Copertina
Autore José Saramago
Titolo Il Quaderno
SottotitoloTesti scritti per il blog settembre 2008 - marzo 2009
EdizioneBollati Boringhieri, Torino, 2009, Varianti , pag. 176, cop.fle., dim. 13,7x21x1,5 cm , Isbn 978-88-339-2019-1
OriginaleO Caderno. Textos escritos para o blog setembro de 2008 - março de 2009
EdizioneCaminho, Lisboa, 2009
TraduttoreGiulia Lanciani
LettoreRiccardo Terzi, 2009
Classe politica , critica letteraria
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Indice


     7  Ringraziamenti
    11  Prefazione. Impenitentemente irritato, e tenero
        di Umberto Eco

        Il Quaderno

    19  settembre 2008
    40  ottobre 2008
    80  novembre 2008
   102  dicembre 2008
   120  gennaio 2009
   141  febbraio 2009
   161  marzo 2009


 

 

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Pagina 19

Settembre 2008


Giorno 15


Frugando tra alcune carte che hanno ormai perso la freschezza della novità, ho trovato un articolo su Lisbona scritto qualche anno fa e, non mi vergogno a confessarlo, mi sono emozionato. Forse perché più che un articolo è una lettera d'amore, d'amore per Lisbona. Ho deciso allora di condividerla con i miei lettori e amici pubblicandola di nuovo, ora sulla pagina infinita di internet, e inaugurare con essa il mio spazio personale in questo blog.


PAROLE PER UNA CITTÀ


Vi fu un tempo in cui Lisbona non aveva questo nome. La chiamavano Olisipo, quando vi giunsero i Romani, Olissibona quando la presero i Mori, che subito la convertirono in Aschbona, forse perché non sapevano pronunciare la barbara parola. Quando, nel 1147, dopo un assedio di tre mesi, i Mori furono vinti, il nome della città non cambiò immediatamente: se colui che sarebbe stato il nostro primo re inviò alla famiglia una lettera per annunciare l'evento, è probabile che abbia scritto in alto Aschbona, 24 ottobre, o Olissibona, ma mai Lisbona. Quando cominciò Lisbona a essere Lisbona di fatto e di diritto? Dovettero passare almeno alcuni anni prima che nascesse il nuovo nome, altrettanti perché i conquistatori Galeghi cominciassero a diventare Portoghesi.

Mi si dirà che queste minutaglie storiche interessano poco, ma a me invece interesserebbe molto non solo sapere, ma vedere, nel senso proprio del termine, come si andò trasformando Lisbona in quei giorni. Se fosse già esistito il cinema, se i vecchi cronisti fossero stati operatori, se le mille e una trasformazione che la città subì lungo questi otto secoli fossero state registrate, potremmo vedere Lisbona crescere e muoversi come un essere vivente, come quei fiori che ci mostra la televisione, che si aprono in pochi secondi, a partire dal bocciolo ancora chiuso fino allo splendore finale di forme e di colori. Credo che amerei questa Lisbona al di sopra di ogni altra cosa.

Fisicamente abitiamo uno spazio ma sentimentalmente siamo abitati da una memoria. Memoria che è quella di uno spazio e di un tempo, memoria dentro la quale viviamo, come un'isola tra due mari: uno che chiamiamo passato, l'altro che chiamiamo futuro. Possiamo navigare nel mare del passato prossimo grazie alla memoria personale che ha serbato il ricordo delle sue rotte, ma per navigare nel mare del passato remoto dovremo usare le memorie che il tempo ha accumulato, le memorie di uno spazio continuamente trasformato, fugace come il tempo stesso. Questo film di Lisbona, comprimendo il tempo ed espandendo lo spazio, sarebbe la perfetta memoria della città.

Quel che sappiamo dei luoghi è l'aver coinciso con essi per un dato tempo nello spazio che sono. Il luogo era lì, è comparsa la persona, poi la persona è partita, il luogo è continuato, il luogo aveva fatto la persona, la persona aveva trasformato il luogo. Quando dovetti ricreare lo spazio e il tempo di Lisbona dove Ricardo Reis avrebbe vissuto il suo ultimo anno, sapevo previamente che non sarebbero coincise le due nozioni del tempo e dello spazio: quella dell'adolescente timido che fui, chiuso nella sua condizione sociale, e quella del poeta lucido e geniale che frequentava le più alte regioni dello spirito. La mia Lisbona fu sempre quella dei quartieri poveri e quando, molto più tardi, le circostanze mi hanno portato a vivere in altri ambienti, la memoria che ho preferito serbarne è sempre stata quella dei miei primi anni, la Lisbona della gente di poco avere e di molto sentire, ancora rurale nelle abitudini e nella comprensione del mondo.

