Copertina
Autore Goliarda Sapienza
Titolo L'arte della gioia
EdizioneNuovi Equilibri, Viterbo, 2003, Eretica , pag. 330, dim. 120x170x30 mm , Isbn 978-88-7226-408-9
CuratoreAngelo Pellegrino
LettoreGiovanna Bacci, 2003
Classe narrativa italiana
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice

5   Prefazione

11  PARTE I

    (capp. 1-39): Trascinavo un pezzo di legno, 13. - Le
    carezze di Tuzzu, 18 - Un uomo alto e grosso, 20. -
    Tagliata a pezzi come l'agnello, 24. - Bruciano mamma e
    Tina, 25. - Madre Leonora, 26. - In convento, 28. - Le
    parole, 32. - Il passato di madre Leonora, 37. - Un
    febbrone riparatore, 40. - Mimmo, il giardiniere, 44. -
    La minaccia dell'orfanotrofio, 52. - Mi butto nel pozzo,
    54. - Mi strappo le fasce, 56. - Sego le sbarre, 62. -
    Il volo di madre Leonora, 63. - Una carrozza senza
    cavalli, 67. - Al Carmelo, 70. - Argentovivo, 71. -
    Beatrice e la principessa Gaia, 74. - Cavallina, 77. -
    Tutte le stanze devono restare intatte, 80. - Zio Jacopo
    , 82. - Pietro, il gigante, 93. - Carmine, il gabellotto
    , 99. - Il principe Ippolito, la "cosa'; 107. Il mio
    miracolo, 108. - Sposata alla "cosa" e principessa, 123.
    - In sella con Carmine, 132. - Carmine mi prende, 138. -
    La grande vecchia deve morire, 143. - La nascita di
    Eriprando, 153. - Arrivo al mare, 157.

159 PARTE II

    (capp. 40-57): Vendo tutto, 165. - Il piu felice era
    Ippolito, 169. - Carlo, 170. - Imparo a nuotare, 174. -
    Dal diario di Beatrice, 193. - Resta Carlo, abbracciami,
    201. - L'amore si fa in due, 207. - La signorina Inès,
    220. - Beatrice sposa Carlo, 237. - Il ritorno di
    Carmine, 239. - Sua morte, 268. - Mattia, 269. - Nasce
    Jacopo, 280. - Stella, 290. - Mattia insiste, 300. -
    Attentato a Carlo, 306. - Morte di Carlo e vendetta di
    Modesta, 320. - Mattia mi spara, 323. - Pazzia di
    Beatrice, 324. - Non si torna indietro, 327.

329 PARTE III

    (capp. 58-74): Ho trent'anni, 331. - Morte di Beatrice,
    332. - Bambolina, 332. - Pietro vorrebbe continuare la
    vendetta, 334. - Devo trovare soldi, 340. - Arriva falce
    , 341. - Joyce parla della Turchia, 347 - Penso di
    vendere i quadri all'estero, 349. - Mio amore per Joyce,
    352. - Gelosia, 356. - E io pensavo che fosse una spia!,
    365. - Joyce tenta di suicidarsi, 365. - Joyce mi rivela
    un mondo nuovo, 384. - Crispina, la figlia di Pietro,
    391. - I ragazzi di villa Suvarita fanno il teatro, 393.
    - 'Ntoni, l'attore, 402. - Il ritorno di Mattia, 416. -
    Timur, 438. - Gelosia per Prando, 462. - Joyce tenta
    ancora il suicidio, 466. ~ Confessione di Joyce, 470.

