo centrale degli anni Sessanta; ma la politica monetaria era cauta, la bilancia commerciale in attivo, l'occupazione industriale aveva a malapena superato il picco del 1963 e il tasso di disoccupazione era ancora distante dal livello minimo allora raggiunto: chiaramente non ci si trovava nel travolgente boom di domanda di allora. Per trovare una spiegazione dell'intensità e soprattutto della natura delle domande operaie di quegli anni bisogna uscire dagli schemi macroeconomici più semplici e tener conto di fattori strutturali e ambientali che quegli schemi assumono come invarianti ed erano, invece, profondamente mutati.

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Pagina 54

Eppur si muove

Lasciamo al prossimo capitolo una valutazione d'insieme del «grande debito» pubblico, limitandoci per ora a ricordare che la sua origine sta ben dentro i turbolenti anni Settanta, ed anzi in parte risale agli ultimi anni Sessanta. La causa ultima del debito è infatti la stessa dell'inflazione: l'incapacità dei governi di costringere le domande sociali all'interno delle risorse disponibili in un contesto monetariamente e fiscalmente controllato: o le si lasciano espandere in termini monetari per poi reprimerle, parzialmente o per intero, mediante la crescita dei prezzi (e questa è l'inflazione); o si lascia crescere la spesa pubblica oltre la crescita delle entrate, così scaricandone l'onere sulle generazioni successive (e questa è l'origine del debito). L'incapacità e la debolezza dei governi si manifestano in modo drammatico negli anni Settanta: sarebbe strano se, avendone misurato le conseguenze sul piano dell'inflazione, non ne trovassimo tracce evidenti anche su quello dei disavanzi e del debito.

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Capitolo quinto
Il grande debito
(1980-1992)


La crescente influenza delle teorie monetaristiche e il declino di quelle keynesiane sono talora posti a fondamento della svolta nel regime internazionale di politica economica che avviene a cavallo del 1980. Questo riorientamento nel regno delle idee indubbiamente ci fu, ma forse gli economisti sono condotti ad esagerare l'importanza: chi ha ricostruito con cura quel passaggio storico - sia nel Regno Unito, che lo anticipò, sia negli Stati Uniti, che lo confermarono e l'imposero a tutto il mondo - è giunto alla conclusione che l'adesione al monetarismo della Banca d'Inghilterra, della Federal Reserve e della stessa Bundesbank fu largamente strumentale. Poderosi interessi premevano affinché l'inflazione venisse rapidamente soffocata (era in corso un nuovo, forte aumento nei prezzi del petrolio ed era vivissima la memoria dell'insuccesso delle misure con le quali si erano contrastati gli effetti del precedente) ed affinché i capitali monetari e finanziari tornassero ad avere rendimenti reali positivi: un rovesciamento nel regime di politica economica era nell'aria e le teorie monetaristiche ne furono un comodo veicolo ideologico. Ma le autorità monetarie e fiscalí - americane, inglesi o tedesche che fossero - non si diedero certo cura di seguisse le singole prescrizioni con scrupolo dottrinario: esse volevano un rapido e durevole rovesciamento delle aspettative, volevano render chiaro che l'inflazione non sarebbe stata più tollerata, volevano che i capitali - in un mondo sempre più integrato finanziariamente - avessero un adeguato rendimento reale, e questo ottennero con gli strumenti tecnici più diversi, fossero o meno raccomandati dal monetarismo o dalla nuova economia classica. E sapevano anche che il rovesciamento sarebbe costato caro in termini di sviluppo, come di fatto avvenne per i paesi, le imprese, gli Stati più indebitati e poi, per effetto di connessione, per il mondo intero: già a partire dal 1980, ma soprattutto nel 1981 e 1982, i paesi avanzati entrano in una forte recessione, meno intensa ma più prolungata di quella del 1975; per i paesi più indebitati del Terzo Mondo, per l'Africa e l'America Latina soprattutto, l'intero decennio è horribilis e alla sua fine essi si ritroveranno con redditi reali pro-capite minori di quelli con cui vi erano entrati.