Forse non è possibile parlare di una città senza citare alcune date notevoli della sua esistenza storica. Qui, parlando di Lisbona, ne è stata menzionata una sola, quella del suo inizio portoghese: non sarà un peccato di glorificazione particolarmente grave... Lo sarebbe, invece, cedere a quella specie di esaltazione patriottica che, in mancanza di nemici reali sui quali far ricadere il proprio supposto potere, cerca stimoli facili all'evocazione retorica. Le retoriche commemorative, pur non essendo necessariamente un male, implicano tuttavia un senso di autocompiacimento che porta a confondere le parole con gli atti, quando non le colloca nel posto che solo a essi spetterebbe.

Quel giorno di ottobre, l'allora appena nato Portogallo fece un grande passo avanti, e fu così risoluto che Lisbona non fu mai più perduta. Ma non permettiamoci la napoleonica vanità di esclamare: «Dall'alto di quel castello ottocento anni ci guardano» - e applaudirci poi l'un l'altro per essere durati tanto... Pensiamo piuttosto che del sangue versato da una parte e dall'altra è fatto il sangue che abbiamo nelle vene, noi, gli eredi di questa città, figli di cristiani e di mori, di neri e di giudei, di indi e di gialli, insomma, di tutte le razze e fedi che si dicono buone, di tutte le razze e fedi che sono definite cattive. Lasciamo nell'ironica pace dei tumuli quelle menti traviate che, in un passato non lontano, inventarono per i portoghesi un «giorno della razza», e rivendichiamo il magnifico meticciato non solo di sangue, ma soprattutto di culture, che fondò il Portogallo e lo ha fatto durare fino a oggi.

Lisbona si è trasformata negli ultimi anni, è stata capace di risvegliare nella coscienza dei suoi cittadini l'energia per quel rinnovamento che l'ha strappata al marasma in cui era caduta. In nome della modernizzazione si alzano muri di cemento sulle antiche pietre, si sconvolgono i profili delle colline, si alterano i panorami, si modificano le visuali. Ma lo spirito di Lisbona sopravvive, ed è lo spirito che fa eterne le città. Trascinato da quel folle amore e da quel divino entusiasmo che abitano nei poeti, Camões un giorno scrisse, parlando di Lisbona: «Città che delle altre è agevolmente principessa». Perdoniamogli l'esagerazione. Ci basta che Lisbona sia semplicemente quel che deve essere: colta, moderna, pulita, organizzata - senza perdere nulla della sua anima. E se tutti questi pregi finiranno con il farne una principessa, che sia. Nella repubblica che noi siamo, regine così saranno sempre le benvenute.

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Giorno 18


GEORGE BUSH, O L'ERA DELLA MENZOGNA


Mi chiedo come e perché gli Stati Uniti, un paese grande in tutto, abbia avuto tante volte presidenti tanto piccoli. Di essi, George Bush è forse il più piccolo. Intelligenza mediocre, ignoranza abissale, espressione verbale confusa e permanentemente attratta dall'irresistibile tentazione del puro sproposito, quest'uomo si è presentato all'umanità nella posa grottesca di un cowboy che avesse ereditato il mondo e lo confondesse con una mandria di buoi. Non sappiamo quel che realmente pensa, non sappiamo neppure se pensa (nel senso nobile della parola), non sappiamo se non sia semplicemente un robot mal programmato che confonde costantemente e scambia i messaggi che ha registrati dentro. Ma, onore gli sia fatto almeno una volta nella vita, c'è nel robot George Bush, presidente degli Stati Uniti, un programma che funziona alla perfezione: quello della menzogna. Lui sa di mentire, sa che noi sappiamo che sta mentendo, ma, appartenendo al tipo comportamentale del bugiardo compulsivo, continuerà a mentire anche se avrà davanti agli occhi la più nuda delle verità, continuerà a mentire anche dopo che la verità gli sarà esplosa in faccia. Ha mentito per fare la guerra in Iraq come aveva già mentito sul suo passato turbolento ed equivoco, ossia, con la stessa sfacciataggine. La menzogna, Bush ce l'ha nel sangue. Come bugiardo emerito, è il corifeo di tutti gli altri bugiardi che lo hanno circondato, applaudito e servito negli ultimi anni.

