Copertina
Autore Robert M. Sapolsky
Titolo Lei lo chiama Monkeyluy... amore di scimmia
SottotitoloE altre riflessioni sull'animale uomo
EdizioneMuzzio, Monte San Pietro (BO), 2010, natura , pag. 224, cop.fle., dim. 14x21x1,8 cm , Isbn 978-88-96159-25-5
OriginaleMonkeyluy [2005]
CuratoreEnrico Alleva, Michela Santochirico
PrefazioneEnrico Alleva, Michela Santochirico
TraduttoreSimona Petruzzi
LettoreCorrado Leonardo, 2010
Classe evoluzione , biologia , mente-corpo , psicologia , etologia
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


Nota dell'Autore                                             6
Ringraziamenti                                               6

Introduzione di Enrico Alleva e Michela Santochirico         9

Parte prima: i geni e la nostra identità                    15

Introduzione                                                17
Geni o ambiente? "Le cinquanta persone più belle            21
    del mondo" riflettono sull'origine
    del loro aspetto gradevole (Discover, 2000)
Un gene per niente (Discover, 1997)                         27
Il marketing della genetica (The Sciences, 2000)            43
La guerra genetica tra uomini e donne (Discover, 1999)      54
Geni di uomini e topi (Natural History, 2004)               64
Corna di argilla (Natural History, 2001)                    74

Parte seconda: il nostro corpo e la nostra identità         83

Introduzione                                                85
Perché i sogni sono come i sogni? (Discover, 2001)          90
Anatomia del cattivo umore (Men's Health, 2003)             98
Il piacere (e il dolore) del "Forse" (Natural History)     104
Stress e restringimento cerebrale (Discover, 1999)         112
Bachi nel cervello (ScientificAmerican, 2003)              124
Crimini all'asilo (The Sciences, 1999)                     131

Parte terza: la società e la nostra identità               153

Introduzione                                               155
Come guariscono i ricchi (Discover, 1998)                  159
Il deserto culturale (Discover, 2005)                      172
Amore di scimmia (The Sciences, 1998)                      182
La vendetta servita tiepida (Natural History, 2002)        190
Perché rivogliamo indietro i loro corpi (Discover, 2002)   197
Stagione aperta (The New Yorker, 1998)                     209

Note del curatore                                          221


 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 9

Introduzione


Se la vetusta dicotomia tra "effetti genetici" ed "effetti ambientali" riempie da decenni le pagine di quotidiani, settimanali e mensili, un argomento come la pulsione sessuale (ovvero quanto questa sia "istintiva" o quanto essa sia "condizionata", se non repressa, dalla storia dell'umanità o dalle biografie sessuali di donne e uomini) è argomento ancora pruriginosamente attuale.

I modi e lo stile ironico, sarcastico, irriverente per il pubblico generale, la comunità scientifica degli psicobiologi e degli etologi, in fondo per lo stesso autore Robert M. Sapolsky, rende questo saggio sulla passionalità e il più o meno incontenibile amore umano qualcosa tra il bestiale, l'ammirevole e il celestiale.

Ma chi è Robert Sapolsky? Figura vulcanica ed enigmatica di scienziato olistico del Terzo Millennio, "nasce" in quella Rockefeller University situata al 1230 di York Avenue, culla della più bizzarra ma importante neuroscienza comportamentale dell'ultimo secolo (almeno). Qui lavorò, impiantando un'importante scuola di biologia evoluzionistica del comportamento, Donald Griffin, una volta scoperto che i pipistrelli si muovono leggiadramente nella più fitta oscurità guidandosi con l'eco. Da questa e da altre poche riflessioni eco-fisio-etologiche sulla gerarchia anatomica e funzionale delle finestre sensoriali sarà prodotto il Grande Interrogativo delle scienze del comportamento comparato: gli animali non umani davvero posseggono autoconsapevolezza e dunque coscienza? Ma sarà solo quando Donald Griffin andrà in pensione, che una donna, un'allieva, Carolyn A. Ristau, produrrà un'esplosiva raccolta di saggi dove finalmente (e formalmente) sarà riconosciuto a larga maggioranza da parte dei massimi esperti che anche altre specie oltre all' Homo sapiens sapiens sono equipaggiate di un accessorio definibile come Mente. Griffin aveva già sollevato nel 1976 tali interrogativi, ma sarà solo dopo questo dinamitardo insieme di saggi che l'argomento "mente animale" sarà definitivamente inscritto nella storia pervicacemente riduzionista della scienza occidentale.

Sapolsky si forma in questo turbinoso passaggio epocale delle scienze del comportamento: animale percettivo e curioso, non potrà non risentirne, e profondamente. Tutte le sue opere, e questa non fa eccezione, ruotano perciò attorno al concetto di quanto del comportamento umano sia ineluttabilmente scritto nel genotipo più o meno normale o "difettoso" di un essere umano: e quanto invece sia dovuto a epigenetici effetti causati dalle biografie (insomma, dagli eventi esistenziali) del singolo individuo.

Il testo racconta come il livello di suscettibilità allo stress e il grado di timidezza nel topo dipendano, quasi completamente, dalle condizioni psico-fisiologiche della madre durante lo sviluppo del feto: non dal corredo genetico né dalle caratteristiche ambientali successive al parto. Così topi geneticamente stressati crescono tranquilli se si sviluppano (grazie all'impianto del feto) in mamme topo geneticamente tranquille e viceversa. Sapolsky ebbe da molto giovane un importante premio scientifico: le sue ricerche riguardavano (e in parte tuttora riguardano) i perniciosissimi effetti dello stress sulla sopravvivenza o il "corrugamento" di delicatissimi neuroni situati all'interno di una struttura cerebrale denominata ippocampo per la sua forma di cavalluccio marino coricato. Lo stress, ledendo queste strutture cerebrali, creerebbe, tanto nei roditori di laboratorio che negli esseri umani, pesanti danni cognitivi ed emotivi. Il libro li racconta, né potrebbe essere diversamente per un autore newyorkese che ha trascorso l'infanzia all'ombra delle Due Torri, e che su questo Disturbo Post Traumatico da Stress ha davvero molto di cui meditare. Lirica è la parte del testo che racconta dei complessi, delicati, sorprendenti rapporti co-evolutivi tra ospiti e parassiti: c'è il protozoo Toxoplasma condii (organismo unicellulare) che controlla il cervello e il comportamento del topo inducendolo a essere addirittura attratto dal gatto, che il parassita vuole appunto parassitare. Altrettanto curiosa, a tratti sconvolgente, è la parte del testo che tenta un'"antropologia ecologica" secondo la quale i popoli che si sono evoluti negli inospitali ambienti desertici avrebbero darwinianamente sviluppato società "castali", dove la casta guerriera è florida e rispettata, a differenza dei pacifici popoli evolutesi nelle opulente e biodiversificate foreste tropicali.