475 PARTE IV

    (capp. 75-95): Prando parte, 477 - Crisi di Jacopo, 478.
    - Ritorno al Carmelo con Mattia, 493. - Joyce parte e
    Stella è resa incinta da Prando, 502. - Stella muore nel
    dare alla luce Carluzzu, 505. - 'Ntoni è ammesso alla
    Regia Accademia d'Arte Drammatica, 505. - Sto
    invecchiando?, 506. - Mi arrestano, 510. - L'anarchica
    Nina, 514. - Con Nina al confino, 529. - Cade il
    fascismo, veniamo liberate, 541. - Nina resta con noi,
    545. - 'Ntoni torna dalla guerra, 548. - Ritorna anche
    Jacopo, 556. - Crisi di 'Ntoni, 559. - Il mio rapporto
    con Prando, 561. - Incarico Pietro di liquidare Inès,
    565. - Mi scopro la dote di parlare alla gente, 566. -
    Carluzzu canta, 570. - Colloquio con Joyce e abbandono
    dell'impegno politico, 574. - Ribellarsi a un figlio,
    587. - Cinquant'anni, età d'oro, 590. - Il mio rapporto
    con Carluzzu, 591. - Morte di Pietro, 597 - Prando
    ritorna, la sfida, 599. - Incontro ancora Timur, 613. -
    Metamorfosi e necessità di raccontare, 622.

 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 13

Ed eccovi me a quattro, cinque anni in uno spazio fangoso che trascino un pezzo di legno immenso. Non ci sono né alberi né case intorno, solo il sudore per lo sforzo di trascinare quel corpo duro e il bruciore acuto delle palme ferite dal legno. Affondo nel fango sino alle caviglie ma devo tirare, non so perché; ma lo devo fare. Lasciamo questo mio primo ricordo così com'è: non mi va di fare supposizioni o d'inventare. Voglio dirvi quello che è stato senza alterare niente.

Dunque, trascinavo quel pezzo di legno; e dopo averlo nascosto o abbandonato, entrai nel buco grande della parete, chiuso solo da un velo nero pieno di mosche. Mi trovo ora nel buio della stanza dove si dormiva, si mangiava pane e olive, pane e cipolla. Si cucinava solo la domenica. Mia madre con gli occhi dilatati dal silenzio cuce in un cantone. Non parla mai, mia madre. O urla, o tace. I capelli di velo nero pesante sono pieni di mosche. Mia sorella seduta in terra la fissa da due fessure buie seppellite nel grasso. Tutta la vita, almeno quanto durò la loro vita, la seguì sempre fissandola a quel modo. E se mia madre - cosa rara - usciva, bisognava chiuderla nello stanzino del cesso, perché non voleva saperne di staccarsi da lei. E in quello stanzino urlava, si strappava i capelli, sbatteva la testa ai muri fino a che lei, mia madre, non tornava, la prendeva fra le braccia e 1'accarezzava muta.

Per anni l'avevo sentita urlare così senza badarci, sino al giorno che, stanca di trascinare quel legno, buttata in terra, avvertii a sentirla gridare come una dolcezza in tutto il corpo. Dolcezza che in seguito si tramutò in brividi di piacere, tanto che piano piano, tutti i giorni cominciai a sperare che mia madre uscisse per poter ascoltare, l'orecchio alla porta dello stanzino, e godere di quegli urli.

Quando accadeva, chiudevo gli occhi e immaginavo che si lacerasse la carne, si ferisse. E fu così che seguendo le mie mani spinte dagli urli scoprii, toccandomi là dove esce la pipi, che si provava un godimento piú grande che a mangiare il pane fresco, la frutta. Mia madre diceva che mia sorella Tina: "La croce che Dio ci ha mandato giustamente per la cattiveria di tuo padre" aveva vent'anni; ma era alta come me, e così grassa che sembrava, se si fosse potuto levarle la testa, il baule sempre chiuso del nonno: "Anima dannata piú di suo figlio...", che era stato marinaio. Che mestiere fosse questo del marinaio non riuscivo a capirlo. Tuzzu diceva che era gente che viveva sulle navi e andava per il mare... ma il mare che cos'era?