George Bush ha espulso la verità dal mondo per far prosperare, al suo posto, l'era della menzogna. L'attuale società umana è contaminata dalla menzogna, la peggiore delle contaminazioni morali, e lui ne è uno dei principali responsabili. La menzogna circola dovunque impunemente, si è convertita ormai in una specie di altra verità. Quando anni addietro un primo ministro portoghese, il cui nome per carità ometto, affermò che «la politica è l'arte di non dire la verità», non poteva immaginare che George Bush, tempo dopo, avrebbe trasformato quella scioccante affermazione in una ingenua battuta di politico periferico senza effettiva coscienza del valore e del significato delle parole. Per Bush la politica è, semplicemente, una delle leve del potere, forse la migliore, la menzogna come arma, la menzogna come avanguardia dei carri armati e dei cannoni, la menzogna sulle rovine, la menzogna sui morti, sulle misere e sempre frustrate speranze dell'umanità. Non è certo che il mondo oggi sia più sicuro, ma non dubitiamo che sarebbe molto più pulito senza la politica imperiale e coloniale del presidente degli Stati Uniti, George Walker Bush, e di quanti, consapevoli della frode che commettevano, gli hanno aperto la strada per la Casa Bianca. La Storia gliene chiederà conto.


Giorno 19


BERLUSCONI & C.


Secondo la rivista nordamericana «Forbes», il gotha della ricchezza mondiale, la fortuna di Berlusconi ascenderebbe a quasi diecimila milioni di dollari. Onoratamente guadagnati, è chiaro, sebbene con non pochi aiuti esterni, come ad esempio il mio. Essendo io pubblicato in Italia dall'editrice Einaudi, proprietà del detto Berlusconi, qualche soldo glielo avrò fatto guadagnare. Un'infima goccia d'acqua nell'oceano, ovviamente, ma che gli sarà servita almeno per pagarsi i sigari, ammettendo che la corruzione non sia il suo unico vizio. Salvo quel che è di comune dominio, so pochissimo di vita e miracoli di Silvio Berlusconi, il cavaliere. Molto più di me ne saprà sicuramente il popolo italiano, che una, due, tre volte lo ha insediato sulla poltrona di primo ministro. Ebbene, come di solito si sente dire, i popoli sono sovrani, ma anche saggi e prudenti, soprattutto da quando il continuo esercizio della democrazia ha fornito ai cittadini alcune nozioni utili a capire come funziona la politica e quali sono i diversi modi per ottenere il potere. Ciò significa che il popolo sa molto bene quel che vuole quando è chiamato a votare. Nel caso concreto del popolo italiano - perché è di esso che stiamo parlando, e non di un altro (ci arriveremo) - è dimostrato come l'inclinazione sentimentale che prova per Berlusconi, tre volte manifestata, sia indifferente a qualsiasi considerazione di ordine morale. In effetti, nel paese della mafia e della camorra, che importanza potrà mai avere il fatto provato che il primo ministro sia un delinquente? In un paese in cui la giustizia non ha mai goduto di buona reputazione, che cosa cambia se il primo ministro fa approvare leggi a misura dei suoi interessi, tutelandosi contro qualsiasi tentativo di punizione dei suoi eccessi e abusi di autorità?

Eça de Queiroz diceva che, se facessimo circolare una bella risata intorno a una istituzione, essa crollerebbe, ridotta in pezzi. Questo, un tempo. Che diremo del recente divieto, emesso da Berlusconi, alla proiezione del film W. di Oliver Stone? Fin lì sono arrivati i poteri del cavaliere? Come è possibile che si sia commesso un tale arbitrio, sapendo per di più che, per quante risate ci potessimo fare intorno ai Quirinali, questi non cadrebbero? Giusta è la nostra indignazione, pur dovendo compiere uno sforzo per capire la complessità del cuore umano. W. è un film che attacca Bush, e Berlusconi, uomo di cuore come può esserlo un capo mafia, è amico, collega, fautore dell'ancora presidente degli Stati Uniti. Sono fatti l'uno per l'altro. Quel che non sarà ben fatto è che il popolo italiano accosti una quarta volta alle natiche di Berlusconi la sedia del potere. Non ci sarà, allora, risata che ci salvi.

