Autore Dimitar Sasselov
Titolo Un'altra Terra
SottotitoloLa scoperta della vita come fenomeno planetario
EdizioneCodice, Torino, 2012 , pag. 188, ill., cop.fle., dim. 13,5x19,8x1,5 cm , Isbn 978-88-7578-334-1
OriginaleThe Life of Super-Earths. How the Hunt for Alien Worlds and Artificial Cells Will Revolutionize Life on Our Planet [2012]
TraduttoreGianbruno Guerrerio
LettoreCorrado Leonardo, 2013
Classe evoluzione , astronomia , cosmologia , biologia , chimica












 

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Indice


VII     Ringraziamenti

 IX     Introduzione. Il mistero della vita


        Parte I. Super-Terra

  5  1  Pianeti extrasolari, finalmente

 13  2  Il mondo dei pianeti

 21  3  Completare la rivoluzione copernicana

 33  4  A caccia di transiti

 63  5  Super-Terra. Un nuovo tipo di pianeta

 81  6  Super-Terre. Le rocce più dure nell'universo


        Parte II. Origini della vita

 89  7  La scala della vita

101  8  Origini della vita. Perché i pianeti?

111  9  La vita come fenomeno planetario

123 10  Luoghi che potremmo chiamare casa

139 11  Il trascorrere del tempo.
        L'universo è giovane, la vita ancora di più

165 12  Il futuro della vita

181     Indice analitico


 

 

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Pagina IX

Introduzione

Il mistero della vita


Che cos'è la vita e come ha avuto origine? Poche domande possono competere con questa, che ha sempre rappresentato una grande sfida, e non solo per la scienza. Sono stati proposti numerosi scenari, speculazioni, idee e modelli, ma in gran parte poco soddisfacenti. Era così anche a metà del diciannovesimo secolo, finché alcuni campioni di fango viscido raccolti dalle profondità dell'Atlantico settentrionale durante la posa di un cavo telegrafico cambiarono tutto.

Il 1857 potrebbe essere celebrato come l'anno in cui l'umanità ha compiuto il primo, concreto passo verso un mondo globalizzato, ovvero il mondo in cui oggi viviamo. Navi da guerra americane e britanniche riconvertite salpavano cariche di cavi da posare sul fondo dell'oceano Atlantico per il primo collegamento telegrafico intercontinentale tra Europa e America. I tempi in cui le notizie viaggiavano a piedi, a cavallo o con i piccioni viaggiatori stavano per finire, definitivamente rimpiazzati da una comunicazione che avrebbe viaggiato alla velocità della luce. I giorni e le settimane sarebbero diventati ore e minuti. Fu come se gli oceani, che avevano separato gli esseri umani per millenni, si fossero «improvvisamente prosciugati», come ha scritto un giornale dell'epoca.

Per prepararsi alla posa del cavo del telegrafo, navi come la HMS Cyclops e la USS Arctic avevano scandagliato i fondali dell'oceano Atlantico e prelevato alcuni campioni. Nel 1868 Thomas Henry Huxley , un biologo inglese che aveva ottenuto importanti risultati di anatomia comparata (anche se oggi è noto come divulgatore della teoria dell'evoluzione di Darwin), scoprì tra quei prelievi una sostanza gelatinosa, incolore e senza forma che, pensava Huxley, sembrava una nuova forma di vita. Non una qualunque forma di vita, ma la sostanza organica primordiale, il protoplasma indifferenziato da cui è sbocciata la vita.

Quella di Huxley era un'idea audace, anche per il periodo inebriante in cui si trovava a vivere, quando si cominciava a capire la vita e le sue origini. Qualche anno prima, nel 1859, Charles Darwin aveva pubblicato il suo fondamentale L'origine delle specie, e la teoria dell'evoluzione era diventata oggetto di ampi e roventi dibattiti. Poi, tra il 1860 e il 1863, Louis Pasteur aveva compiuto i suoi famosi esperimenti sulla sterilizzazione che avrebbero portato alla pastorizzazione. In pochi anni molti concetti consolidati sull'origine della vita erano stati completamente capovolti.