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Pagina 64

Inflazione, disavanzi, debito: tredici anni di politiche

All'interno del lungo periodo che va dalla metà del 1979 (fine dell'esperienza di solidarietà nazionale e avvio della versione italiana del nuovo regime di politica economica) all'estate-autunno del 1992 (scoppio della crisi finanziaria e valutaria) distinguiamo un primo sottoperiodo, tra le elezioni politiche del giugno 1979 e l'uscita dalla recessione, verso la fine del 1982; un secondo che prosegue sino alla fine del 1988; un terzo che arriva sino alla crisi valutaria del settembre 1992.

[...]

È per questo motivo che viene spontaneo usare per la parte centrale degli anni Ottanta la stessa categoria che abbiamo usato per la seconda metà dei Sessanta: anche negli anni Ottanta si assiste ad una «occasione mancata», ad una manifestazione particolarmente evidente dello scostamento tra come le cose andarono e come sarebbero potute andare. Le cose andarono come è ben noto: alla fine del 1988, nel punto più alto della lunga espansione 1982-1992, l'inflazione era bensì discesa (al 6,6%), ma era ancora di oltre un terzo superiore alla media europea e, soprattutto, due volte superiore a quella francese e quattro volte a quella tedesca. Ancor più fuori linea erano i dati fiscali.

[...]

Esistevano tutte le premesse strutturali più importanti - questa è la nostra tesi - affinché potessero essere raggiunti risultati assai migliori sul doppio fronte della stabilizzazione: in particolare, sei e più anni di notevole sviluppo del reddito e di buona stabilità politica. Se l'occasione venne mancata, ciò è soprattutto dovuto al fatto che i governi del periodo non volevano/potevano portare l'affondo contro l'inflazione e contro l'accumulazione dei disavanzi oltre i limiti in cui li portarono. Circa i disavanzi e il debito, devono bastare poche osservazioni. Abbiamo appena notato che durante il sessennio 1982-1988 la spesa pubblica sul Pil aumenta «solo» di due punti e mezzo, dopo la crescita stravagante del quadriennio precedente. Ma in tutti gli altri grandi paesi europei questo è un periodo in cui si stanno facendo sforzi considerevoli, spesso coronati da successo, per contenere le spese pubbliche in percentuale del reddito e l'Italia, come quota, ha ormai raggiunto o sta per raggiungere paesi con più elevato reddito pro-capite. E certo non mancavano discussioni e progetti sul controllo, la razionalizzazione, la riduzione di singoli comparti di spesa, in ispecie nel settore previdenziale, di cui ben si conosceva il potenziale esplosivo, il disordine e le iniquità: dire che si fece poco (quando era proprio il momento di agire) è un understatement che rasenta la menzogna.

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Il 1992 è così il primo degli anni (destinati ad inoltrarsi a lungo nel nuovo secolo, se i programmi di risanamento fiscale cui l'Italia si è impegnata con l'Unione Europea saranno rispettati) in cui le entrate complessive superano le spese «ordinarie» dello Stato, le spese per consumi pubblici e trasferimenti non da interessi, cioè quelle che soddisfano bisogni della società e generano consenso politico. D'ora innanzi, e per un periodo lunghissimo, lo Stato dovrà mantenere una differenza positiva non piccola tra quanto sottrae alla società colle imposte e quanto le restituisce con servizi e trasferimenti: una prospettiva assai impopolare, la cui durezza avrebbe potuto essere notevolmente attenuata se l'«occasione» degli anni Ottanta fosse stata colta (oppure se gli anni Settanta fossero stati meno turbolenti, o se...: si può andare a ritroso quanto si vuole).

