Copertina
Autore Giulio Sapelli
Titolo Storia economica dell'Italia contemporanea
EdizioneBruno Mondadori, Milano, 2008 [1997], Campus , pag. 262, cop.fle., dim. 14,5x21x1,6 cm , Isbn 978-88-6159-157-8
LettoreRiccardo Terzi, 2008
Classe storia contemporanea d'Italia , economia , paesi: Italia
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Indice


VII  Prefazione alla nuova edizione

 IX  Premessa

  1  1. L'Italia della ricostruzione economica e
        dell'apertura all'economia mondiale

 23  2. La rapidissima crescita tra dualismi e arretratezza

 41  3. Lasciare l'Italia: emigrazione e crescita

 49  4. Il protezionismo agrario periferico

 63  5. La trasformazione degli anni settanta

 85  6. La fisiologia del capitalismo italiano:
        concentrazione e diffusione

115  7. Dagli anni ottanta alla globalizzazione

135  8. Un impegno morale

153  9. Gli ultimi venti anni: tra Novecento e nuovo secolo

191  Numeri per la storia
     a cura di Luigi Vergallo

231  Per un percorso di lettura

235  Testimonianza. Intervista a Giorgio Fuà

255  Indice dei nomi


 

 

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1. L'Italia della ricostruzione economica e dell'apertura all'economia mondiale


La situazione dell'economia italiana nell'immediato secondo dopo-guerra non si può comprendere senza interrogarsi su questo quesito: sino a che punto l'Italia fu un paese sconfitto?

In Italia, com'è noto, un colpo di stato viene compiuto il 25 luglio del 1943. Esso vede uniti: la monarchia, i settori meno autoritari e filo-tedeschi del Partito nazionale fascista e gli esponenti più consapevoli della borghesia industriale (che dinanzi alla guerra ormai perduta vogliono rapidamente riallacciare i rapporti con le potenze e i grandi gruppi finanziari anglosassoni). L'obiettivo raggiunto dal colpo di stato è la defenestrazione di Benito Mussolini e il cambiamento delle alleanze militari: dopo l'8 settembre 1943 l'Italia si schiera con le potenze inglese e nordamericana e con i loro alleati. Assieme ai partigiani al Nord e alle truppe regolari che risalgono la penisola con gli eserciti ora alleati, si combatte al fianco delle armate che giungono in Italia per liberarla dagli invasori tedeschi e nazisti e dai quisling fascisti, che hanno rinnegato il giuramento al re e che compiono orribili delitti contro cittadini inermi.

La partecipazione delle forze partigiane e delle forze armate regolari al fianco dei vincitori dà all'Italia uno statuto particolare nel contesto della ricostruzione del secondo dopoguerra. La Resistenza consentirà alla classe politica emersa dalle prime elezioni democratiche del dopoguerra di trattare su un piede di maggiore dignità e di autonomia dinanzi alle potenze inglese e nordamericana. La politica economica italiana ebbe, infatti, ampi margini di autonomia. Questo va tenuto ben presente per comprendere il significato e la forma assunti dalla ricostruzione. Gli Stati Uniti premevano affinché la classe politica democratica e la burocrazia economica italiana utilizzassero gli aiuti del piano Marshall dando vita a una politica keynesiana che, mentre si poneva l'obiettivo di aprirsi all'esterno con le esportazioni, avesse nel contempo di mira l'ampliamento del mercato interno. I governi italiani non fecero nulla di tutto questo. Appena furono in grado di porre in atto una politica economica, adottarono una politica deflattiva, fondata sul restringimento del credito all'industria, sui bassi salari e sulla liberalizzazione delle pratiche finanziarie degli esportatori, che consentirono forti guadagni a tutti coloro che si avventuravano verso i mercati esteri, anziché verso quelli nazionali, interni. Questa politica si affermò pienamente dopo il 1947, quando, similmente a quanto accadeva in altri paesi, le sinistre furono allontanate dal governo e si iniziò a dar vita a coalizioni politiche di centro con la maggioranza amplissima della Democrazia cristiana: come fu confermato, del resto, dal voto dell'intero paese dopo il 18 aprile del 1948.

Si può dire che la classe politica italiana scambiò con gli Stati Uniti il saldo controllo che essa deteneva sul paese in funzione anticomunista con una sorta di mano libera nella politica economica. Uno scambio che funzionò, perché consentì di conseguire entrambi gli obiettivi: la crescita dell'economia e il contenimento dei comunisti, anche se non ne impedì la costante crescita elettorale sino alla fine degli anni settanta.