Le tre parti in cui il testo è strutturato aprono prospettive logicamente progressive in ciascuna delle quali l'identità personale è presa in considerazione riguardo ai propri geni, al corpo e alla società. Nella prima parte si affronta il tema della dicotomia gene-ambiente e viene analizzato il rapporto, "naturalmente difficile", tra uomini e donne: per poi affrontare con impronta darwiniana uno dei temi più dibattuti nell'ambito della selezione sessuale: i criteri sui quali si baserebbe la scelta femminile nell'individuazione del partner sessuale e la loro solidità scientifica. Nella seconda Sapolsky passa in rassegna le molteplici modalità con cui gli ormoni influenzano la percezione del Sé, i comportamenti e il rapporto con altri esseri umani. L'ultima parte amplia il quadro d'indagine, portandolo a livello di comunità: ci parla dei meccanismi che consentono la nascita e il consolidarsi (e qui avrebbe un ruolo la Teoria dei Giochi) della cooperazione tra individui, della globalizzazione culturale e delle sue origini atropo-ecologiche. Una parte che non potrà non interessare il lettore riguarda la stretta relazione tra salute umana e condizione socio-economica riletta in forma davvero originale: non sarebbe la bassa condizione socio-economica a influenzare lo stato di salute, bensì la percezione che un singolo individuo ne ha; sentirsi poveri, in altre parole, farebbe ammalare, secondo una prospettiva psico-neo-irnmunologica oggi crescentemente consolidatasi grazie ad approcci "olistici" di parti della medicina occidentale.

Sapolsky è autore importante, che già ha lasciato tracce cospicue nel mondo editoriale italiano: il suo splendido Diario di un uomo scimmia lo rivela l'etologo da campo che è stato e che finge a tratti di non essere più, seppellito tra le provette e i gel delle sofisticatissime tecniche di biologia molecolare che attualmente tempestano i tanti, forse troppi, lavori di fisiologia molecolare del sistema nervoso centrale animale e umano che sforna a ritmo incessante. Uno di noi (E. A.) ebbe ad accogliere tra i papaveri californiani dell'Università di Stanford un giovane Sapolsky, relegato nella Room 03 del locale Dipartimento di Biologia: luogo dove i racconti di vita vissuta tra gli indigeni kenioti e i tagliatori di teste Dayak del Borneo facevano da saporito contorno al commento degli ultimi lavori sulla plasticità del cervello animale, inossidabile modello della fisiologia e della psicopatologia del cervello della superba specie umana.

Questo libro sarà utile riflessione per chiunque si chieda cosa gli passa per la testa quando si innamora, sogna, vive una situazione stressante o non riesce a dominare l'attrazione per il gioco d'azzardo o quell'impeto "bestiale" che permane dopo uno scoppio d'ira. Per i genitori, i nonni e gli zii preoccupati per quelle tempeste ormonali che imbizzarriscono il comportamento degli adolescenti. Per le mogli gelose, i mariti sospettosi, i docenti che non riescono a padroneggiare la curiosità e soprattutto l'attenzione degli studenti per le loro lezioni, dagli asili ai dottorandi di ricerca. Per chiunque, insomma, voglia scoprire quanto di animalesco e di irrefrenabile si agiti nella propria e nella altrui testa, dove un cervello non a torto spacciato per l'"Organo del Pensiero" pulsa e invia piccoli ormoni dall'interno di un'angusta scatola cranica.

Roma, 2010

Enrico Alleva e Michela Santochirico

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 17

Introduzione


Quando l'auto si rompe tutti sanno qual è il modo migliore per aggiustarla – e nessuno si mette a cercare qualcuno che compia riti esorcistici sul motore. Piuttosto, si cerca una persona esperta che possa smontare il motore, trovare il minuscolo pezzo che costituisce il problema, aggiustarlo o sostituirlo e rimontare tutto l'insieme.

Se si verifica un crimine violento e il responsabile è avvolto nel mistero, tutti sanno cosa fare per cercare di capire cosa è successo – senza prendere il sospettato, metterlo al palo, appiccargli il fuoco e, se brucia completamente, concludere: è il segno che è colpevole. L'evento misterioso è, invece, analizzato, si trova un testimone di ciò che è successo da A a C, un altro che ha visto quanto accaduto da C a E e si mette insieme il quadro completo.

E conosciamo il da farsi anche quando si guasta il nostro corpo, senza sacrificare una mucca per pacificare lo spirito di un parente morto mentre ancora gli dovevamo dei soldi. Prendiamo un esperto che analizza la malattia, scopre i responsabili del malfunzionamento, virus e batteri per esempio, e li annienta.

L'approccio del "risolvere un grande problema trovando le cose microscopiche che sono rotte e aggiustarle" è chiamato riduzionismo – se si vuole comprendere un sistema complesso, bisogna scomporlo nelle parti che lo costituiscono. Il pensiero riduzionista ha dominato la scienza occidentale per secoli, aiutando l'occidente a tirarsi fuori dal pantano dell'età medievale.

Il riduzionismo può essere una gran bella cosa. Essendo stato bambino all'epoca di Jonas Salk, sono immensamente felice di aver beneficiato di un prodotto della scienza riduzionista, ovvero il vaccino scoperto da lui (o da Albert Sabin, ma non ci addentriamo in questo argomento), invece di aver avuto un pediatra che facesse una cerimonia su di me armato di ciondoli feticci e interiora di capra per propiziarsi il Demone della Polio. Gli approcci riduzionisti alle scienze mediche ci hanno fornito vaccini, farmaci che bloccano fasi specifiche della replicazione virale e hanno identificato precisamente quale parte di noi si guasta in moltissime malattie. È grazie al riduzionismo se, nel corso dell'ultimo secolo, la nostra aspettativa di vita è aumentata considerevolmente.

Perciò, se si vuole comprendere la biologia del ciò che siamo, del nostro comportamento normale o di quello anormale, l'approccio riduzionista fornisce regole del gioco piuttosto chiare: capire gli individui che formano la società; capire gli organi che costituiscono quegli individui, le cellule che formano gli organi e, scendendo fino alle fondamenta dell'intero edificio, capire i geni che danno istruzioni alle cellule su cosa fare. Questa prospettiva ha dato luogo a un'orgia di ottimismo riduzionista nella forma del progetto di ricerca più dispendioso della storia delle scienze naturali, ovvero il sequenziamento del genoma umano.

Pertanto i geni, secondo l'impostazione riduzionista, sembrano essere gli elementi costruttivi fondamentali della biologia, compresa quella del comportamento. Cosa significa, per la maggior parte della gente, dire che un comportamento è "genetico"?

Che è innato, istintivo.

Che accadrà a prescindere da quello che si faccia.

Che (se si opera nell'ambito del settore decisionale) non bisognerebbe sprecare risorse per prevenire quel comportamento, in quanto inevitabile.

Che (se avete idee un po' sorpassate in merito a cosa sia l'evoluzione) in qualche modo il comportamento è adattativo, ha delle ragioni per cui è davvero una cosa buona e utile, riflette una qualche sorta di saggezza della natura, il modo in cui un "è" in realtà è un "dovrebbe essere".

La prima sezione del libro prende in esame quei geni che sono in relazione con il nostro comportamento, con ciò che siamo. E già si potrebbe capire dove voglio arrivare, ovvero a smentire le idee appena enunciate, per dimostrare che spesso i geni hanno davvero poco a che fare con ciò che siamo.