Prima di Darwin e Pasteur la scienza occidentale aveva cercato di spiegare le origini della vita attraverso una combinazione di generazione spontanea e vitalismo. La generazione spontanea era l'idea che la vita emergesse dalla decomposizione della materia, a sua volta pervasa da una forza vitale (comune a tutto il materiale organico, aria compresa). Il vitalismo, invece, era già preso di mira dalla chimica. Nel suo sviluppo iniziale la chimica aveva separato i composti inorganici da quelli organici, che erroneamente si pensava derivassero solo da forme viventi. Nel 1828, dopo che un composto organico fu sintetizzato in laboratorio, la necessità di una forza vitale stava già cominciando a svanire (sebbene la chimica organica conservi ancora il suo nome).

Quanto la generazione spontanea fosse fallace era stato provato da esperimenti di ebollizione completa di brodi di carne già prima di Pasteur, ma gli eleganti esperimenti del chimico e biologo francese, che lasciavano filtrare l'aria, avevano dimostrato che la vita emerge solo dalla vita. I matracci dai lungi colli a cigno usati per bollire il brodo impedivano ai germi (per esempio, batteri e spore) di entrare nel liquido sterilizzato, ma lasciavano filtrare l'aria. E allora Pasteur convinse tutti.

Niente di tutto questo, tuttavia, poteva aiutare gli scienziati a capire l'origine della vita, però adesso potevano osservare chiaramente il problema. Sia Pasteur sia Darwin descrissero l'origine come un unico atto di abiogenesi: la prima forma di vita è emersa dalla materia inanimata, e questo è accaduto solo una volta. Per Pasteur era opera di Dio, mentre Darwin la attribuiva a una «piccola pozza calda», come scrisse in una lettera nel 1871.

Considerato il contesto, dunque, non c'è da meravigliarsi che Huxley pensasse di avere tra le mani qualcosa di grosso. Anzi, chiamò la scoperta Bathybius haeckelii, in onore del biologo tedesco Ernst Haeckel, il quale aveva da poco teorizzato che tutta la vita discendesse da un brodo primordiale che aveva chiamato Urschleim. Huxley era infatti convinto di avere trovato lui l' Urschleim, e la sua "scoperta" contribuì a destinare la HMS Challenger a un'esplorazione sistematica delle profondità degli oceani del mondo. Ma sul fondo dei mari non venne trovata alcuna traccia di Bathybius haeckelii, o Urschleim, e il chimico a bordo della nave scoprì che la curiosa sostanza di Huxley era semplicemente un precipitato chimico (un solfato di calcio idrato). Nel 1875 Huxley fu quindi costretto a riconoscere il proprio errore.

Ad ogni modo, la caccia alle origini della vita non è mai cessata, nemmeno dopo l'errore di Huxley. Il ventesimo secolo ha prodotto la sua dose di pietre miliari e importanti scoperte, anche se a volte sembravano soltanto una riproduzione di quelle del diciannovesimo ma a livello molecolare: germi e microbi sono stati sostituiti con le molecole della vita, ma il mistero non è mai stato svelato.

Nel 1953 Stanley Miller, lavorando nel laboratorio di Harold Urey, dimostrò che gli amminoacidi, i "mattoncini" di tutte le proteine, e i composti proteici che Darwin riteneva si fossero formati chimicamente in una «piccola pozza calda», potevano essere sintetizzati in un matraccio contenente ammoniaca, metano, acqua e una scarica elettrica. Un ottimo primo passo! Inoltre, nello stesso anno Watson e Crick risolsero la struttura della molecola del DNA. È stato il grande momento di tutta la biologia del ventesimo secolo, ma non si può dire altrettanto della ricerca sull'origine della vita: come poteva coniugarsi la vita primitiva con una molecola così complessa?

Poi venne un dono dal cielo, letteralmente: il meteorite Murchison, caduto in Australia nel settembre del 1969. Una rapida analisi di questo materiale primitivo e non trasformato, risalente all'inizio della storia del sistema solare, portò alla luce una ricca serie di molecole organiche e molti amminoacidi, non così diversi da quelli sintetizzati negli esperimenti di Miller e Urey.

Si trattava di un materiale roccioso che non aveva mai fatto parte di un grande pianeta o di un asteroide, ma di un pezzo abbastanza grande da essersi scaldato quel tanto che basta per avere avuto al suo interno, anche solo per un breve periodo, acqua allo stato liquido, e quel materiale primitivo aveva prodotto i mattoni delle proteine attraverso un processo puramente chimico. Studi compiuti nel 2008 e nel 2010 hanno rivelato circa quattordicimila differenti composti organici, tra cui due basi azotate.