Il problema storiografico che si pone è il seguente: come fu possibile conseguire l'impetuosa crescita dell'Italia nel secondo dopoguerra con una politica economica apparentemente stagnazionistica?

La caratteristica fondamentale del processo di ricostruzione economica italiana risiede nei fattori seguenti. In primo luogo il potenziale industriale italiano non fu gravemente colpito dalla guerra. Quest'ultima fu soprattutto combattuta al Sud e nel Centro del paese, da eserciti moderni e giganteschi, vere e proprie macchine di distruzione, ma in un territorio dove non si trovava il nucleo fondante del patrimonio industriale. Esso risiedeva al Nord, nel cosiddetto "triangolo industriale" della Pianura Padana: Torino, Milano, Genova, con propaggini in Emilia e in Veneto. I combattenti partigiani, spesso in accordo con gli industriali, salvarono dalle distruzioni tedesche le fabbriche, combattendo armi alla mano e con intelligenti atti di sabotaggio.

Il cuore del patrimonio siderurgico, cantieristico, idroelettrico, meccanico pesante e leggero, tessile rimase intatto e questo permise di rimettere in moto assai celermente le fabbriche, grandi, medie e piccole.

In secondo luogo non bisogna dimenticare che gli anni che vanno dal 1945 al 1947 sono anni di grande concordia e di collaborazione nelle fabbriche. I partiti di sinistra e il sindacato unico (si dividerà dopo la cacciata delle sinistre dal governo) collaborano con il governo e con gli industriali per mantenere basse le richieste salariali, diminuire la conflittualità, sviluppare la produzione.

Questo processo dà vita a un passaggio dall'economia di guerra all'economia di pace che ha dello straordinario. Tutti sono impegnati a riconvertire le produzioni, a studiare i processi lavorativi, a migliorare le prestazioni: questo crea un accumulo di capacità personali, tecniche e produttive veramente imponente, un patrimonio prezioso che si conserverà anche con l'incrinarsi della pace sociale e la fine della collaborazione politica e sindacale.

Il terzo fattore fondamentale è che le due condizioni prima dette furono in grado di garantire il raggiungimento di buoni livelli di utilizzazione delle capacità produttive degli impianti grazie alle possibilità che si aprirono in Europa: la Germania era distrutta, come gran parte della Francia, di tutto c'era bisogno e chi sapeva mettere in sesto prima degli altri la macchina produttiva poteva occupare importanti spazi per la crescita. L'industria e l'economia italiana furono in grado di far ciò: sfruttarono dapprima la congiuntura della ricostruzione europea; e poi — elemento decisivo, ma che opera a partire dall'inizio del decennio cinquanta — furono in grado di inserirsi con grande successo nella congiuntura internazionale che inizia con la guerra di Corea (il commercio mondiale raggiunge livelli sino ad allora mai visti, non bisogna mai dimenticarlo...).

Il quarto fattore fondamentale fu quello della soluzione data ai problemi dell'agricoltura, sia dal punto di vista sociale sia dal punto di vista del suo inserimento in meccanismi di mercato meno inefficienti e disastrosi di quelli che avevano caratterizzato il periodo fascista, con l'autarchia e la politica demografica che aveva sovrappopolato i campi. Dopo la fine della guerra, nel Mezzogiorno, i contadini occuparono le terre dei latifondisti con grandi manifestazioni popolari che finirono spesso in scontri sanguinosi con la polizia. La politica scelta dai governi dell'immediato dopoguerra non fu tuttavia eminentemente repressiva ma, all'opposto, riformatrice: alla rivolta si rispose con la riforma agraria, che suddivise il latifondo del Sud e di alcune aree padane.

Gli esiti sono molteplici: spesso le aziende sono troppo piccole e non dotate di quelle attrezzature tecniche necessarie per rendere possibili buoni livelli di produttività; in seguito a ciò molte famiglie abbandonano la terra e si riversano prima all'estero e poi nel Nord Italia. Tuttavia si crea una rete di aziende contadine e di aziende capitalistiche che risollevano le sorti dell'agricoltura e ne favoriscono la specializzazione ortofrutticola, pur nello spezzettamento prevalente della proprietà in forme poco efficienti. Anche nel Centro Italia avviene un fenomeno interessante e ricco di conseguenze per il futuro: entrano in movimento i mezzadri, che, con grandi lotte, rivendicano l'aumento della propria quota nella suddivisione dei raccolti e dei risultati delle aziende.