Il lungo periodo del «grande debito», la lunga espansione degli anni Ottanta, si chiude con un evento di importanza eccezionale, al quale il paese - come già era avvenuto per lo Sme nel 1979 - presta assai scarsa attenzione. Il 7 gennaio 1992, a Maastricht, il presidente del Consiglio di un governo dimissionario e in carica solo per gli affari correnti, Giulio Andreotti, firma per l'Italia il trattato di adesione all'Unione economica e monetaria europea, alla cui definizione egli aveva dedicato non poche cure negli anni precedenti. A differenza dello Sme, il trattato di Maastricht non lascia scappatoie: esso impegna i firmatari ad adempimenti rigorosi (i famosi «parametri», che descriveremo in seguito) e a tempi certi, al fine di poter essere, il primo gennaio 1999, tra gli Stati in cui avrà corso legale la moneta unica europea, l'Euro. In circostanze ancor più difficili che nel 1979, e usando funi ancor più forti, l'Ulisse italiano si lega all'albero maestro europeo per poter resistere alle sirene delle sue cattive abitudini.

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Esiste un nesso tra questa specializzazione produttiva e le politiche macroeconomiche degli anni Settanta e Ottanta? Anche se le cause fondamentali risiedono nei caratteri profondi del nostro capitalismo (e dunque non solo nella debolezza delle singole grandi imprese private, ma anche nella spaccatura tra settore privato e pubblico e nell'incapacità dello Stato nel fornire infrastrutture e servizi di formazione e ricerca adeguati, e soprattutto un sistema regolativo idoneo ad un capitalismo moderno), un nesso esiste, piuttosto evidente, che opera in entrambe le direzioni e scaturisce dalle politiche di cambio che hanno dominato il lungo periodo che va dal 1973 al 1996. Venti e più anni di cambio debole non possono non aver radicato nelle imprese la convinzione che un deprezzamento della lira, incerto nel suo timing di breve periodo, è però certo nel suo accadimento di lungo e dunque finirà per «condonare» qualsiasi aumento nei costi interni, sia quelli dovuti alla minor produttività dei fattori, sia quelli che risalgono alla crescita dei loro prezzi. La prevalente collocazione della nostra industria su gamme relativamente basse della divisione internazionale del lavoro rende rapidamente necessario - in caso di aumento dei costi interni - il deprezzamento della lira; d'altra parte la convinzione che tale deprezzamento presto o tardi ci sarà induce i nostri imprenditori a permanere in questi settori. Un'unica moneta, comune a gran parte dei paesi europei, impone una revisione radicale di queste aspettative. Impone soprattutto uno sforzo di riorganizzazione da parte delle imprese (e dello Stato, che deve fornire loro servizi adeguati) di dimensioni straordinarie, una vera e propria «rivoluzione copemicana».

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Capitolo sesto
Crisi politica
e risanamento macroeconomico
(1992-1999)


Dal primo gennaio 1999 l'Euro è moneta legale per undici paesi dell'Unione Europea: l'Italia è tra questi. Ben pochi, dopo lo scoppio della crisi valutaria e finanziaria del 1992, avrebbero scommesso che l'Uem si sarebbe realizzata secondo le modalità e le scadenze previste nel trattato di Maastricht e, qualora ciò fosse avvenuto, che l'Italia vi avrebbe partecipato sin dalla data d'inizio. Ancora nella tarda estate del 1996 - quando nel progetto di legge finanziaria il governo Prodi modifica drasticamente le previsioni e gli impegni previsti dal Documento di programmazione economica e finaziaria (Dpef) della precedente primavera, allo scopo di arrivare entro il 1997 agli obiettivi di inflazione, stabilità di cambio, saldi di finanza pubblica e tassi di interesse richiesti dal trattato - è una piccola minoranza quella che prevede un successo ed è solo nel corso dell'anno successivo che si rovesciano le aspettative. Gli anni Novanta vedono dunque svolgersi un piccolo miracolo, un miracolo di aggiustamento fiscale e finanziario, a differenza del miracolo reale dei primi anni Sesanta.