Sembrava proprio la cassa del nonno Tina, e quando mi annoiavo chiudevo gli occhi e le staccavo la testa. Se lei aveva vent'anni ed era femmina, tutte le femmine a vent'anni dovevano sicuramente diventare come lei o come la mamma; per i maschi era diverso: Tuzzu era alto e non gli mancavano i denti come a Tina, li aveva forti e bianchi come il cielo d'estate quando ci si alza presto per fare il pane. E anche suo padre era come lui: robusto e coi denti che brillavano come quelli di Tuzzu quando rideva. Rideva sempre il padre di Tuzzu. La nostra mamma non rideva mai e anche questo perché era femmina, sicuramente. Ma anche se non rideva mai e non aveva denti, io speravo di diventare come lei; almeno era alta e gli occhi erano grandi e dolci, e aveva i capelli neri. Tina non aveva neanche quello: solo dei fili che la mamma allargava col pettine cercando di coprire la cima di quell'uovo.

I gridi sono cessati, sicuramente la mamma è tornata e fa tacere Tina accarezzandola sulla testa. Chissà se anche la mamma ha scoperto che si può provare tanto piacere accarezzandosi in quel posto? E Tuzzu, chissà se lo sa Tuzzu? Deve essere a raccogliere le canne. Il sole è alto, lo devo cercare e chiedergli di queste carezze e anche di questo mare devo chiedere. Ci sarà ancora?

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 122

Avevo sperato che qualcosa accadesse, ma quel terremoto di porte sbattute, di urla, di ordini e contrordini mi costrinse di nuovo a letto. Non c'era altro da fare, anche perché ormai la principessa mi guardava con occhi tali che non osavo restituirle lo sguardo. Nel mio rifugio avevo notizie da Argentovivo e dal medico. Adesso l'ultima decisione della principessa era che io non lo vedessi e che si continuasse a portare ragazze alla "cosa". Era sicura che mi avrebbe dimenticata. Ma il medico, quando era con me, ridacchiava e continuava a dire:

- Che volete, sarò pazzo anch'io, ma non mi dispiace che il mio Ippolito si sia innamorato.

I giorni passavano e cominciavo veramente a stare male, costretta in quel letto, quando una bella sera la porta si spalancò in modo cosi insolito e fragoroso che mi rincantucciai contro il muro tenendomi la testa fra le mani. Chi poteva essere? Suor Costanza sicuramente. Ormai era lei la superiora. E se lo faceva prima "per scoprire i viziacci di tutte quelle piccole peccatrici", figuriamoci adesso che aveva preso le redini del convento...

- Ragazza! Scusami se vengo in camera tua, ma mi hanno detto che non stai in piedi. E io sono stufa, e della tua malattia, e di tutte le chiacchiere e bazzecole che la tua presenza in quella stanza ha suscitato. Dunque, qui dobbiamo prendere una decisione. Ho parlato con Carmine, anche lui è d'accordo. Ha ammesso che non c'è altra soluzione, anche perché, volente o nolente, la colpa di tutto questo sconquasso è tua, e te ne devi prendere tu la responsabilità. In fondo, visto che fra cento anni me ne andrò a dare banchetto ai vermi, come dice quel giocherellone di Amleto, non è male che tu faccia parte della famiglia anche legalmente. Potrai curare meglio gli affari, almeno finché campano Beatrice e la "cosa". Ma attenzione! Io nipoti non ne voglio. Questa casata di storpi e mentecatti deve finire con mio marito. È inutile che ti volti e protesti. È colpa tua e di quella sventata di Leonora, che ne ha fatte sempre una giusta e cento storte. Ti do tre giorni per guarire. Perché don Antonio vi sposerà nella cappella privata, e di notte. Non fare conto su di me. Non ho visto la "cosa" da quando è nata, e certo non ho nessuna intenzione di vederla adesso. Il medico e Pietro vi faranno da testimoni, perché nessuno, intesi?, nessuno deve vederlo. Ah, un'altra cosa: di alla tua amica Cavallina, che sono dieci giorni che m'affligge con lagrime e sospiri, di smetterla. Cerca di calmarla se non vuoi che te la sbatta in qualche collegio in Svizzera. Intesi? Statti buona.