La repressione non è la conseguenza prevalente di questi movimenti sociali. La conseguenza prevalente è economica ed è positiva. Essa inizia con la riscrittura dei patti colonici in forma più favorevole ai mezzadri, che si trovano così in condizione di accumulare quote di prodotto più ingenti di quanto non fosse possibile sotto la dittatura fascista (che affamò non solo gli operai, ma anche i contadini piccoli e medi, i braccianti e i mezzadri). Questo consentì a molti esponenti delle famiglie mezzadrili di porsi alla testa di un processo di accumulazione e di imprenditorialità che darà vita allo straordinario tessuto di piccole e medie imprese che sono una delle caratteristiche dell'economia italiana. Non è un caso che i cosiddetti distretti industriali siano più attivi e presenti nelle aree dove un tempo in agricoltura prevaleva la mezzadria con patti contrattuali favorevoli più al contadino che al proprietario dell'azienda.

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Il quinto fattore fondamentale che caratterizzò la ricostruzione economica italiana fu la soluzione in forma innovativa del problema dei vincoli derivanti dalla bilancia dei pagamenti per un paese povero di fonti di energia (materie prime), che doveva ora affrontare un'impetuosa ricostruzione economica. Già all'inizio del secolo l'Italia si era trovata in tale situazione. Anche allora il dibattito era stato feroce: da un lato i liberisti non volevano un futuro industriale per l'Italia, che doveva rimanere un paese contadino-mercantile dipendente dall'estero non solo economicamente ma anche diplomaticamente e militarmente, e dall'altro coloro che propugnavano, soprattutto sotto la spinta dell'esempio tedesco, la necessità di dare un futuro di indipendenza e di dignità nazionale all'Italia. La via prescelta fu quella di agire simultaneamente sia attraverso l'intervento dello Stato grazie al protezionismo sia attraverso la banca mista di origine franco-tedesca, sia attraverso il ricorso alla sostituzione del carbone con l'energia idroelettrica, sfuggendo in tal modo alla dipendenza dall'estero per rifornirsi dell'energia necessaria al decollo industriale. Nel secondo dopoguerra il problema si ripropose più drammaticamente: i compiti erano enormi e le riserve idroelettriche insufficienti a fornire energia alle grandi industrie e alla miriade di piccole e medie imprese che andavano via via nascendo, soprattutto nel Nord del paese. La soluzione fu trovata facendo ricorso alle dotazioni di gas metano della Valle Padana e alla decisione di rifornirsi di petrolio autonomamente sui mercati mondiali. Questa strategia fu messa a punto dalle capacità imprenditoriali e ideali del mondo cattolico democratico che, dopo grandi conflitti con il cattolicesimo liberale, riuscì a vincere la battaglia per l'istituzione di un'impresa pubblica del gas metano e del petrolio in Italia. Essa trasformava completamente le vecchie imprese autarchiche fasciste e dava vita a un complesso formidabile di imprese ancora oggi produttrici di reddito e di benessere per la nazione: l'Eni. La creazione dell'Eni è un momento del "nazionalismo economico democratico" che si produce in Italia nel secondo dopoguerra e che unifica i settori più avanzati della grande industria (contro quelli oligopolistici cresciuti grazie all'autarchia fascista) con il cattolicesimo democratico e settori della sinistra socialista e comunista, dando la possibilità a una forte schiera di manager di esprimersi prima e di formarsi poi.

La fondazione dell'Eni è fondamentale: essa è un tipo di impresa pubblica molto diverso da quella sorta di ospedale per la cura dei fallimenti disastrosi dell'industria privata (a partire dalla grande crisi del 1929) quale fu l'Iri. L'Iri, sorto nel 1933, fu sempre un gruppo in bilico tra il declino e il salvataggio, ben diverso dall'Eni, che fu invece uno strumento decisivo della ricostruzione economica italiana. Ernesto Rossi, uno dei padri, in Italia, della fortuna del liberismo economico di matrice anglosassone (scarsa fortuna, ma ricca di intellettuali di prim'ordine), era favorevole all'esclusiva pubblica della ricerca e della coltivazione degli idrocarburi nella Valle Padana. Essa fu concessa all'Eni nel contesto della sua legge istitutiva del 1953. La posizione di Ernesto Rossi, liberista irriducibile, non è paradossale. Si spiega ricordando il contesto di mercato di quegli anni e i compiti di sviluppo che settori ben definiti e innovatori del potere economico e del potere politico intravedevano per il nostro paese. L'Italia era già sfuggita, come ho già ricordato, al vincolo della bilancia dei pagamenti assicurando il suo decollo industriale all'inizio del Novecento grazie alla sostituzione del carbone con le risorse idroelettriche, e questo le aveva consentito di partecipare alla gara dell'industrializzazione europea. Nel secondo dopoguerra il problema si riproponeva. Dinanzi all'alternativa di proseguire nella crescita oppure di rassegnarsi a un ruolo periferico, le riserve di energia della Valle Padana, già esplorate dall'Agip nel periodo tra le due guerre, potevano consentire di riprodurre il decollo dell'inizio del Novecento: garantire energia a basso prezzo per le imprese grandi e soprattutto piccole e medie che stavano sorgendo e risorgendo nel Nord e nel Centro-Nord, imprese che avrebbero assicurato il miracolo italiano prima e la crescita della cosiddetta "terza Italia" poi.