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Pagina 31

Giorno 24


DIVORZI E BIBLIOTECHE


Per due volte, o forse tre, mi si presentarono alla Fiera del Libro di Lisbona, in anni passati, altrettanti lettori, i due o i tre, curvi sotto il peso di decine di volumi nuovi, comprati di fresco, e per lo più ancora sigillati nelle buste di plastica originali. Al primo che così mi venne davanti, feci la domanda che mi sembrò più logica, cioè se il suo incontro con il mio lavoro era cosa recente e, a quanto pareva, fulminante. Mi rispose che no, che mi leggeva da molto tempo, ma aveva divorziato e l'ex moglie, anche lei lettrice entusiasta, si era portata nella sua nuova vita la biblioteca della famiglia ora disfatta. Mi venne in mente allora, e su questo ho già scritto qualche riga nei vecchi Quaderni di Lanzarote, che sarebbe stato interessante studiare l'argomento dal punto di vista di ciò che in quella circostanza designai come l'importanza dei divorzi nella moltiplicazione delle biblioteche. Riconosco che l'idea era alquanto provocatoria, per questo l'ho messa da parte, anche per non essere accusato di porre i miei interessi materiali al di sopra dell'armonia di coppia. Non so, né immagino, quante separazioni coniugali avranno dato origine alla formazione di nuove biblioteche senza pregiudizio per le antiche. Due o tre casi, tanti sono quelli che ho conosciuto, non sono stati sufficienti a far nascere una primavera o, in termini più espliciti, non hanno accresciuto né i guadagni dell'editore né l'importo dei miei diritti d'autore.

Quel che francamente non mi aspettavo era come la crisi economica, che ci tiene in continuo stato di allerta, avesse reso ancora più difficili i divorzi e, pertanto, l'ambita progressione aritmetica delle biblioteche, il che significa, e su questo immagino saremo tutti d'accordo, un autentico attentato alla cultura. Che dire, ad esempio, del problema complesso, e spesso insolubile, di riuscire a trovare oggi un acquirente per un appartamento? Se molte cause di divorzio sono bloccate, se non procedono nei tribunali, il motivo è questo, e non un altro. Peggio ancora, come si dovrà agire contro certi scandalosi comportamenti ormai di pubblico dominio, quale è il caso, purtroppo frequente e assolutamente immorale, di continuare a vivere nella stessa casa, forse non a dormire nello stesso letto, ma a usare la stessa biblioteca? Si è perso il rispetto, si è perso il senso del decoro, è questa la disgraziata situazione alla quale siamo arrivati. E non mi si dica che la colpa è di Wall Street: nelle commedie televisive che essi finanziano non si vede un libro.

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Pagina 43

Giorno 6


SU FERNANDO PESSOA


Era un uomo che sapeva le lingue e faceva versi. Si guadagnò il pane e il vino mettendo parole nel posto di parole, fece versi come si fanno i versi, come se fosse la prima volta. Cominciò chiamandosi Fernando, persona come tutti. Un giorno si ricordò di annunciare l'imminente comparsa di un super-Camões, un Camões molto più grande dell'originale, ma essendo persona notoriamente riservata, che era solita andare per la rua dos Douradores in impermeabile chiaro, cravatta a laccetto e cappello senza piume, non disse che il super-Camões era lui stesso. Dopotuttto, un super-Camões non è altro che un Camões più grande, e lui era di riserva per essere Fernando Pessoas [Persone], fenomeno mai visto prima in Portogallo. Naturalmente, la sua vita era fatta di giorni, e noi dei giorni sappiamo che sono uguali ma che non si ripetono, per cui non ci sorprende se in uno di questi, nel passare Fernando davanti a uno specchio, vi abbia visto, in un baleno, un'altra persona. Pensò a una illusione ottica, una delle tante che ci capita spesso di avere senza che vi facciamo caso, o che l'ultimo bicchiere di grappa non fosse stato gradito né dal fegato né dalla testa, ma, prudentemente, fece un passo indietro per confermare, come è voce corrente, che gli specchi non si ingannano. Quello, però, si era ingannato: c'era un uomo che guardava da dentro lo specchio, e quell'uomo non era Fernando Pessoa. Era perfino un po' più basso, il volto tendente al bruno, ben rasato. Con un movimento istintivo, Fernando si portò la mano al labbro superiore, poi respirò a fondo con infantile sollievo, i baffi erano lì. Molte cose ci si possono aspettare dalle figure che appaiono negli specchi, tranne che parlino. E perché queste, Fernando e l'immagine che non era sua, non restassero lì eternamente a guardarsi, Fernando Pessoa disse: «Mi chiamo Ricardo Reis». L'altro sorrise, annuì con il capo e scomparve. Per un momento lo specchio restò vuoto, ma subito dopo apparve un'altra immagine, quella di un uomo magro, pallido, con l'aspetto di chi non ha più molto tempo da vivere. A Fernando Pessoa sembrò che questi avrebbe dovuto comparire per primo, ma non fece alcun commento, disse appena: «Mi chiamo Alberto Caeiro». L'altro non sorrise, fece un lieve cenno di assenso, e se ne andò. Fernando Pessoa restò in attesa, aveva sempre sentito dire che non c'è due senza tre. La terza figura tardò qualche secondo, era un uomo di quelli che ostentano salute da vendere, con l'inconfondibile aria da ingegnere laureato in Inghilterra. Fernando disse: «Mi chiamo Álvaro de Campos», ma questa volta non aspettò che l'immagine scomparisse dallo specchio, si allontanò lui, probabilmente si era stancato di essere stato tanti in così poco tempo. Quella notte, alle prime luci dell'alba, Fernando Pessoa si svegliò domandandosi se quel tal Álvaro de Campos fosse ancora nello specchio. Si alzò, e quello che scorse fu il suo stesso volto. Allora disse: «Mi chiamo Bernardo Soares», e tornò a letto. Fu dopo questi nomi e alcuni altri che Fernando Pessoa pensò che fosse arrivato il momento di essere anche lui ridicolo e scrisse le lettere d'amore più ridicole del mondo. Quando era già a buon punto nei lavori di traduzione e poesia, morì. Gli amici gli dicevano che aveva davanti un grande futuro, ma non deve averci creduto, tanto che decise di morire ingiustamente nel fiore degli anni, 47, pensate un po'. Un istante prima di morire chiese che gli dessero gli occhiali: «Dammi gli occhiali» furono le sue ultime e formali parole. Fino a oggi nessuno si è mai preoccupato di sapere perché li volesse, tanto si ignorano o disprezzano le ultime volontà dei moribondi, ma sembra abbastanza plausibile che la sua intenzione fosse di guardarsi in uno specchio per sapere chi alla fine stesse lì dentro. La parca non gli dette tempo. Del resto, non c'era specchio nella stanza. Questo Fernando Pessoa non arrivò mai ad avere la certezza di chi veramente fosse, ma è proprio grazie a tale dubbio che riusciamo a sapere un po' di più chi siamo noi.