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La crisi politica

Fu una sorpresa, un evento imprevisto, l'attacco speculativo alla lira e la crisi dello Sme. Fu una sorpresa - positiva questa volta, un piccolo miracolo - la risposta del paese, la stabilizzazione e l'aggancio alla moneta unica. Ma fu soprattutto una sorpresa il collasso del sistema partitico nel breve periodo che intercorre tra i primi mesi del 1992 e le elezioni politiche del 1994: dopo la crescita delle Leghe e il referendum sulla preferenza unica, che avevano rivelato un atteggiamento generale, diffuso in tutto il paese, di disaffezione verso i partiti, sarà il progresso dell'inchiesta «Mani Pulite» a mettere in moto la slavina. Segnalata questa «sorprendente sorpresa» - questa incapacità dei politici, degli osservatori e dei giornalisti, degli stessi scienziati sociali, di comprendere che il ghiaccio su cui poggiavano comportamenti elettorali che si erano mantenuti sostanzialmente stabili in tutto il dopoguerra era diventato via via così sottile da spezzarsi sotto il peso di un'inchiesta giudiziaria - è necessario ora rispondere a tre domande che riguardano direttamente la politica economica: a) come si spiega lo straordinario successo dei due governi di Amato e Ciampi, proprio mentre la crisi infuriava, nell'impostare un efficace, coraggioso e lungimirante programma politico, che si estendeva ben oltre l'urgenza immediata della stabilizzazione? b) In che modo il primo assestamento del sistema politico dopo la fase più acuta della crisi - dunque dopo le elezioni politiche del 1994 e del 1996 - ha garantito un'efficace continuazione di quello sforzo? c) E in che misura esso ha posto le basi per un assetto stabile, un assetto che non dia luogo a continue «sorprese» e non richieda ulteriori «miracoli», che consenta decisioni di politica economica più assennate e lungimiranti che in passato?

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Credo sia difficile sopravvalutare l'importanza e il significato positivo di questa ricomposizione del sistema politico e della «ideologia italiana» per la coerenza delle politiche economiche e, ben oltre quelle, per la stessa vita democratica del nostro paese. Ciò vale per il (lontano?) futuro; per il presente la successione di eventi scatenata dal crollo del comunismo sovietico è ancora ben lontana dall'aver prodotto gli effetti benefici che ci si poteva attendere, e questo è il dato negativo sul quale torneremo nel capitolo conclusivo. La scomparsa della conventio ad excludendum e la crisi politica hanno bensì prodotto un sistema in cui l'alternanza è possibile e di fatto praticata; ed hanno consentito, sinora, un disegno di politiche economiche adeguato alla situazione, se non un disegno ottimale. Ma ciò è avvenuto per un insieme casuale di circostanze - ritorna la categoria dell'eccezionalità, se non proprio del miracolo - e non è disceso da una struttura della rappresentanza politica e da un insieme di regole del gioco che confortino la ragionevole attesa di una costante ripetizione nel tempo, per ragioni di sistema, di comportamenti «virtuosi». Le due coalizioni che si sono confrontate nelle elezioni politiche del 1994 e del 1996 sono ancora troppo incoerenti al loro interno e dunque instabili, troppo sospettose l'una dell'altra (e dunque incapaci di affrontare grandi problemi nazionali con spirito bipartisan), composte da partiti e gruppi troppo gelosi di identità ormai debolmente percepite dagli elettori. E, proprio per questo, esse non sono sinora riuscite ad irrobustire mediante regole costituzionali definite di comune accordo quell'assetto del sistema politico in cui si è precipitati per il concatenarsi fortuito di eventi straordinari (o di crearne uno diverso, ma ben definito e funzionante: al di là di preferenze individuali per specifici assetti costituzionali, questo solo richiede la conduzione efficace della politica economica). Che cosa ci riserverà il futuro? Una ragionevole speranza si appoggia all'osservazione che la scomparsa della grande frattura e la spinta alla conformità dei sistemi politici e delle singole policies che proviene dall'Europa sono forze così grandi e continue da aver ragione, presto o tardi, delle divergenze e delle incoerenze dei singoli sistemi nazionali; di fronte allo spettacolo fornito giorno dopo giorno dalla politica italiana, occorre però essere piuttosto presbiti e ottimisti per trasformare quella «ragionevole speranza» in plausibile previsione.