La porta sbatté con piú forza di prima, ma, stranamente, quelle urla m'avevano fatto salire alle guance un calore e una pace mai provata prima. Come dopo un lavoro fatto proprio "in modo fino", vero Mimmo? Crogiolandomi in quella pace, cercavo Mimmo su pei muri tappezzati di seta, lungo le tende di velluto prezioso che proteggevano dalla notte. Un lavoro proprio ben fatto, vero Mimmo?

- Eh si, principessina, e dopo si può godere della stanchezza piú bella che ci sia.

Mimmo aveva sempre ragione. Anche se sposata a un mostro, sempre principessina ero. E quel torpore che m'invadeva piano piano era proprio il sonno meritato dopo un lavoro duro nei campi.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 175

- No, Beatrice, no! Lei è gentile, ma è vano che si dia tanta pena per far si che la principessa s'interessi a me. Non vede che anche quando parlo non solo non mi ascolta ma chiude gli occhi come se...

- L'ascolto, invece, e per dargliene la prova le dico che lei nutre simpatia per quei socialisti di cui si parla tanto.

- Mi posso permettere di chiederle come l'ha capito?

- Da come parlava, giorni fa, delle donne.

- E non si è scandalizzata? Non mi ha cacciato via?

- E perché avrei dovuto farlo?

- Ma... l'avvocato Santangelo mi aveva raccomandato...

- Lavvocato Santangelo non mi interessa. Invece mi interessa sapere di queste sue simpatie. Non risponde?

- Mi scusi, principessa, sono molto confuso. Lei ha il potere di sorprendermi sempre. Non immaginavo che s'interessasse di politica.

- No, noi non ci interessiamo affatto di politica, Modesta! Come ti viene in mente di scherzare su queste cose? Non vedi che lo imbarazzi? Carlo non ha nessuna simpatia per quei senzadio! Non mi piace quando fai cosi! Io vado a fare il bagno.

- No dottore, le consiglio di non seguirla, la perderebbe. Lasci che nuoti. Spiegheremo dopo a Beatrice che non c'è niente di male in quei socialisti. Ci vuole pazienza con Beatrice, e tempo. La vedo perplesso. Mi creda, è meglio così. Prima o poi sarebbe venuto fuori. O sperava che Beatrice non lo scoprisse mai? Ma perché mi fissa così imbambolato?

- Non è questo. Il fatto è che non l'avevo mai udita parlare cosi a lungo e con tanta dolcezza. È la sua voce che mi incanta. Dovrebbe parlare di piú.

- Non ha risposto alla mia domanda. Come è diventato socialista?

- È stato all'università. Due o tre incontri preziosi, e tutto è stato chiaro in me.

- Ci sono molti socialisti a Milano?

- Molti, si. E a Torino ancora di piú. Anche qui in Sicilia ce ne sono molti.

- Dice sul serio?

- Si.

- E lei li conosce?

- Per essere sinceri, io sono qui a Catania per prendere contatti coi compagni.

- Ah! Ora capisco perché in questi mesi non si è preoccupato di avere altri clienti, oltre che noi. La cosa mi aveva molto sorpreso. Ma l'avevo attribuita a ricchezza e, mi perdoni, a pigrizia.