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Pagina 68

Giorno 22


CHICO BUARQUE DE HOLANDA


Esisteranno universi paralleli? Di fronte alle varie «prove» presentate al tribunale dell'opinione pubblica dagli autori che si dedicano alla fantascienza, non è difficile credere di sì o, almeno, essere d'accordo nel concedere alla temeraria ipotesi quel che non si nega a nessuno, ovvero il beneficio del dubbio. Ora, supponendo che davvero esistano tali universi paralleli, sarà logico e penso inevitabile dover ugualmente ammettere l'esistenza di letterature parallele, di scrittori paralleli, di libri paralleli. Uno spirito sarcastico non si esimerebbe dal ricordarci che non c'è bisogno di andare tanto lontano per trovare scrittori paralleli, meglio noti come plagiari, i quali, tuttavia, non arrivano mai a essere del tutto plagiari poiché qualcosa di proprio si sentono in obbligo di metterlo nell'opera che firmeranno con il loro nome. Plagiario assoluto fu quel Pierre Menard che, a dire di Borges, copiò il Chisciotte parola per parola, e anche così lo stesso Borges ci avverte che scrivere il termine giustizia nel secolo XX non significa la stessa cosa (né è la stessa giustizia) che averlo scritto nel XVII... Un altro tipo di scrittore parallelo (detto anche nègre o, più modestamente, ghost) è quello che scrive perché altri godano della supposta o autentica gloria di vedere il proprio nome sulla copertina di un libro. Di questo tratta, apparentemente, il romanzo - Budapest - di Chico Buarque de Holanda, e se dico «apparentemente» è perché lo scrittore fantasma, le cui avventure grottesche accompagniamo divertiti e al tempo stesso commossi, è solo la causa inconscia di un processo di ripetizioni successive che se non arrivano a essere di universi né di letterature, lo saranno senza dubbio, inquietantemente, di autori e di libri. Quel che più inquieta è però la sensazione di continua vertigine che si impossessa del lettore, che a ogni momento saprà dove stava, ma che a ogni momento non sa dove sta. Senza mostrare di pretenderlo, ogni pagina del romanzo esprime un'istanza «filosofica» e una provocazione «ontologica»: che cos'è, insomma, la realtà? Che cosa e chi sono io, insomma, in questa che mi hanno insegnato a chiamare realtà? Un libro esiste, smetterà di esistere, esisterà di nuovo. Una persona ha scritto, un'altra ha firmato, se il libro è scomparso, anch'esse sono entrambe scomparse? E se sono scomparse, sono scomparse del tutto, o in parte? Se qualcuno è sopravvissuto, è sopravvissuto in questo o nell'altro universo? Chi sarò io, se essendo sopravvissuto non so più chi ero? Molto ha osato Chico Buarque, ha scritto attraversando un abisso su un filo di ferro ed è arrivato dall'altro lato. L'altro lato dove si trovano i lavori eseguiti con maestria, di linguaggio, di costruzione narrativa, del semplice fare. Non credo di sbagliarmi se dico che con questo libro qualcosa di nuovo è accaduto in Brasile.