La stabilizzazíone e le politiche pubbliche: il metodo della concertazione

La stabilizzazione è stata uno sforzo gigantesco (oltre 430.000 miliardi di correzioni di bilancio, tra il 1992 e il 1998, sommando le leggi finanziarie alle manovre aggiuntive) che ha condotto il nostro paese, alla fine del 1997 e nel corso del 1998, a rispettare quattro dei cinque parametri previsti dal trattato di Maastricht: un indebitamento netto entro il 3% del Pil (il 2,7% nel 1997, dal 6,7 dell'anno precedente); un'inflazione non superiore di 1,5% rispetto alla media dei tre paesi a inflazione più bassa (a circa il 2%, alla fine del 1997, essa era ben entro questa soglia ed è andata discendendo nel corso del 1998); tassi di cambio stabili nei due anni precedenti l'inizio della moneta unica [...]

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Pagina 101

Per effetto della stabilizzazione, il nostro sistema economico ha con grande fatica agguantato le precondizioni macroeconomiche necessarie al nuovo gioco competitivo: bassa inflazione, conti pubblici in ordine, una bilancia commerciale soddisfacente; è ancora lontano da un assetto produttivo e regolativo idoneo ad una crescita sostenuta nel contesto di questa fase di intenso sviluppo tecnologico e poderosa internazionalizzazione di tutti i mercati. Non sono soltanto i dati aggregati sul reddito e sull'occupazione a suonare un campanello d'allarme; sono le informazioni sugli andamenti della struttura produttiva e occupazionale, sulla permanenza di profonde difformità regionali nelle risorse necessarie allo sviluppo (risorse economiche, sociali, istituzionali), sull'adattamento delle istituzioni e delle regole alle nuove condizioni competitive, a destare le maggiori preoccupazioni.

[...] La cosa nuova, in questa vicenda, è dunque il comportamento dei sindacati e il soffocamento dell'inflazíone, non un mutamento strutturale nella competitività delle imprese: che il nostro settore esportatore abbia una elevata sensibilità alle condizioni di prezzo (e alla compressione della domanda interna) è noto da sempre e costituisce la conferma che è la «via bassa» della competitività, la competitivítà ottenuta mediante ribassi di prezzo, quella prevalentemente percorsa dalle imprese italiane.

Un'analisi della produzione e delle esportazioni per settori e dimensioni d'impresa ne spiega agevolmente il motivo: gli anni Novanta non fanno che confermare i trend (verso la specializzazione in produzioni tradizionali, verso la piccola impresa) che già gli anni Ottanta avevano visto dominanti. Se ad essi si aggiungono le informazioni di cui disponiamo per le poche imprese veramente grandi e la pattuglia, per fortuna un po' più robusta che in passato, delle imprese medie, nonché i dati relativi all'attività di ricerca e sviluppo, ne viene confermata una presenza insufficiente del sistema produttivo italiano sulla «via alta» della competitività, quella in cui la concorrenza avviene soprattutto mediante la qualità del prodotto e dunque consente alle imprese di distribuire maggiori redditi ai fattori di produzione e di sviluppare un ampio «terziario avanzato». Nulla di male nella «via bassa»: essa è comunque segno di vitalità del sistema produttivo ed è spesso un inevitabile momento di passaggio per arrivare ad una distribuzíone più equilibrata della struttura produttiva e delle esportazioni. Il problema è che il nostro paese sembra essere incastrato da decenni in una struttura produttiva da «via bassa» e quel passaggio pare ancora lontano.