Per quanto emozionanti, tali scoperte non rispondono alla nostra grande domanda. La vera origine della vita sulla Terra è ancora un mistero, e tale potrebbe rimanere. Dopotutto è una questione storica che richiede la conoscenza di ambienti non conservati nelle testimonianze geologiche della Terra. Da una prospettiva più generale, relativa ai possibili percorsi dalla chimica alla vita, il problema sembra invece alla portata della scienza di oggi.

L'astronomia e la caccia ai pianeti extrasolari, quelli che orbitano intorno ad altre stelle, offrono un metodo per affrontare la questione. Osservare altri pianeti simili alla Terra, infatti, ci permette di fare indagini sullo stato del nostro pianeta quando la vita non aveva ancora avuto origine. Questo approccio ha avuto un enorme successo in astronomia. Studiamo stelle per procura, arrivando a "conoscere" il nostro Sole nel tempo attraverso l'osservazione di stelle simili in altre fasi del loro ciclo vitale.

Siamo così in grado, in un certo senso, di rispondere alle domande di carattere generale sulle origini della vita, su che cos'è e su come gli ambienti ne determinino la comparsa semplicemente domandandoci: c'è vita su altri pianeti? Ci sono più stelle nell'universo che granelli di sabbia in tutte le spiagge della Terra. E ci sono almeno tanti pianeti quante sono le stelle. Se solo un 1 per cento fosse come la Terra, questo renderebbe inevitabile la vita su uno di tali pianeti?

L'astronomia ha sempre avuto a che fare con i grandi numeri – numeri astronomici, per l'appunto –, e l'esperienza ci ha insegnato che non garantiscono l'inevitabilità. Dobbiamo andare a scoprirlo di persona. Tuttavia, sembra probabile che su alcuni di questi pianeti simili alla Terra si possano trovare segni di vita. Una volta scoperta una nuova Terra – un pianeta che potremmo chiamare casa – la questione della pluralità dei mondi diventerà fondamentale, ricordandoci ancora una volta che non siamo al centro dell'universo.

La rivoluzione copernicana, che ha posto il Sole, e non la Terra, al centro del nostro sistema di pianeti, aveva cominciato a farlo, dando così il via alla scienza moderna e alla tecnologia. Oggi due imprese ci hanno portato sulla soglia del completamento della rivoluzione copernicana: una è la scoperta di una nuova Terra, l'altra è l'era della biologia sintetica. Queste due pietre miliari ci stanno insegnando cose sul nostro posto nell'universo che non avremmo mai potuto immaginare.

Volete un posto in prima fila per assistere a questi eventi? Salite a bordo, stiamo per partire.

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Pagina 81

Capitolo 6

Super-Terre

Le rocce più dure nell'universo


La caccia alle rocce è divertente: procuratevi un martello, uno scalpello e un manuale, poi andate verso le colline. Se sarete fortunati (e se persevererete), troverete qualche bel campione per la vostra collezione sul mantello, oppure un pezzo da esporre sulla libreria di casa.

Ci sono tantissime varietà di rocce sotto la superficie del pianeta, praticamente un'infinità. Se solo potessimo guardarvi attraverso, quali meraviglie scopriremmo? In realtà, se potessimo scendere in profondità all'interno della Terra, la varietà di minerali diminuirebbe drasticamente ad appena una manciata, poiché una di queste domina la maggior parte del corpo del nostro pianeta (il 40 per cento della sua massa): la perovskite.

Nonostante la sua abbondanza, la perovskite è stata notata e classificata dai geologi solo nel 1837. La sua ricerca fu avviata nel 1820, quando lo zar Nicola I di Russia, intenzionato a mappare le ricchezze inesplorate della Siberia, invitò l'esperto naturalista tedesco Alexander von Humboldt a guidare una spedizione in quella regione. Humboldt partì verso est nella primavera del 1829, prendendo con sé due assistenti. Esplorò i monti Urali e il mar Caspio, e raggiunse i monti Altai in Asia centrale, dove Cina, Russia e Mongolia convergono.

Humboldt raccontò di non essersi goduto granché il viaggio, sebbene a quanto pare sia stato un grande successo. Uno dei suoi assistenti era il geologo Gustav Rose. Tra i minerali che aveva estratto e portato con sé c'era un pesante pezzo di roccia scura, trovato nella regione degli Urali, vicino alla città di Zlatoust. Dato che non era stato ancora classificato, Rose si guadagnò il diritto di dargli un nome, così lo chiamò perovskite (originariamente, peroffskite), in onore di un geologo russo, il conte Lev AlexeeviČ von Perovski, che aveva ospitato la spedizione a Mosca. Ma Gustav Rose non sapeva di avere scoperto il minerale più abbondante sulla Terra!