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Pagina 74

Giorno 27


QUANDO SARÒ GRANDE VOGLIO ESSERE COME RITA


Questa Rita cui voglio somigliare quando sarò grande è Rita Levi Montalcini, vincitrice del Premio Nobel per la Medicina nel 1984 per le sue ricerche sullo sviluppo delle cellule neurologiche. Ora, il Premio Nobel è cosa che già ho, non sarebbe dunque per ambizione di questa grande o piccola gloria, le opinioni degli esperti divergono, che sono disposto a smettere di essere chi sono stato per diventare Rita. Tanto più trovandomi in un'età in cui qualsiasi cambiamento, pur se promettente, ci appare sempre come un sacrificio delle abitudini, cui finiamo più o meno per adattarci.

E perché voglio assomigliare a Rita? È semplice. Nell'atto del suo investimento come Dottore Honoris Causa nell'aula magna dell'Università Complutense di Madrid, questa donna, che ad aprile compirà cento anni, ha fatto una serie di dichiarazioni (peccato non aver avuto modo di trascrivere per completo il suo discorso improvvisato) che mi hanno lasciato ora stupito ora grato, anche se non è facile immaginare uniti insieme questi due sentimenti estremi. Ha detto: «Non ho mai pensato a me stessa. Vivere o morire è la stessa cosa. Perché la vita, naturalmente, non è in questo piccolo corpo. L'importante è il modo in cui viviamo e il messaggio che lasciamo. È questo che ci sopravvive. È questo l'immortalità». E ha detto ancora: «È ridicola l'ossessione di invecchiare. Il mio cervello è migliore ora di quel che era quando ero giovane. È vero che ci vedo male e sento peggio, ma la mia testa ha sempre funzionato bene. La cosa fondamentale è mantenere attivo il cervello, cercare di aiutare gli altri e conservare la curiosità per il mondo». E queste parole che mi hanno fatto capire di aver incontrato l'anima gemella: «Sono contro la pensione o qualunque altro tipo di sussidio. Vivo senza. Nel 2001 non guadagnavo niente e ho avuto problemi economici fino a che il presidente Ciampi mi ha nominata senatrice a vita».

Non tutti saranno d'accordo con questo radicalismo. Ma scommetto che molti di quelli che mi leggono vorranno essere anche loro da grandi come Rita. Che così sia. Se lo faranno, stiamo pur sicuri che il mondo diventerà subito migliore. Non è questo che andiamo dicendo di volere? Rita è il cammino.

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Pagina 104

Giorno 4


SAVIANO


Molti anni fa, a Napoli, passando per una di quelle strade dove può succedere di tutto, la mia curiosità fu attratta da un caffè che aveva tutta l'aria di aver aperto le sue porte da pochi giorni. I legni erano chiari, le cromature brillanti, il pavimento a specchio, insomma, una festa non solo per gli occhi, ma anche per l'olfatto e il palato, come confermò l'eccellente caffè che mi fu servito. Il cameriere mi chiese di dov'ero, gli risposi del Portogallo, e lui, con la naturalezza di chi offre un'informazione utile, mi disse: «Questo è della camorra». Colto di sorpresa, mi limitai a lasciarmi uscire di bocca un «Ah, sì?» che non mi comprometteva affatto, ma che mi servì per tentare di eludere l'improvvisa inquietudine che mi era presa alla bocca dello stomaco. Avevo di fronte qualcuno che poteva essere un semplice assoldato senza particolari responsabilità nell'attività criminale dei padroni, ma che la logica consigliava di guardare con prudenza diffidando di una cordialità fuori luogo, poiché ero solo un cliente di passaggio che non riusciva a capire come una rivelazione apparentemente incriminatoria fosse stata fatta con il più amabile dei sorrisi. Pagai, uscii e, una volta in strada, affrettai il passo come se una banda di sicari armati fino ai denti si preparasse a inseguirmi. Dopo aver svoltato tre o quattro angoli, cominciai a tranquillizzarmi. Il cameriere poteva essere un facinoroso, ma motivi per volermi male non ne aveva. Era chiaro che si era accontentato di dirmi quello che, come abitante di questo pianeta, avevo l'obbligo di sapere, che Napoli, tutta, era nelle mani della camorra, che la bellezza della baia era un'illusoria simulazione e la tarantella una marcia funebre.