Nel primo articolo, prendo in considerazione i geni connessi con uno dei più importanti problemi che il nostro inquieto pianeta deve affrontare: spiegare perché alcuni sono stati inseriti nel numero speciale della rivista People dedicato alle cinquanta persone più belle del mondo. Come si vedrà, la scarsità di ricerche in questo campo è drammatica; penserò che il libro sia servito allo scopo se il primo articolo ispirerà anche un solo giovane scienziato spingendolo ad affrontare questa complicata questione.

Il secondo articolo "Un gene per nulla" mostra al lettore ciò che i geni fanno veramente. Come si vedrà, è impossibile comprendere la funzione dei geni senza rendersi conto di come l'ambiente li regola.

Il terzo articolo, "Il marketing della genetica", porta questo tema in una direzione diversa. Uno dei concetti più importanti di tutta la biologia è che non si può realmente dire quale sia l'effetto di un particolare gene o quale quello di un determinato ambiente. Si può soltanto prendere in considerazione come un gene particolare interagisce con un particolare ambiente. Le interazioni "gene/ambiente" sono così importanti che non si può entrare a far parte della società segreta dei biologi senza introdurre il concetto nella conversazione almeno una volta al giorno. Tuttavia, come capita a ogni concetto onnicomprensivo e basilare, anche questo finisce per essere completamente ignorato. Il terzo articolo cerca di opporsi a tale atteggiamento, prendendo in esame uno studio in cui si dimostra come differenze ambientali impercettibilmente sottili possono cambiare completamente gli effetti comportamentali dei geni. Nel quinto articolo "Geni di uomini e topi" si prendono in considerazione le interazioni gene/ambiente nella vita fetale e perinatale e le loro conseguenze sul comportamento adulto, compreso quello degli esseri umani.

In tutto questo bailamme genetico, il quarto articolo "La guerra genetica tra uomini e donne" prende in esame l'ambito in cui i geni esercitano alcuni effetti importanti sullo sviluppo del cervello, del corpo e del comportamento. Questi geni sono tra i più bizzarri mai incontrati, in grado di violare ogni sorta di idolatrata credenza della genetica. Il fatto più strano è che le loro caratteristiche diventano perfettamente ragionevoli non appena si riconosce l'esistenza di una lotta evolutiva continua tra maschi e femmine, esseri umani inclusi. Un avvertimento: questo saggio non è un'amena lettura da prima notte di nozze.

Infine il sesto articolo "Corna di argilla" ritorna ai punti deboli dei rapporti tra i sessi. Nelle specie in cui i maschi e le femmine prendono strade separate dopo l'accoppiamento, tutto ciò che la femmina ottiene da un maschio sono i geni contenuti nel suo sperma. L'articolo espone come, in molte di queste specie, i maschi abbiano evoluto sistemi per farsi pubblicità con le femmine, reclamizzando gli stupendi geni che possiedono. E le femmine hanno evoluto sistemi per capire se i maschi dicono la verità. Come vedremo, in questa battaglia tra i sessi sulla veridicità di ciò che viene reclamizzato, i geni, forse, ottengono più credito di quello che meritano.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 27

Un gene per niente


Ricordate la pecora Dolly, il primo mammifero clonato da una cellula adulta, nel 1996? Era deliziosa, un'ispirazione. Ha sopportato innumerevoli cene di stato alla Casa Bianca, tutte cortesia e cordialità. Poi le parate a Broadway, con le stelle filanti, che hanno convinto anche il più indurito newyorchese. E le sue apparizioni negli onnipresenti tabelloni pubblicitari della Guess? (dei jeans Guess, in cui si alludeva a un gioco di parole che mi fa pensare quanto siano grandiosi i pubblicitari, certe volte). A Disneyland ha pattinato per beneficenza con il cast di Friends. In tutto questo circo mediatico è rimasta composta, paziente, calma, la quintessenza di ciò che si richiede a una celebrità, a un punto di riferimento.

Eppure malgrado il suo fascino, si continuano a dire cose cattive sul suo conto. Un attimo dopo il suo debutto, capi di stato, leader religiosi, editorialisti si sono sperticati per definirla un'aberrazione della natura, un insulto alla sacra meraviglia biologica della riproduzione, qualcosa che per gli essere umani non dovrebbe essere preso in considerazione nemmeno alla lontana.

Cosa ha generato tutto questo scombussolamento? Ecco alcune delle possibili spiegazioni: a) il collegamento con Dolly Parton ha sconvolto tutti per un non ben identificato motivo; b) poiché la tecnologia di clonazione che ha dato origine a Dolly potrebbe essete estesa agli esseri umani, abbiamo dinanzi a noi la possibilità che vengano sguinzagliate legioni di cloni di qualcuno, tutte con la stessa identica funzione epatica; c) grazie a questa tecnologia, potremmo finire con l'avere cloni che hanno lo stesso cervello.

Le prime due possibilità sono sicuramente inquietanti. Ma il disagio causato da Dolly in modo preponderante era, ed è dovuto, alla terza opzione. Lo stesso cervello, gli stessi neuroni diretti dagli stessi geni, una sola coscienza in tanti corpi, un miscuglio di menti, un esercito di fotocopie della stessa anima.

Per la verità, sappiamo che le cose non stanno così da quando gli scienziati hanno scoperto i gemelli identici. Tali individui costituiscono dei cloni genetici, proprio come Dolly e la madre (ma come si chiamava? Perché i media l'hanno ignorata?), da cui fu presa la cellula originaria. Malgrado le tante storie eclatanti riguardanti i gemelli identici separati alla nascita, che condividono ogni sorta di caratteristiche, come scaricare lo sciacquone prima di usare la toilet, queste persone non hanno un miscuglio di menti, non possiedono lo stesso comportamento. Un esempio calzante: se un gemello identico è schizofrenico, il fratello con lo stesso o gli stessi "geni per la schizofrenia", ha soltanto il 50 percento di probabilità di manifestare la malattia. Una scoperta analoga proviene da un affascinante esperimento condotto da Dan Weinberger del National Institute of Mental Health. A fronte della risoluzione dello stesso rompicapo, le risposte di due gemelli identici sono più simili tra di loro di quelle che ci si attenderebbe da una coppia di estranei. Nei gemelli impegnati a risolvere l'esercizio e collegati a uno strumento di brain imaging, che visualizza le richieste energetiche delle loro diverse regioni cerebrali è stato appurato che, nonostante l'identica soluzione, i pattern di attivazione delle rispettive aree cerebrali possono differire in modo impressionante. Oppure: si prenda un po' di cervello di due gemelli identici, non intendo le immagini prodotte da uno scanner cerebrale, ma la vera roba molliccia che si preleva durante un'autopsia. Lo si affetti, lo si faccia a dadini, lo si esamini con ogni tipo di microscopio, misurandolo meticolosamente per verificarne il numero di neuroni, saggiare la complessità dei cavi ramificati che fuoriescono da quei neuroni, il numero delle loro connessioni, e si troverà che è tutto differente. Stessi geni, cervelli diversi.