Giorgio Valerio, capo della Edison, ed Enrico Marchesano, presidente della Ras e poi dell'Iri, prepararono un piano di totale privatizzazione delle risorse minerarie della Padania sotto l'egida monopolistica dell'Anglo Persian e di una società appositamente costituita dai due potenti uomini d'affari. Ben si comprende allora il disegno di Ernesto Rossi (fu lo stesso che egli definì, con Ugo La Malfa, in occasione della nazionalizzazione dell'energia elettrica dell'inizio degli anni sessanta): l'intervento pubblico e il diritto di esclusiva dovevano configurarsi, invece, come un potente mezzo antimonopolistico, uno strumento per garantire a livello internazionale, più che nazionale, la trasformazione e il rinnovamento del mercato energetico.

Gli intendimenti di Enrico Mattei, presidente dell'Eni, e dei suoi manager erano conformi alle idee di Rossi, degli uomini politici e dei gruppi economici (Fiat, Banca Commerciale, Pirelli, Olivetti ecc.) che volevano sfuggire alla logica ferrea del controllo dei prezzi e delle quantità imposto dal cartello internazionale delle major e dei loro rappresentanti italiani. Il mercato internazionale, a quel tempo, era strettamente controllato dalle grandi compagnie (le major, le "sette sorelle") e si avviava a mutare radicalmente le proprie fonti di approvvigionamento: nel 1946 il 77% dell'approvvigionamento europeo proveniva dall'emisfero occidentale; nel 1961, invece, il 90% era di provenienza mediorientale. Questa trasformazione impose un'intrapresa di dimensioni titaniche per garantire sicurezza, protezione, continuità di un rifornimento energetico più problematico di quanto non fosse un tempo: ora doveva unificare i destini di due mondi culturalmente divisi e per certi versi ostili, come dimostreranno le vicende successive.

Le major miravano alla creazione di gigantesche unita operative, ottenendo nuove concessioni e nuove market areas: il controllo oligopolistico poteva affermarsi grazie all'accumulo di ingenti quote di potere, di condizionamento politico e istituzionale. Secondo gli intenti degli uomini dell'Agip e dei "liberisti all'anglosassone", l'esclusiva poteva essere, invece, un primo passo per permettere alla compagnia di bandiera energetica italiana di ottenere un rifornimento a prezzi e a quantità non controllate oligopolisticamente. Tale fine era possibile soltanto contribuendo a mutare il mercato mondiale: esso doveva trasformarsi in un sistema tripolare costituito dalle compagnie multinazionali, dai paesi consumatori e dai paesi produttori. Si trattava di una strategia complessa e diversificata: a livello nazionale l'esclusiva garantiva l'industrializzazione a basso costo energetico per il sistema industriale e civile; a livello internazionale si inseriva nella lotta competitiva contro lo strapotere monopolistico del cartello d'imprese allora dominante. Ho ricordato distesamente questo problema perché esso chiarisce appieno, io credo, le implicazioni internazionali e conflittuali della ricostruzione italiana, chiarendo bene sia gli intrecci esistenti tra economia e politica sia le divisioni che si producono nel fronte dei grandi gruppi industriali.

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Il sesto fattore fondamentale nella ricostruzione fu il non rispetto delle indicazioni deflazioniste e rigidamente liberiste che nominalmente si davano a livello governativo allorché si dettavano le linee guida della politica economica. Nel farsi concreto della politica governativa, infatti, la cultura e la pratica liberista furono sostituite via via da una pratica di sostegno all'industria molto corposa e ricca di interventi diretti a concedere il credito a condizioni agevolate, a favorire le esportazioni, a consentire pratiche di controllo dei mercati fortemente collusive che garantirono uno sviluppo delle imprese più forti da un lato, mentre consentivano a quelle più deboli e più giovani di accedere alle risorse necessarie per finanziare la crescita e rendere solvibile la domanda. Dietro il paravento di una politica non interventista si proseguì invece per molti anni con una politica di incentivazione all'impresa privata e pubblica, senza distinzione di sorta.