Passarono gli anni, ma l'episodio non mi si cancellò mai dalla memoria. E ora ritorna come qualcosa di vissuto ieri, quei legni chiari, il brillio delle cromature, il sorriso complice del cameriere, che forse cameriere non era, ma gestore, uomo di fiducia della camorra, camorrista lui stesso. Penso a Roberto Saviano, minacciato di morte per aver scritto un libro di denuncia di un'organizzazione criminale capace di sequestrare un'intera città e chi ci vive, penso a Roberto Saviano che ha la testa non messa a taglia ma a termine, e mi chiedo se un giorno ci risveglieremo dall'incubo che la vita è per tanti, perseguitati perché dicono la verità, tutta la verità, nient'altro che la verità. Mi sento umile, quasi insignificante, davanti alla dignità e al coraggio dello scrittore e giornalista Roberto Saviano, maestro di vita.

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Pagina 123

Gennaio 2009
Giorno 8


Questo articolo è stato pubblicato la prima volta anni fa. Il suo scenario è la seconda Intifada palestinese, nel 2000. Ho osato pensare che il testo non fosse troppo invecchiato e che la sua «resurrezione» fosse giustificata dalla criminosa azione di Israele contro la popolazione di Gaza. Eccolo, dunque.

DALLE PIETRE DI DAVID AI CARRI ARMATI DI GOLIA


Affermano alcune autorità in questioni bibliche che il Primo Libro di Samuele fu scritto all'epoca di Salomone, o nel periodo immediatamente successivo, in ogni caso prima della schiavitù di Babilonia. Altri studiosi non meno competenti sostengono che non solo il Primo, ma anche il Secondo Libro, furono redatti dopo l'esilio di Babilonia, poiché la loro composizione obbedisce a quel che è noto come struttura storico-politico-religiosa dello schema deuteronomico, cioè, in successione, l'alleanza di Dio con il suo popolo, l'infedeltà del popolo, il castigo di Dio, la supplica del popolo, il perdono di Dio. Se la venerabile scrittura risale ai tempi di Salomone, potremo dire che su di essa sono passati, fino a oggi, in cifra tonda, circa tremila anni. Se il lavoro dei redattori fu realizzato dopo il ritorno degli ebrei dall'esilio, allora bisognerà detrarre da quel numero più o meno cinquecento anni.

Questa preoccupazione di esattezza temporale ha come unico scopo quello di offrire alla comprensione del lettore l'idea che la famosa leggenda biblica del combattimento (che non arrivò a esserci) tra il piccolo David e il gigante filisteo Golia non è raccontata come si deve ai bambini da almeno venti o trenta secoli. Nel corso del tempo, le diverse parti interessate all'argomento hanno elaborato, con l'acritico assenso di più di cento generazioni di credenti, tanto ebrei quanto cristiani, tutta questa ingannevole mistificazione sulla disparità di forze che separava dai bestiali quattro metri di altezza di Golia la fragile costituzione fisica del biondo e delicato David. Tale disparità, enorme sotto ogni aspetto, era compensata, e subito volta a favore dell'israelita, dal fatto che David era un ragazzino astuto e Golia una stupida massa di carne, tanto astuto l'uno che, prima di affrontare il filisteo, raccolse sulla riva di un ruscello che era nei paraggi, cinque pietre lisce che mise nella sacca, tanto stupido l'altro da non accorgersi che David veniva armato di pistola. Che non era una pistola, protesteranno indignati gli amanti delle sovrane verità mitiche, ma solo una fionda, una umilissima fionda da pastore, come già le avevano usate in tempi immemorabili i servi di Abramo che gli custodivano il bestiame. Si, in effetti non sembrava una pistola, non aveva canna, non aveva calcio, non aveva grilletto, non aveva cartucce, quel che aveva erano due corde resistenti legate in cima a un piccolo pezzo di cuoio flessibile nel cui cavo l'esperta mano di David collocò la pietra che, a distanza, fu lanciata, veloce e potente come una pallottola, contro la testa di Golia, e lo atterrò, lasciandolo alla mercè del filo della sua stessa spada, già impugnata dal destro fromboliere. Non fu dunque perché era più astuto che l'israelita riuscì a uccidere il filisteo e a portare alla vittoria l'esercito del Dio vivo e di Samuele, fu semplicemente perché aveva con sé un'arma di lunga gittata e la seppe maneggiare. La verità storica, modesta e niente affatto immaginativa, si contenta di insegnarci che Golia non ebbe neppure la possibilità di mettere le mani su David; la verità mitica, emerita fabbricante di fantasie, ci va cullando da trenta secoli con il meraviglioso racconto del trionfo del piccolo pastore sulla bestialità di un gigantesco guerriero al quale, in fin dei conti, a nulla poté servire il pesante bronzo dell'elmo, della corazza, delle gambiere e dello scudo. Da quanto siamo autorizzati a concludere dallo sviluppo di questo edificante episodio, David, nelle molte battaglie che lo fecero re di Giuda e di Gerusalemme ed estesero il suo potere fino alla riva destra dell'Eufrate, non tornò a usare né fionda né pietre.