- Bisogna ammettere che a lei non sfugge niente. La diagnosi era quasi esatta. No, pigrizia, no! ma una certa solidità economica che mi ha permesso di vedere chiaro nelle mie azioni. Le spiego. Da molti anni la mia vocazione di medico ha cozzato contro molte realtà che l'hanno spogliata dell'aureola di santità con cui mi era apparsa in giovinezza. Mi sono reso conto che fare il medico in questa società non è altro che rappezzare i guasti che le condizioni di lavoro nelle miniere e nelle fabbriche, i pregiudizi o lo stato di povertà e sporcizia ricreano con una velocità superiore, troppo superiore alle nostre buone intenzioni di piccoli medici individualisti. Che vale - in una vita - salvare cento persone, delle quali novantanove sono ricche o benestanti, quando hai capito che la medicina deve innanzi tutto prevenire i mali di tutti, indiscriminatamente? La professione di medico a queste condizioni equivale a quella del missionario che va in Africa per curare i lebbrosi, salvare qualche anima... soprattutto la sua! A pensarci bene non sono degli sciocchi: estirpando veramente il dolore, come potrebbero continuare a divertirsi coi loro trastulli che chiamano anima, male e redenzione? Scherzavo. Anche perché sto diventando pedante. E per chiudere questo pedantissimo discorsetto: il mestiere del medico è valido solo se è affiancato da un'azione politica che ha il fine di dare a tutti case salubri, vivibili, ospedali veramente efficienti. Per fare questo bisogna agire, agire in profondità. Non c'è altra strada.

- È questo il socialismo?

- Si, ma la vedo pensierosa. Temo di averla annoiata.

- Sa benissimo che non solo non mi ha annoiata ma... non sia civettuolo!

- Ha ragione.

- Ricorre alla civetteria perché sono donna, e questo le permette di presumere che i suoi ragionamenti sono troppo profondi per...

- Toccato! Le chiedo scusa. Ma è così raro trovare delle donne! Fra i socialisti ci sono donne straordinarie, veramente straordinarie, ma ancora poche, purtroppo poche!

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 208

Nei giorni che durò la convalescenza di Beatrice.

- No! È inutile che mi sfuggi.

- Io non sfuggo, Carlo!

- Mi sfuggi! Invece dobbiamo parlare visto che prima hai voluto parlare tanto, invece di amarmi come io ti amavo.

- E come dovevo amarti, Carlo? In silenzio, lasciandomi adorare come una statua?

- Ma l'amore è mistero, silenzio. In silenzio io ti veneravo. Mi bastava guardarti per essere felice giorni e giorni. Non avevo bisogno di parlare. L'amore è un miracolo, e come tale...

- L'amore non è un miracolo, Carlo, è un'arte, un mestiere, un esercizio della mente e dei sensi come un altro. Come suonare uno strumento, ballare, costruire un tavolo.

- Tu intendi dire il sesso.

- Ma non è amore il sesso? L'amore e il sesso sono figli l'uno dell'altro. L'amore senza sesso che cosa è? Una venerazione di statue, di madonne. Il sesso senza l'amore che cosa è? Una battaglia di organi genitali e basta.

- Ma tu allora neghi la sostanza immateriale dell'amore? Neghi la sua spontaneità, e il fatto che piú nasce spontaneo, piú è autentico, puro, miracoloso.

- Ma Carlo, anche tu come i tuoi compagni a Catania: "L'ascetismo del popolo russo, la sacralità della classe operaia, il martirologio del proletariato, la natura come Dio, l'artista come Dio". Come è possibile?

- Che c'entra tutto questo?

- C'entra invece, perché fra i tuoi compagni ho trovato soltanto malcelata aspirazione alla santità e vocazione al martirio. O la ferocia del dogma per nascondere la paura della ricerca, della sperimentazione, della scoperta, della fluidità della vita. Se lo vuoi sapere, non ho trovato nulla che assomigliasse alla libertà del materialismo. E sono fuggita via, si, perché non avevo intenzione di cadere in un tranello forse peggiore della chiesa alla quale sono sfuggita.

- Ma Modesta, ti rendi conto? Tu neghi il sacrificio e l'abnegazione di chi lotta per la causa del proletariato, per una società migliore senza differenze di classe, senza lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, senza...

- Io non nego nessuna lotta! Critico l'atteggiamento del pensiero che è troppo poco differente da quello del vecchio mondo che voi volete combattere. Pensando come pensate voi, nella migliore dell'ipotesi, si costruirà una società che sarà una copia, per giunta scadente, della vecchia società cristiana e borghese.