Il settimo fattore fondamentale che costituì un grande punto di forza nella e per la ricostruzione fu il ruolo svolto dalla classe politica della nascente Italia repubblicana. Tale classe politica aveva due qualità principali: era giovane come età, non tanto anagrafica, quanto di pratica parlamentare; era il prodotto della nascita e della rinascita di grandi partiti di massa che controllavano, allora ancora strettamente – non soltanto i comunisti e i socialisti -, l'operato dei loro parlamentari. Per quanto concerne il primo aspetto, esso era fondamentale. La nuova classe politica italiana si era formata in massima parte nella lotta antifascista, nella Resistenza, aveva subito lunghi anni di carcere o di esilio, oppure, come la maggioranza dei cattolici, era afascista e, in ogni caso, non si era formata secondo le culture tipiche dell'antropologia italica e mediterranea. Chi nell'atmosfera cosmopolita del Vaticano, chi nell'Internazionale Comunista, chi nel cosmopolitismo antifascista, erano pur sempre degli "antitaliani" in quanto a connotati antropologici: protesi quindi a costruire non le proprie fortune personali secondo le categorie di azione del "familismo amorale", bensì il bene comune.

Unitamente a questo fattore, il ruolo positivo svolto dai partiti per un lungo periodo, che impediva il patronage dei notabili, formò un personale politico proteso a garantire la crescita, senza paura di colpire interessi particolari. Basti pensare, a questo proposito, al fatto che la riammissione dell'Italia negli organismi internazionali, prima, e l'entrata nella Comunità economica europea e nel Mercato comune, poi, furono volute dalla classe politica, contro la volontà della potente Confederazione degli industriali, con la sola esclusione delle poche grandi aziende innovative (Fiat, Pirelli, Olivetti, Eni, parte, non tutta, dell'Iri). Anche la nostra diplomazia economica fu assai efficace: negoziò egregiamente i termini del nostro reinserimento nel contesto dell'economia mondiale garantendo alle imprese le migliori condizioni.

Questo ciclo innovativo della classe politica finirà al termine degli anni sessanta, per la decadenza fisica delle élite, per la loro "decapitazione" politica e culturale e per la loro incapacità di mantenere un'autonomia rispetto alla fangosa e paludosa società civile italiana.

Non si trattò soltanto di una ricostruzione economica connotata da valori positivi. Ve ne furono di negativi e di assai negativi! Il principale fu che gran parte di questi fattori agì fortemente al Nord e nel Centro del paese, ma scarsamente al Sud. Qui la mobilitazione sociale e i partiti di massa erano deboli; qui le forze più sane e vive della società civile e della società politica furono costrette a emigrare (perché, in una società, sono sempre i migliori, in quanto a spirito di intraprendenza, che emigrano); qui agì prontamente e potentemente la mafia, che sbarcò in Sicilia, dove era stata non estirpata, ma repressa, durante il fascismo (che, in quanto dittatura, non poteva ammettere un contropotere), con le truppe americane. Esse utilizzarono i mafiosi per aprirsi la strada nell'isola e ricostruire un sistema politico senza timore che le sinistre prendessero il sopravvento: e le forze di governo italiane proseguirono, poi, nella stessa logica.

Un altro elemento negativo fu il fatto che la ricostruzione, proprio perché fu effettuata anche sorreggendo e proteggendo le imprese senza criteri precisi, aprì un dualismo al loro interno: quelle esposte alla concorrenza internazionale furono più efficienti e innovative, le altre vissero in una nicchia che non poteva certo avere conseguenze positive nel lungo periodo per la nostra cultura industriale.

Gli intellettuali italiani, inoltre, salvo pochissimi gruppi, tra cui spicca quello che Adriano Olivetti raccolse attorno a sé, continuarono a essere dei dotti boriosi e retorici, slegati da ogni passione, interesse, amore per l'industria e per le sue problematiche.

E questo ha ancor oggi conseguenze disastrose nel nostro sistema di senso comune e nel nostro meccanismo educativo.

La Costituzione repubblicana garantì in certo qual modo che avesse luogo quest'opera di ricostruzione nel complesso così positiva. Perché è possibile fare questa affermazione?

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