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Pagina 106

Anche chi ritiene che il problema della disoccupazione europea sia sostanzialmente un problema di disegno di politiche macroeconomiche - di politiche che nel recente passato hanno soffocato invece di stimolare la spinta degli investimenti e della domanda - ammette che la microeconomia, e con essa una regolazione dei mercati che consenta un più rapido aggiustamento alle esigenze competitive di questa fase di sviluppo, hanno un grande ruolo da giocare. Ciò è vero soprattutto per l'Italia, che viene da una situazione in cui il peso dello Stato nella gestione diretta delle attività economiche, la rigida regolazione di molte di esse, una tutela assai forte degli interessi di molte categorie occupazionali e professionali frapponevano sino a data recente ostacoli poderosi alle capacità di adattamento del sistema produttivo. Questo stato di cose è in via di cambiamento e stiamo avvicinandoci ad un assetto regolativo che può cominciare ad essere confrontato con quello degli altri paesi europei, quantomeno i grandi paesi dell'Europa continentale, anch'essi assai poco liberali per lontane tradizioni storiche. Spinti dal mutamento di clima politico, vincolati dalle direttive dell'Unione, i governi del risanamento hanno affrontato uno spettro di riforme la cui ampiezza abbiamo già sottolineato: nei campi delle privatizzazioni, della liberalizzazione e regolazione dei servizi di pubblica utilità, del mercato del lavoro, della pubblica istruzione, del decentramento amministrativo, del pubblico impiego, della delegificazione e semplificazione dei procedimenti, degli incentivi alle imprese, della regolazione delle attività commerciali e in molti altri ancora. Se si guarda al cammino percorso dallo scoppio della crisi politica, se si tiene conto delle aspre resistenze degli interessi coinvolti, credo che un giudizio di apprezzamento discenda soltanto da principi di onestà valutativa. Se invece si guarda al cammino da compiere per adeguarsi alle esigenze di questa fase di sviluppo, il giudizio si fa assai più cauto, e non soltanto perché, in molti casi, l'assetto regolativo poteva essere più coraggioso, ma soprattutto perché le risorse di efficienza e competenza amministrativa necessarie a renderlo operante sono scarse ed è soprattutto essenziale una forte continuità di indirizzo politico. Il che ci riporta a quelle incertezze sull'evoluzione futura del nostro sistema partitico e del nostro assetto costituzionale sulle quali abbiamo tanto insistito.

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Pagina 109

Capitolo settimo
La politica come ostacolo e come risorsa


Non vorremmo che l'insistenza sul ruolo della politica che caratterizza quest'intero saggio venisse fraintesa. I problemi di fondo che il nostro paese si trova ad affrontare oggi sono quelli - di natura economica e sociale - che abbiamo tante volte ricordato: le difficoltà di sviluppo del Mezzogiorno, l'inefficienza della pubblica amministrazione, la debolezza competitiva della nostra grande industria, l'insufficienza delle strutture forinative e di ricerca, la vischiosità corporativa e la resistenza al cambiamento della nostra società. Problemi strutturali talora di origine molto antica, talora di formazione più recente. Problemi, in ogni caso, già perfettamente visibili dopo il miracolo economico e in buona misura identificati dalla piccola élite riformatrice del primo centro-sinistra. Il saggio che qui si conclude, però, non racconta una storia di sforzi pazienti e continui volti alla soluzione di quei problemi. Racconta soprattutto una storia di esplosioni inflazionistiche e di disordine nei conti dello Stato, di un'ondata di domande sociali che non potevano essere soddisfatte e di una straordinaria accondiscendenza monetaria e fiscale nei loro confronti, poi seguita da un lento e penoso processo di risanamento macroeconomico, che oggi ci lascia un pesante strascico di debito pubblico.