Gli editorialisti attenti lo hanno sottolineato parlando di Dolly (e tuttavia una delle problematiche della clonazione di Dolly, che ha suscitato maggiore preoccupazione, è incentrata sulla possibilità di generare la vita con il solo scopo di fare scorte di tessuti compatibili per i trapianti). Nondimeno la questione dei geni identici che presumibilmente producono cervelli identici preoccupa molte persone. E altre storie riguardanti la diade geni/comportamento continuano a essere sbattute sulle prime pagine dei giornali. Una è uscita poco prima di Dolly ed era la cronaca della scoperta, capeggiata da un gruppo di Stanford, di un gene singolo, chiamato "fru", che determina il comportamento sessuale dei maschi di drosofila. Il corteggiamento, le prime frasi per abbordare, i preliminari, con chi ci provano, tutto. Se si produce una mutazione in quel gene, sentite questa, si può persino cambiare l'orientamento sessuale del moscerino. Ma la notizia non stava in prima pagina a causa del nostro insaziabile voyeurismo verso i moscerini della frutta. In ogni articolo ci si poneva la domanda "Anche il nostro comportamento sessuale potrebbe essere determinato da un solo gene?". E un po' prima c'era stato un grande fermento per l'isolamento di un gene correlato con l'ansia e, prima di quello, di uno per il comportamento di assunzione dei rischi e, un po' prima di questo, la notizia eclatante di un altro gene la cui mutazione in una famiglia era stata associata con il comportamento violento e antisociale e ancora prima...

Perché occuparsi di questi fatti? Per molti, i geni e il Dna che li comprende rappresentano il Sacro Graal della biologia, il codice dei codici (due frasi spesso usate nelle discussioni di genetica fatte dai profani). L'adorazione all'altare della genetica si basa su due presupposti. Il primo riguarda l'autonomia della regolazione genica, con la nozione che l'informazione biologica inizi con i geni e fluisca verso l'esterno e verso l'alto. Il Dna come l'alfa, l'iniziatore, il comandante, l'epicentro da cui emana la biologia: nessuno dice a un gene cosa fare, è sempre il contrario. Il secondo è che quando un gene dà un comando i sistemi biologici ascoltano. Secondo questa visione i geni istruiscono le cellule in merito a struttura e funzioni. E, quando tali cellule sono neuroni, tali funzioni comprendono il pensiero, i sentimenti e il comportamento. Così, secondo questo modo di ragionare, alla fine si sono identificati i fattori biologici che ci fanno fare quello che facciamo.

Tale opinione fu avanzata in un editoriale sul "New Yorker" da un professore di letteratura chiamato Louis Menand. Menand rifletteva sui geni dell'ansia, come il caso in cui "un piccolo gene invia il segnale di mangiarsi le unghie": il primo presupposto sull'autonomia dei geni, che cioè si attivano quando gli salta l'idea in testa. Poi considerava cosa ciò comportasse per i nostri sistemi esplicativi: come riconciliare le spiegazioni sociologiche, economiche e psicologiche del comportamento con questi geni corazzati? Il secondo presupposto, ovvero "la visione secondo la quale il comportamento sia determinato da un pacchetto di geni ereditati", geni "comandanti" cui non si può opporre resistenza, "non è facilmente conciliabile con l'idea che il comportamento sia determinato dal tipo di film che si guardano". E qual è la soluzione? "È come avere le divinità greche e quelle inca nello stesso pantheon. Qualcuno se ne deve andare".

In altre parole, accettando che i geni inviano segnali attraverso i quali determinano il nostro comportamento, tali moderne scoperte scientifiche diventano incompatibili con l'idea dell'influenza ambientale. Qualcuno sé ne deve andare.

Ora, non so che tipo di genetica insegnino all'Università di Menand, ma la stupidaggine del qualcuno-se-ne-deve-andare è ciò che i biologi stanno cercando di non insegnare da decenni. Apparentemente con scarso successo. Che è poi il motivo per cui vale la pena ritentare.

D'accordo. Abbiamo la natura: i neuroni, i neurotrasmettitori, gli ormoni e, ovviamente, in fondo a tutto, i geni. E poi c'è l'ambiente, tutte quelle brezze ambientali che soffiano per ogni dove. Il concetto più scontato in biologia è che parlare di geni o ambiente sia privo di significato, bisognerebbe considerare soltanto la loro interazione. Tuttavia questa ovvietà raramente permane. Qualcuno se ne deve andare e, quando viene fuori un nuovo gene la cui "attivazione" "determina" un comportamento, le influenze ambientali sono sempre viste come qualcosa dì irrilevante, che se ne deve andare. E subito, la povera, dolce Dolly diventa una minaccia alla nostra autonomia di individui. Alcuni credono all'esistenza di geni che controllano con chi si va a letto e il grado di ansia che ne può derivare.

Vediamo se riusciamo a demolire la nozione che i geni siano il nostro destino neurobiologico e comportamentale esaminando quei due presupposti. Iniziamo dal secondo, quello per cui gene vuol dire inevitabilità: significa generare comandi che guidano le funzioni cellulari, comprese quelle che avvengono nella nostra testa. Cosa fa esattamente un gene? Un gene, una stringa di Dna, non produce nessun comportamento o emozione o pensiero fugace. Produce uno specifico tipo di proteina, codificata dalla particolare sequenza di Dna che lo costituisce. Dunque, sicuramente, alcune di queste proteine hanno molto a che fare con il comportamento, i sentimenti e i pensieri. Le proteine comprendono alcuni ormoni e neurotrasmettitori (messaggeri chimici tra neuroni), i recettori che ricevono i messaggi provenienti dagli ormoni e dai neurotrasmettitori, gli enzimi che sintetizzano e degradano quei messaggeri, molti dei messaggeri intracellulari la cui attività è stimolata dagli ormoni e così via. Tutti composti vitali per le funzioni cerebrali. Ma ecco il punto chiave: è estremamente raro che un comportamento sia causato da cose come gli ormoni o i neurotrasmettitori. Piuttosto queste sostanze producono la tendenza a rispondere all'ambiente in un determinato modo.

Questo è il fatto cruciale. Prendiamo in considerazione l'ansia. Quando l'organismo si trova di fronte a qualche tipo di minaccia in genere diventa vigile, cerca di ottenere informazioni sulla natura del pericolo, lotta per trovare una risposta con cui affrontarlo in modo efficace. E una volta che un segnale indica la salvezza – il leone è stato evitato, il vigile ha accettato la spiegazione e non ha fatto la multa – l'organismo si può rilassare. Con un individuo ansioso questo, però, non accade. Ciò che si verifica invece, è un susseguirsi frenetico di risposte, con bruschi passaggi da una all'altra, senza controllare se qualcuna ha funzionato, un nervoso tentativo di coprire tutte le basi, cercando diverse risposte nello stesso momento. Oppure si verifica l'incapacità di capire quando arriva il segnale di salvezza e si permane nell'inquietudine e nello stato di allerta. Per definizione, l'ansia non ha molto senso al di fuori del contesto definito da ciò che l'ambiente fa a un individuo. In questo contesto i neurotrasmettitori e, in ultima analisi, í geni relativi all'ansia, non rendono ansiosi. Provocano una maggiore sensibilità alle situazioni che causano questo stato, rendendo più difficile individuare nell'ambiente i segnali di salvezza.