- Ma per le trasformazioni profonde ci vuole tempo. Prima bisogna battere la borghesia con la rivoluzione e mutare i rapporti di produzione. Tutto il resto, poi, verrà da sé perché cadranno le sovrastrutture create dall'ideologia borghese... Intanto io volevo parlare di noi. Non capisco cosa c'entri questo discorso teorico. Ma ne parleremo.

E nel parlarne, nel sentirmi accusare in mille modi della mia crudeltà, freddezza, razionalità, di quanto ero stata amata senza meritarmelo, di quanto l'amore è sacro e miracoloso, a un tratto mi accorsi che non ascoltavo piú. Pensavo, guardando le sue mani che mi stringevano i ginocchi, a tutte le discussioni che, se fossi vissuta abbastanza, avrei avuto in futuro con Alberto, Giovanni, Michel... Michel dagli occhi verdi come lo smeraldo. Discussioni che si sarebbero riproposte tali e quali ancora per dieci, venti, trenta anni. L'immaginazione del mio futuro, di avere forse tanti anni da vivere, mi entrò nel sangue come una pioggia lieve di aprile, placando l'irritazione che la voce di Carlo ormai mi comunicava.

Ma dovevo avere pazienza davanti a quel viso teso, deluso di bimbo che non voleva rassegnarsi davanti al suo giocattolo che giaceva irrimediabilmente rotto davanti a lui da un gesto incauto (il mio o il suo?) o da un colpo di vento. Non volevo perdere quell'intelligenza ardente che invitava alla ricerca, che regalava sempre nuove scoperte del pensiero, nuovi concetti, nuove parole. Uscita anch'io dalla delusione per un bel gioco guastato, cominciavo a capire. Anche lui non mi amava piú, ma non voleva rassegnarsi di essere stato lui la causa.

- È colpa tua, sei tu che hai rovinato tutto!

- Si, Carlo, è colpa mia.

L'ammissione della mia colpevolezza aveva il potere di calmarlo. Ora non attaccava piú. Mi guardava placato e svuotato. Mi lasciò i ginocchi, si passò le mani sul volto. Non sapeva dove guardare. Girava la testa a destra e a sinistra stancamente.

- Tu non sai, Modesta, che cosa sono gli uomini che ho conosciuto fin da piccolo, gli uomini che mi hanno, diciamo, formato. Non sai la loro solitudine, la loro ignoranza delle donne di cui credono di sapere tutto fin dalla prima prostituta da cui hanno avuto il coraggio d'andare. Ora mi rendo conto che avrei fatto meglio a dirti subito che prima di te avevo conosciuto soltanto quelle povere donne che la società costringe a fare mestiere del loro corpo. Tu mi avresti capito, e avremmo spezzato subito una solitudine fra uomo e donna che dura da secoli.

Lo guardai, sorrideva ora terminando il suo discorso. Sorrideva del suo sorriso pacato, timido. E forse perché nuvole leggere vagavano incerte dietro il volo dei gabbiani indicando spazi, mondi, visi sconosciuti da scoprire, forse perché Beatrice smagrita ma sana ci correva incontro, ora illuminata dal sole, corporea, nitida, ora resa diafana da quelle timide nuvole di fine inverno, rividi il viso di Carlo come l'avevo visto un tempo.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 374

Questo accenno ai compagni mi irrita. Io le ho raccontato tutto di me. Perché non fa lo stesso anche lei? Fa di tutto perché io venga a sapere sempre daaltri, dall'esterno. Perché? Perché non le dico ciò che mi ha ordinato il compagno Cianca?, che questa volta non è venuto da me soltanto per prendere i consueti soldi:

- Vedi, Modesta, in questo curriculum della signora Joyce non c'è un cenno né a debolezze né a svenimenti di sorta. È descritta come una donna di un coraggio e di una forza straordinari. È impressionante quanto ha lavorato per la causa. Abbiamo fatto il conto che, un po' qua un po' là, s'è fatta un bel po' di galera. Se ha tentato il suicidio vuol dire che s'è logorata, ha ceduto... Dieci anni di lotta, di persecuzioni non sono pochi. Quanti ne abbiamo visti! Ti ricordi, no? di Franco. Chi se l'aspettava che uscito di prigione, al primo avvertimento di non dormire in casa perché c'era pericolo, non solo dorme in casa, ma all'alba per colpa di un falso allarme si getta dalla finestra fracassandosi tutto senza rimedio... Oh! intendiamoci: sempre che sia lei, naturalmente... Dalla descrizione pare proprio di si. Qui c'è scritto che dovrebbe avere delle cicatrici sui seni perché è stata torturata: quello scherzetto di spegnere, mentre interrogano, le sigarette addosso.

- Si, Joyce, e ho anche qui con me in questo biglietto il nome della nave che salperà lunedi per Buenos Aires. Vogliono che lei parta, Joyce.

- Oh, meno male, Modesta! È una fortuna questa. Da un anno non sono piú la stessa. Lei non può credermi, ma non ero cosi! È come se qualcosa si fosse rotto in me. Non sono piú padrona dei miei nervi. Ma anche tutte queste parole sono inutili. Il fatto è che io ormai rappresento un pericolo per tutti e devo partire.

- E invece io le dico che le sue parole non sono state inutili. Qui c'è scritto che lei dovrebbe partire lunedí, secondo loro... E vedo anche secondo l'assurda richiesta che lei fa a se stessa.

- Che assurda richiesta?

- Di essere un eroe a tutti i costi, o di morire.

- Ma!

- Niente ma. Io, come le ho già detto, non credo negli eroi né morti né vivi, e non la lascio partire. Non solo, come lei pensa, perché ormai l'amo Joyce, ma perché non farei partire néssun compagno nelle sue condizioni. Se lei mi aiuta, qui è al sicuro. Riprenderà forza, vedrà, e col tempo se proprio il suo dovere la spingerà a tornare alla lotta, io l'accompagnerò. Ma solo se lei mi darà la prova di aver ritrovato la forza e la calma che aveva prima.

- Ho paura Modesta, ho paura di me stessa!

- Mi aiuti Joyce, sfidiamo la condanna che i compagni veri e no le hanno inflitta. Sfidiamoli insieme e io l'aiuterò! Dimostriamo loro che non sono cosi infallibili, deludiamo la loro aspettativa golosa di un altro martire da aggiungere alla lista già così zeppa, non ascolti la lusinga: un Carlo o una Joyce non avranno che un piccolo nome su una lapide. Mentre se lei vive, dopo io so che tutto finirà, dopo potrà riprendere la lotta da viva e smascherare quelli che, già li sento, si serviranno del nome di Carlo, di Gramsci e di tanti altri. I morti hanno torto se dopo la loro morte non c'è qualcuno che li difenda.

- Lei è spietata e forse ha ragione, ma io non sono piú sicura di me. Adesso sento che potrei farmi aiutare da lei aiutandola, come lei dice... Ma quando sono sola, la notte, o come ieri sera? Non ce la faccio Modesta! Se in un momento di debolezza qui... lei, Stella, i bambini... sareste rovinati.

- Beh, prendo su di me anche questo rischio. Mi guardi negli occhi. Se lei mi tradirà, non come compagna ma come essere umano, uccidendosi, io come qualsiasi traditore la seppellirò nel giardino a tre metri sotto la mia terra senza disturbare becchini e compagni.

- Lei farebbe questo Modesta, sola?

- Non sono sola. Pietro mi segue attento e quieto.

- E i miei bagagli, la mia presenza qui?

- I bagagli bruciano facilmente, e lei: un ospite che è partito e non se ne sa piú niente.

- E Stella? Che cosa direbbe a Stella?

| << |  <  |