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Pagina 112

Da Mosca a Schumpeter ai politologi moderni ci è stato mostrato quanto sia efficace questo modo «realistico» di guardare alla politica. Ma il self-interest dei politici può perfettamente sposarsi con la politica- risorsa, con grandi e impegnativi disegni di sviluppo collettivo. E ad essa deve sposarsi se si vogliono chiedere sacrifici ai cittadini, rompere gli adattamenti difensivi degli interessi, guidare il paese su una pista di modernizzazione ricca di grandi occasioni, ma anche irta di grandi rischi. Oggi il rumore di un sistema politico che non è riuscito ancora a trovare un assestamento accettabile soffoca i grandi disegni, svela i calcoli d'interesse dei politici nel loro aspetto più meschino, fornisce giustificazioni poderose all'apatia e al conservatorismo degli interessi: il «chi me lo fa fare» è sempre stata, purtroppo, una risposta spontanea della nostra società, addirittura irresistibile se dalla politica non viene un messaggio forte, se la politica è disprezzata, e con buone ragioni. In queste circostanze una prospettiva di declino è inevitabile: in un contesto di competizione accanita tra sistemi-paese, in cui il ruolo di regolazione, coordinamento e indirizzo dello Stato è fondamentale, neppure il liberista più convinto, il più acceso sostenitore dello Stato minimo, può pensare al successo di una società in cui la politica è disprezzata, il settore pubblico inefficiente e la vita collettiva dominata dallo spirito di «chi me lo fa fare».

Agli inizi degli anni Novanta il nostro paese è stato investito da una violenta ondata di anti-politica, i cui costi non sono stati lievi e non lievi le ingiustizie, storiche e personali. Una crisi della quale i ceti dirigenti della Prima repubblica portavano intera la responsabilità. C'era però allora una speranza, un'ansia ingenua e giacobina di riscatto, la fiducia che fosse possibile ricostruire rapidamente un sistema politico più onesto ed efficiente. Come abbiamo mostrato, sia pure col muddling through che è tipico del nostro paese, nel corso degli anni Novanta quella speranza e quella fiducia non sono state mal riposte. È verso la fine del decennio che il vento è cambiato e una nuova ondata di antipolitica sembra formarsi e acquistare forza. Meno violenta della prima, fatta di rassegnazione e stanchezza più che di indignazione, corrosiva più che sovversiva, ma ugualmente pericolosa: due ondate successive di antipolitica non sono facilmente tollerabili. Questa volta sarebbero i ceti dirigenti della Seconda repubblica a portarne la responsabilità. Il nostro saggio si conclude con l'augurio che essi corrano ai ripari finché sono in tempo.

 

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Riferimenti


M. Arcelli (a cura di), Storia, economia e società in
    Italia: 1947-1997, Laterza, Roma-Bari 1997
F. Barca (a cura di), Storia del capitalismo italiano,
    Donzelli, Roma 1997
V. Castronovo, Storia economica d'Italia.  Dall'ottocento ai
    giorni nostri, Einaudi, Torino 1995
P. Craveri, La Repubblica dal 1958 al 1992,
    Utet, Torino 1995
M. Ferrera, E. Gualmini, Salvati dall'Europa?  Welfare e
    lavoro in Italia tra gli anni '70 e gli anni '90: le
    riforme già fatte e quelle cbe restano da fare,
    Il Mulino, Bologna 1999
A. Graziani, Lo sviluppo dell'economia italiana: dalla
    ricostruzione alla moneta unica,
    Bollati Boringhieri, Torino 1998
G. Gualerni, Storia dell'Italia industriale dall'Unità alla
    Seconda Repubblica, Etaslibri, Milano 1994
S. Rossi, La politica economica italiana 1968-98,
    Laterza, Roma-Bari 1998
G. Sapelli, Storia economica dell'Italia contemporanea,
    Bruno Mondadori, Milano 1997
V. Zamagni, Dalla periferia al centro.  La seconda rinascita
    economica dell'Italia 1861-1981, Il Mulino, Bologna 1990

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