Il tema è sempre lo stesso anche per altri aspetti del nostro comportamento. I recettori eccitatori (proteici) che sembrano avere qualcosa a che fare con il comportamento di ricerca della novità, in realtà non ne sono la causa diretta. Rendono più eccitabili nella risposte agli ambienti nuovi, rispetto agli individui privi di quella variante di recettori.

E le anomalie neurochimiche della depressione (influenzate dai geni) non rendono depressi, ma più vulnerabili agli stimoli ambientali stressanti e più inclini a pensare di essere indifesi nelle circostanze in cui non lo si è (questo argomento sarà ripreso in dettaglio nel quinto articolo). È sempre la stessa storia.

Si potrebbe ribattere che, sul lungo periodo, tutti siamo esposti a circostanze ansiogene, a un mondo, intorno a noi, che è deprimente. Se tutti sono esposti agli stessi fattori ambientali, allora soltanto le persone geneticamente soggette alla depressione, per esempio, sono quelle che si ammalano e ciò dà ai geni un voto piuttosto alto. In un contesto del genere la frase "i geni non sono la causa di nulla, ma rendono soltanto più sensibili ai fattori ambientali" diventa priva di significato.

Il problema però ha due aspetti. In primo luogo, non tutti quelli che hanno un'eredità genetica di depressione diventano depressi (soltanto il cinquanta percento, la stessa percentuale delle persone con una familiarità per la schizofrenia) e non tutti coloro che sono affetti da depressione hanno una eredità genetica per questa malattia. La costituzione genetica in sè e per sè non ha un valore così predittivo.

In secondo luogo, l'ambiente è uguale per tutti solo superficialmente. Per esempio, l'incidenza dei geni correlati con la depressione è approssimativamente la stessa in tutto il mondo. Tuttavia, nella nostra società, la depressione in età geriatrica ha un carattere epidemico ed è praticamente inesistente nelle società tradizionali dei paesi in via di sviluppo. Perché? Principalmente per il fatto che in ambienti diversi si hanno società diverse, in cui età avanzata può significare essere l'anziano che nel villaggio esercita un potere, oppure un ex bamboccione dedito al campo di bocce. Le differenze ambientali possono anche essere più sottili: periodi di stress psicologico durante l'infanzia dovuti a mancanza di controllo e prevedibilità dei fattori ambientali sono considerati elementi che predispongono l'adulto alla depressione. Due bambini possono aver ricevuto lezioni simili del tipo "ci sono cose brutte là fuori che non posso controllare": entrambi per esempio, durante l'infanzia, possono aver assistito al divorzio dei genitori perduto una nonna, sepolto un cucciolo nel giardino affranti dal dolore, fatto esperienza di bulli che la fanno franca con tutte le loro minacce, ma con una scansione temporale diversa. Quello che avrà vissuto tutte queste esperienze stressanti in un anno invece che in sei, molto più probabilmente finirà col formulare il seguente pensiero distorto che, verosimilmente, lo predisporrà alla depressione: "Ci sono cose cattive là fuori che non posso controllare, in realtà non riesco a controllare niente". I fattori biologici del sistema nervoso codificati dai geni non determinano il comportamento. Piuttosto, influenzano il modo di rispondere all'ambiente e tali influenze ambientali possono essere estremamente sottili. Vulnerabilità genetica, tendenza, predisposizione, inclinazione... ma raramente inevitabilità genetica.

È anche importante comprendere l'inaccuratezza del primo presupposto riguardante la genetica del comportamento, quello in base a cui i geni sono come degli iniziatori autonomi di comandi, possessori di una mente indipendente. Per verificare quanto ciò sia sbagliato è ora di prendere in esame due fatti sbalorditivi riguardanti la struttura dei geni che sbaragliano quel presupposto e riportano in auge la questione dell'influenza ambientale.

Un cromosoma è costituito da una lunghissima stringa di Dna, una sequenza di lettere che codificano per l'informazione genetica. Si è a lungo pensato che le prime xesime lettere del messaggio contenuto nel Dna formassero il gene 1. Una sequenza speciale di lettere segnalava la fine del gene e quindi la sequenza successiva di un altro numero imprecisato di lettere codificava per il gene 2, e così via per migliaia di geni. Nel pancreas il gene 1 poteva specificare la costruzione dell'insulina e, negli occhi, il gene 2 poteva codificare i pigmenti proteici che danno il colore all'iride, il gene 3, attivo nei neuroni, poteva rendere aggressivi. Ah! Beccato! Poteva rendere più sensibili agli stimoli ambientali che provocano l'aggressività. Nelle diverse persone ci sarebbero state versioni diverse dei geni 1, 2 e 3 e alcune versioni avrebbero funzionato meglio di altre, sarebbero state più adattative dal punto di visto evolutivo. Un esercito di composti biochimici avrebbe fatto l'umile lavoro manuale di trascrizione dei geni, di lettura delle sequenze di Dna e così, seguendo le istruzioni, di costruzione delle proteine appropriate. Sicuramente, se foste studenti di biologia, verreste torturati per un intero anno coi dettagli più minuti di questo processo di trascrizione, il cui quadro generale è comunque questo.

Ma c'è il fatto che esso non rispecchia come vadano effettivamente le cose. Lo scenario reale, sebbene diverso, all'inizio non sembra clamoroso. Invece di un gene dopo l'altro e di tutta quella lunga stringa di Dna interamente dedicata a codificare le diverse proteine, esistono lunghe sequenze di Dna che non vengono trascritte. Talvolta tali sequenze sono persino inserite all'interno del gene stesso che risulta così suddiviso in sezioni di Dna non trascritto, non codificante. Che serve a? In parte sembra che non faccia nulla, che sia "Dna spazzatura", lunghe sequenze ripetitive di immondizia senza senso. Ma una parte fa qualcosa di molto interessante: funge da manuale in cui si trovano le istruzioni su come e quando attivare i geni. Queste sequenze sono state chiamate in molti modi – elementi regolatori, promotori, soppressori, responsivi. Diversi messaggeri biochimici si legano agli elementi regolatori e con ciò alterano l'attività del gene immediatamente "a valle", quello che segue subito dopo nella sequenza di Dna.

Ecco la morte del gene come fonte autonoma di informazione, come possessore di una mente propria. Il quando e il come del funzionamento di un gene sono regolati da altri fattori. E questa attività genetica da cosa è regolata? Spesso dall'ambiente.