E neanche ora le usa. In questi ultimi cinquant'anni, a David sono cresciute a tal punto le forze e la statura che tra lui e il sovrastante Golia non è più possibile notare alcuna differenza; anzi, si potrebbe addirittura dire, senza offendere l'offuscante chiarezza dei fatti, che è diventato un nuovo Golia. David, oggi, è Golia, un Golia che ha smesso di caricarsi di pesanti e in fondo inutili armi di bronzo. Il biondo David di un tempo sorvola in elicottero le terre palestinesi occupate e spara missili contro bersagli inermi; il delicato David di una volta guida i più potenti carri armati del mondo e schiaccia e schianta tutto quel che incontra sul suo cammino; il lirico David che cantava lodi a Betsabea, incarnato ora nella figura gargantuesca di un criminale di guerra chiamato Ariel Sharon, lancia il «poetico» messaggio che prima è necessario schiacciare i palestinesi per poter poi negoziare con quelli che di loro resteranno. In poche parole, è in questo che consiste, dal 1948, con leggere varianti meramente tattiche, la strategia politica israeliana. Intossicati dall'idea messianica di un Grande Israele che realizzi finalmente i sogni espansionistici del sionismo più radicale; contaminati dalla mostruosa e radicata «certezza» che in questo catastrofico e assurdo mondo esiste un popolo eletto da Dio e che, pertanto, sono automaticamente giustificate e autorizzate, anche in nome degli orrori del passato e delle paure di oggi, tutte le loro azioni derivanti da un razzismo ossessivo, psicologicamente e patologicamente esclusivista; educati e allenati nell'idea che qualsiasi sofferenza abbiano inflitto, infliggano o infliggeranno agli altri, e in particolare ai palestinesi, sarà sempre molto al di sotto di quelle che essi hanno patito nell'Olocausto, gli ebrei scorticano senza sosta la loro ferita perché non cessi di sanguinare, per renderla incurabile, e la mostrano al mondo come se si trattasse di una bandiera. Israele ha fatto sue le terribili parole di Geova nel Deuteronomio: «Mia è la vendetta, e io ripagherò i miei nemici». Israele vuole farci sentire colpevoli, tutti, direttamente o indirettamente, degli orrori dell'Olocausto, Israele vuole che rinunciamo al più elementare giudizio critico e ci trasformiamo in docile eco della sua volontà, Israele vuole che riconosciamo de jure quel che per lui è già un esercizio de facto: l'assoluta impunità. Dal punto di vista degli ebrei, Israele non potrà mai essere sottoposto a giudizio, una volta che è stato torturato, gassato e bruciato ad Auschwitz. Mi chiedo se quegli ebrei che sono morti nei campi di concentramento nazisti, quegli ebrei che sono stati trucidati nei pogrom, quegli ebrei che sono marciti nei ghetti, mi chiedo se questa immensa moltitudine di infelici non proverebbe vergogna per le infami azioni che i loro discendenti stanno commettendo. Mi chiedo se il fatto di aver tanto sofferto non sarebbe il miglior motivo per non far soffrire gli altri.

La pietre di David sono passate di mano, ora sono i palestinesi a tirarle. Golia sta dall'altra parte, armato ed equipaggiato come mai si vide soldato nella storia delle guerre, salvo, è chiaro, l'amico nordamericano. Ah, sì, le orrende stragi di civili causate dai terroristi suicidi... Orrende, sì, senza dubbio, condannabili, sì, senza dubbio, ma Israele avrà ancora molto da imparare se non è capace di capire le ragioni che possono portare un essere umano a trasformarsi in una bomba.

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