Vediamo un primo esempio di come potrebbero stare le cose. Supponiamo che a un primate accada qualcosa di stressante. C'è la siccità, il cibo scarseggia e così gli animali sono obbligati ogni giorno a macinare chilometri per cercare cibo. Come risultato, vengono secreti gli ormoni dello stress, detti glucocorticoidi, dalla ghiandola surrenale. Tra le altre cose, le molecole di glucocorticoidi entrano nelle cellule adipose legandosi a specifici recettori. Questi complessi ormone-recettore arrivano al Dna e si legano a particolari sequenze regolatrici, quelle che danno le istruzioni per il funzionamento. Il risultato è l'attivazione di un gene a valle che produce una proteina, la quale indirettamente inibisce l'immagazzinamento di grassi nella cellula adiposa. Una cosa del tutto logica perché, nel momento in cui l'animale soffre la fame e percorre la pianura in cerca di un pasto, bisogna dirottare l'energia verso i muscoli in movimento piuttosto che verso le cellule adipose.

Ciò costituisce un meccanismo adattativo ingegnoso, in cui l'ambiente scatena una risposta genetica che modifica il metabolismo e apre uno scenario molto diverso quando si pensa all'origine dell'informazione in questa cascata di eventi. Gli elementi regolatori, di fatto, introducono la possibilità di condizioni modulate dall'ambiente: se l'ambiente è duro e bisogna faticare per trovare il cibo, allora si utilizzano i geni per dirottare l'energia ai muscoli che lavorano. E nel caso del profugo che vaga per chilometri lontano da casa senza cibo sufficiente a causa della guerra civile probabilmente accade lo stesso — il comportamento di un essere umano, il tipo di ambiente che il particolare individuo produce può cambiare il pattern di attivazione genica di un'altra persona.

Vediamo un esempio più elaborato di come questi elementi regolatori del Dna sono controllati dai fattori ambientali. Supponiamo che il Gene 4037 (ha un nome ma ve lo risparmio), quando è lasciato a sbrigare i propri affari, sia attivo e trascriva la proteina per cui codifica. Ma l'elemento regolatore che si trova subito prima nella stringa di Dna lega un messaggero e da ciò segue l'inattivazione del Gene 4037. Bene. Ma che succede poi se il messaggero è sensibile alla temperatura? Se la temperatura della cellula aumenta, il messaggero si disgrega, si despiralizza e inizia a fluttuare lontano dall'elemento regolatore. Cosa succede a questo punto al gene? Libero dall'inibizione si riattiva bruscamente. Magari si tratta di un gene che codifica per una proteina importante per la ritenzione idrica. Uffa! Un'altra storia sul metabolismo, stavolta per spiegare il modo in cui, in un ambiente caldo, si scatena un adattamento metabolico per evitare la disidratazione. Supponiamo invece che il Gene 4037 codifichi per un insieme di proteine che hanno qualcosa a che fare con il comportamento sessuale. Cosa avremmo appena inventato? L'accoppiamento stagionale. L'inverno cede il passo, le giornate diventano un po' più calde e, nelle cellule giuste del cervello, dell'ipofisi o delle gonadi, a poco a poco iniziano ad attivarsi geni come il 4037. Alla fine viene superata qualche soglia e, di colpo, tutti gli animali iniziano ad andare in calore, a ovulare, a sbuffare, a dare zampate per terra in un clima di generale eccitazione. Se è il periodo giusto dell'anno, utilizzano questi geni per aumentare la probabilità di accoppiarsi. (Veramente, in molti casi il segnale ambientale per l'accoppiamento è la durata dell'esposizione alla luce diurna, quando le giornate si allungano, piuttosto che la temperatura. Ma il principio è lo stesso.)

Ecco una versione elegante, l'ultima, di questo principio. Ogni cellula del corpo ha una firma proteica distintiva che ne identifica il possessore, come un'impronta digitale biochimica. Queste proteine "maggiori dell'istocompatibilità" sono importanti: garantiscono che il sistema immunitario capisca la differenza tra il sé e qualche batterio invasore e sono il motivo per cui si ha il rigetto quando viene trapiantato un organo con una firma molto diversa. Qualcuna di queste proteine-firma si può staccare dalle cellule, raggiungere le ghiandole sudoripare, finire nel sudore e consentire una firma odorosa distintiva. Per un roditore si tratta di un fatto serio. Si possono progettare recettori delle cellule olfattive del naso di un roditore in grado di distinguere tra proteine odorose simili alle proprie e proteine totalmente nuove. È facile: più la somiglianza è grande più è saldo il legame delle proteine al recettore, cui esse si adattano come le chiavi in una serratura (per ritornare a una delle più famose frasi fatte che insegnano alla scuola superiore). Cosa abbiamo appena inventato? Un modo per spiegare qualcosa che i roditori fanno senza il minimo sforzo: distinguere gli odori dei consanguinei da quelli degli sconosciuti.

Continuando ad armeggiare con questo progetto scientifico, accoppiamo i recettori olfattivi a una cascata di messaggeri intracellulari che consentono di arrivare al Dna, nel punto di legame con gli elementi regolatori. Per fare cosa? Vediamo: se il recettore olfattivo si lega a una sostanza odorosa che indica la presenza di un consanguineo, si scatena una cascata che alla fine inibisce l'attività dei geni collegati con la riproduzione. E si è inventato un meccanismo per spiegare in che modo gli animali tendono a non accoppiarsi con i parenti stretti. Ma si può anche dare l'avvio a un'altra cascata: se un recettore olfattivo si lega a un composto odoroso che indica la presenza di un parente, vengono inibiti i geni che, normalmente attivi, regolano la sintesi di testosterone. Così viene fuori il modo in cui i roditori diventano irascibili e aggressivi quando un maschio estraneo gli impuzzolisce la tana, ma non quando si tratta dell'odore di un fratello minore. Oppure si possono progettare dei recettori olfattivi per distinguere tra la firma odorosa di individui dello stesso sesso e quella di individui di sesso opposto e, prima di rendersene conto, ecco il meccanismo di regolazione della fisiologia riproduttiva. Quando si sente l'odore di qualcuno del sesso opposto, inizia la cascata che alla fine attiva i geni localizzati giù nelle gonadi; ed è abbastanza certo che questo meccanismo, oltre che nei roditori, funzioni anche negli umani.

In ognuno di questi esempi si può iniziare a percepire una logica meravigliosa, un'eleganza su cui nessuna squadra di ingegneri potrebbe apportare molte migliorie. Ma ora esaminiamo i due fatti riguardanti la regolazione genica che fanno cambiare nettamente il modo di considerare i geni. Primo: secondo le stime più attendibili, quando si parla di cellule di mammifero più del 95 percento del Dna è non codificante. Più del novantacinque percento. Sicuramente molto è Dna spazzatura con funzione di materiale da imballaggio, ma un gene in media è provvisto di un immenso manuale di istruzioni su come funzionare e l'operatore spesso è di matrice ambientale. Con una tale percentuale, quando si pensa ai geni e al comportamento bisogna pensare a come l'ambiente li regola entrambi. Secondo fatto: quando si tratta di geni, evoluzione e comportamento, un grande problema è la variabilità tra gli individui. Voglio dire che spesso una determinata sequenza di Dna codificante per qualche gene varia da una persona all'altra e, spesso, questo si traduce in proteine che differiscono nel modo in cui svolgono il proprio lavoro. Questo è il terreno di gioco della selezione naturale: qual'è la versione più adattativa di un certo carattere (con una base genetica)? Dato che i cambiamenti evolutivi si verificano a livello del Dna, "sopravvivenza del più adatto" in realtà significa "riproduzione degli individui le cui sequenze di Dna consentono l'elaborazione di proteine con il miglior valore adattativo". Il secondo fatto sorprendente è che, quando si esamina la variabilità interindividuale delle sequenze di Dna, le regioni non codificanti risultano marcatamente più variabili di quelle codificanti. D'accordo, un sacco di questa variabilità non codificante è Dna spazzatura con funzione di materiale da imballaggio che ha tutta la libertà di andare alla deriva genetica perché non fa quasi niente. In fondo due violini, siano Stradivari o Guarneri, devono avere un aspetto molto simile, mentre il materiale da imballaggio può essere assai diverso, come lo sono un vecchio quotidiano, i trucioli di polistirolo espanso o la carta a bolle. Tuttavia, sembra esserci un'incredibile variabilità anche nelle regioni regolatorie del Dna.

Cosa significa? Speriamo di aver superato il concetto dei "geni che determinano il comportamento" per essere approdati a "i geni regolano il modo di rispondere all'ambiente", come viene detto nel modo più tipico. Il fatto che esista il 95 percento di Dna non codificante implica che sia almeno altrettanto valido pensare qualcosa del genere: "i geni possono essere strumenti appropriati utilizzati dai fattori ambientali per agire sul comportamento". E il secondo fatto, riguardante la variabilità nelle regioni non codificanti, significa che dire "l'evoluzione riguarda principalmente la produzione per selezione naturale di diversi assemblaggi di geni" non è esatto quanto dire "l'evoluzione riguarda principalmente la produzione, per selezione naturale, di differenti suscettibilità genetiche e diverse risposte alle influenze ambientali".

E ora dovrebbe risultare un'impresa titanica accatastare i fattori genetici in una pila separata da quella dei fattori ambientali. Ovviamente, in alcuni casi, il comportamento è pesantemente controllato dai geni. Basti pensare a tutti i moscerini mutanti che fanno sesso con i grilli parlanti. Ma, anche nei mammiferi qualche comportamento è sotto stretta influenza genetica. Un esempio notevole è costituito da alcune specie di arvicole strettamente affini che differiscono per il fatto di essere o monogame o poligame, caratteristica interamente dovuta alla presenza, in una parte del cervello, di un recettore per un particolare ormone correlato al comportamento sessuale: le specie monogame hanno questo recettore nell'area cerebrale specifica mentre quelle poligame ne sono prive. Alcuni scienziati, armeggiando con sbalorditiva perizia, sono riusciti a esprimere il recettore nel cervello delle arvicole poligame, che così sono diventate monogame (senza però chiarire se una tale trasformazione monogamica dei maschi possa essere considerata una... terapia... genica).

Gli esempi di singoli geni capaci di controllare pesantemente un comportamento sono, di solito, casi in cui il comportamento è eseguito da tutti gli individui in modo praticamente identico. Ciò avviene per necessità: non può essere tollerata molto la variabilità in certi comportamenti se si vogliono tramandare le copie dei propri geni. Per esempio, proprio come i violini che devono essere fabbricati nello stesso modo per fare il proprio mestiere, così i maschi dei primati devono eseguire la spinta pelvica, un comportamento che ha basi genetiche, tutti praticamente nello stesso modo se vogliono riuscire a riprodursi. (Ooops, ho appena fatto una similitudine tra i violini e le spinte pelviche. Una ulteriore prova in favore del fatto che gli scienziati dovrebbero essere obbligati a seguire corsi per imparare a scrivere, ogni tanto.) Ma quando si parla di corteggiamento, emozioni, creatività, malattia mentale ecc., è tale l'intreccio di componenti biologiche e ambientali da sbaragliare l'idea che qualcuno se ne debba andare, e sicuramente non i geni.

Forse il modo migliore di concludere è fornire un ulteriore esempio, particolarmente impressionante, di come, da individui con geni identici, possano venir fuori comportamenti diversissimi. Esito un po' a rivelarlo perché la scoperta è apparsa soltanto di recente e non è ancora stata pubblicata. Però, che diamine! L'argomento è così interessante che devo parlarne. Ricordate il colossale sondaggio di opinione svolto nel 1996 per raccogliere i pareri di tutte le pecore del Regno Unito? I ricercatori hanno da poco identificato i questionari di Dolly e di sua madre. E ora prendetevi questa sfilza di notizie bomba: la madre di Dolly votava conservatore, ha sempre preferito la regina madre a tutti i membri della famiglia reale, si era molto angosciata per l'epidemia di mucca pazza ("Fa bene o male alle pecore?"), amava Gilbert e Sullivan e approvava l'affermazione secondo cui "il comportamento è tutto nei geni". E Dolly? Votava il partito dei Verdi, pensava che il principe William fosse il più carino, si preoccupava dell'"ambiente", ascoltava le Spice Girls e alla domanda fatidica rispondeva: "Il comportamento? Geni, ambiente, che importa!"

Come vedete, il comportamento è più che soltanto un fatto di geni.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 83

Parte seconda: il nostro corpo e la nostra identità


Introduzione


Compito numero 1. È tempo di un piccolo esercizio. Da fare adesso, prendendovi qualche minuto di relax. Appoggiate la schiena alla sedia, sgombrate la mente dalle infinite preoccupazioni e dai pensieri stressanti, inspirate profondamente trattenendo il respiro per un secondo, quindi espirate piano. Ripetete l'esercizio alcune volte. Sentite i muscoli che si rilassano, la tensione defluire dal vostro viso, il cuore che inizia a battere più lentamente. E poi, di colpo, pensate la seguente cosa:

Un giorno questo tuo cuore smetterà di battere


Ma non vi fermate lì. Pensate davvero a questo fatto, al vostro cuore che fa il conto alla rovescia fino all'ultimo battito. Al flusso sanguigno che si ferma, allo spegnimento del cervello per mancanza di ossigeno.

Pensate alle dita dei piedi e delle mani che diventano blu.

E ora pensate a come vi fa sentire un'idea di questo tipo. Se siete come me, il cuore ora vi batte all'impazzata, e siete presi da uno strano panico che vi stringe lo stomaco fin giù verso l'inforcatura degli arti e la gola quasi si chiude, tanto che vorreste piangere o vomitare.

Ecco, ora avete capito il primo dei due argomenti fondamentali di questa parte del libro: talvolta tutto ciò che serve per cambiare la funzione di quasi ogni cellula del corpo è pensare a qualcosa.


Compito numero 2. Considerate ora le seguenti tre cose:

• Avere il ciclo mestruale

• Prendere anabolizzanti steroidei (quelli derivati dal testosterone, di cui spesso abusano coloro che si dedicano al body-building)

• Mangiare troppo cibo spazzatura.

Cosa le accomuna? Forse, direte andando a tentoni, hanno, ehm, qualcosa a che fare con la biologia. In effetti questa è una risposta sensata. Hanno tutte qualcosa a che fare con il comportamento, le emozioni, il comportamento emotivo e roba del genere.

Vi arrendete? Bene, sono tutte spiegazioni date a una corte di giustizia americana dagli avvocati difensori per giustificare un crimine violento! E così abbiamo scoperto il secondo dei tre argomenti critici di questa parte del libro: talvolta tutto ciò di cui si ha bisogno per modificare il modo in cui il cervello pensa e si emoziona è cambiare qualcosa di ciò che accade nel corpo – i livelli di qualche ormone, qualche nutriente, qualche anticorpo.

Questo intrecciarsi di cervelli e corpi, la loro capacità di regolazione reciproca, è ora un concetto centrale della biologia. Di dualisti ne sono rimasti pochi, quelli per i quali la mente fluttua pura al di sopra dei dettagli biologici del funzionamento di cellule, organelli e molecole. Noi siamo il prodotto di queste cellule et al. e il nostro cervello è fondamentalmente un organo biologico come lo è, per esempio, la vescica – tra alcune cellule muscolari della parete vescicale e alcuni dei sofisticati neuroni turbo situati nella corteccia esistono molte più somiglianze che differenze. Il cervello è soltanto un altro organo, benché sofisticato, e il suo funzionamento è inseparabile dal fatto che esiste all'interno di un corpo. Come ha detto il neurologo Antonio Damasio: "la mente è racchiusa nel corpo... non soltanto nel cervello». Esistono molti modi in cui il cervello altera le funzioni complessive del corpo. Banalmente, attraverso il "sistema nervoso volontario" invia comandi ai muscoli scheletrici e improvvisamente il corpo stringe mani, firma assegni o fa acrobazie con la mountain bike. Poi c'è il sistema nervoso involontario (noto anche come sistema nervoso autonomo), tramite cui il cervello regola il corpo in modi dei quali normalmente non si è molto consapevoli. E così si arrossisce, ci si eccita o, quando si contempla la nostra condizione di esseri inevitabilmente mortali, si ha uno spettro di "risposte autonomiche". I cavi provenienti dai neuroni cerebrali che formano il sistema nervoso autonomo proiettano a ogni sorta di posto inaspettato. Alcuni vanno dalla spina dorsale alle ossa, il più statico e flemmatico degli avamposti corporei, ed esercitano la loro influenza sul maniacale processo del rimodellamento osseo. Altri, individualmente, proiettano a ciascuno dei milioni di minuscoli follicoli vestigiali dei peli degli arti – e così possiamo avere la pelle d'oca.

Altri proiettano agli organi del sistema immunitario, costituendo la base di una nuova disciplina, la psiconeuroimmunologia, lo studio dei modi in cui il cervello può regolare le nostre difese immunitarie.

E poi c'è la capacità del cervello di regolare il corpo attraverso la secrezione di ormoni. Il cervello si è rivelato una ghiandola endocrina, la ghiandola dominante (secondo il titolo conferito all'ipofisi intorno al 1950 in un articolo scientifico di quelli del tipo pubblicato sul Reader's Digest) che rilascia quintali di ormoni capaci, a loro volta, di dirigere la funzione delle ghiandole endocrine in tutto il resto del corpo.

Ora consideriamo l'altra metà di questa interazione circolare cervello/corpo, ovvero il modo in cui ciò che accade nel corpo può influenzare il cervello, un fatto noto da molto tempo. Migliaia di anni fa qualcuno condusse quello che probabilmente è il primo esperimento di psiconeuroendocrinologia, la castrazione di un toro, dimostrando che, qualsiasi cosa fosse, ciò che emana dai testicoli ha qualcosa a che fare con la scontrosità dei maschi.

Secondo una credenza di vecchia data, esistevano parti del cervello su cui il corpo non esercita praticamente nessun effetto. Questo dominio privilegiato era la corteccia, la parte più "cerebrale" dell'encefalo. In base a questa visione, le regioni cerebrali preposte alle emozioni erano sì intrise di ormoni, ma la corteccia era vista come il lucente reame dell'imperturbabilità, fatta di acciaio inox, regina del filosofare, per metà calcolatrice e per metà deputata all'imparzialità. Questa dicotomia tra emozioni e ragione (e tra le regioni cerebrali che le controllano) si è rivelata completamente falsa, un concetto sbagliato che Damasio ha definito l'"errore di Cartesio" (che è anche il titolo di un suo magnifico libro).

Ciò che accade nel corpo influenza ogni aspetto della funzione cerebrale. Il tipo di ormoni sessuali e i loro livelli nel flusso sanguigno alterano la capacità del cervello di cogliere i dettagli puntiformi o le caratteristiche globali di un certo contesto. I messaggeri chimici rilasciati dal sistema immunitario aumentano il rischio di depressione. Gli ormoni dello stress possono alterare il funzionamento dell'avamposto principale del cervello, la corteccia frontale, e la prudenza nel prendere decisioni. La pressione sanguigna, nel periodo successivo a un trauma, insieme ad altre misure autonomiche, influenza la probabilità di soccombere per disturbi post traumatici da stress. Persino una cosa tanto banale come il livello di glicemia può incidere sulla velocità di ricordare un fatto.

I vari tipi di interazione tra corpo e cervello e il fatto che, in ultima analisi, il cervello, dal punto di vista biologico, è un semplice organo, sono gli argomenti degli articoli contenuti in questa parte del libro. Il saggio numero sette "Perché i sogni sono come i sogni" presenta una parte fondamentale del cervello, la corteccia frontale, prendendo in considerazione i motivi per cui essa presenta alterazioni della funzione, si spegne completamente e chiude l'attività in ognuno di noi molte volte al giorno. Nel nono articolo intitolato "Il piacere (e il dolore) del "Forse"" si continua con l'argomento della corteccia frontale analizzando cosa ha a che fare con la disciplina e il rinvio della gratificazione.

L'ottavo articolo "Anatomia del cattivo umore" e il decimo "Stress e restringimento cerebrale" sono incentrati sul modo in cui il corpo influenza il cervello. Il primo prende in esame i motivi per cui il sistema nervoso autonomo ci fa comportare da stupidi nei rapporti interpersonali, e può far sì che il cervello decida di sentirsi profondamente e sinceramente ferito da qualcosa quando invece non dovrebbe. Il decimo articolo si incentra su un argomento più tragico, prendendo in esame una classe di ormoni che, rilasciati in condizioni di stress, possono danneggiare un'area cerebrale nelle persone con certi tipi di disturbi post traumatici da stress. Queste scoperte possono risultare immensamente rilevanti per le migliaia di persone colpite dagli eventi dell'11 settembre 2001.

L'undicesimo articolo, "Bachi nel cervello", prende in esame un esempio davvero bizzarro del modo in cui il cervello può subire gli effetti del mondo esterno. In questo caso, non si tratta di alterazioni della funzione cerebrale causate da qualche ormone o nutriente presenti nel flusso sanguigno, ma del controllo esercitato da parassiti penetrati nel cervello su alcuni aspetti del suo funzionamento. Roba inquietante.

L'articolo numero dodici, "Crimini all'asilo", prende in esame un cervello che è profondamente, mostruosamente malato e provoca malattie nel delicato corpo di qualcun altro.

| << |  <  |