Le rocce sono aggregati di uno o più minerali. I minerali sono solidi inorganici con una composizione chimica definita. Si va da un unico elemento (per esempio l'oro) a silicati molto complessi. Sui pianeti i minerali predominanti sono ossidi, in cui uno o più atomi di ossigeno sono legati a silicio, ferro, magnesio, alluminio e così via. Quindi la silice, nota anche come quarzo, consiste di un atomo di silicio e due atomi di ossigeno. Nei silicati più comuni nelle rocce, di solito un atomo di silicio è circondato da numerosi atomi di ossigeno. In base a come gli atomi si dispongono in schemi regolari ripetuti, è possibile trovare diverse strutture cristalline.

La perovskite scoperta da Gustav Rose in Russia era un ossido di titanio e di calcio. Vi è un folto gruppo di minerali (noto come gruppo della perovskite) che condivide la stessa struttura cristallina di un ottaedro di silicio o titanio legato a sei atomi di ossigeno. Anche se Rose scoprì per prima una perovskite di titanio, il mantello inferiore della Terra è quasi interamente formato, in termini di volume, da perovskite di silicio.

Le perovskiti contengono come oligoelementi metalli delle terre rare (come il lantanio, il neodimio e il niobio). Le perovskiti sono ben note ai fisici come superconduttori ad alta temperatura, come venne scoperto nel 1986 da Alex Müller e Georg Bednorz. Tuttavia, la maggior parte delle persone non ne ha mai sentito parlare, e raramente sono nominate nelle guide divulgative su rocce e minerali (più comune è un minerale chiamato enstatite, simile alla perovskite, che si trova in una varietà di rocce). L'importanza non porta necessariamente alla fama.

Di fatto la perovskite, e in particolare il modo in cui si comporta a pressioni elevate, è molto importante per lo studio delle super-Terre, e costituisce il collegamento tra il nostro e gli altri pianeti. La svolta avvenne nel 2004, quando fu finalmente spiegato un annoso mistero sull'interno della Terra. I sismologi e altri scienziati avevano notato che un sottile strato sul fondo del mantello, appena al di sopra del confine tra nucleo e mantello, aveva un effetto imprevisto sul comportamento delle onde sismiche che vi si propagavano attraverso. Questo strato, noto come D", ha uno spessore di soli centocinquanta chilometri, e nessuno sapeva come modellizzarlo, né perché influisse in quel modo sulle onde sismiche. Una combinazione di esperimenti ad alta pressione condotti da Murukami e di calcoli teorici eseguiti da Artem Oganov e Shota Ono permise di scoprire il colpevole: la perovskite sottoposta a elevatissime pressioni. A quella profondità, dove la pressione supera il milione di atmosfere, la struttura molto compatta della perovskite si deforma in una struttura a strati nanometrici, una nuova fase chiamata post-perovskite.

Come abbiamo detto, questo strato è molto piccolo sul nostro pianeta, ma risulta essere la componente principale di una super-Terra! Per qualsiasi super-Terra di circa 2 Mt o anche più, la pressione all'interno della maggior parte del mantello supera i tre milioni di atmosfere, quindi le super-Terre, rocciose o oceaniche, sono pianeti di post-perovskite.

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Pagina 89

Capitolo 7

La scala della vita


Shakespeare ha scritto che tutto il mondo è un palcoscenico, e tutti gli uomini e le donne non sono altro che attori. Per parafrasare Shakespeare, gli scienziati recitano una parte di cui non conoscono il copione (se mai ne esiste uno) senza sapere se un pubblico li sta effettivamente guardando. E il loro palcoscenico non è certo a misura d'uomo. È troppo grande, anche per gli standard delle fiabe. Eppure noi umani siamo piccole, curiose creature che possiedono la ragione e uno spirito in grado di misurarsi con la vastità del mondo.

Quando ero al liceo avevo un piccolo telescopio. Mio padre mi aveva mostrato come usarlo soprattutto durante il giorno, ma di notte passavo ore da solo nel cortile. Il posto in cui sono cresciuto era piccolo, a scuola non c'era né un osservatorio né un telescopio, e neppure un planetario da visitare nelle vicinanze. Quindi non avevo quasi idea di che cosa avrei visto attraverso il mio piccolo telescopio. Certo, avevo letto dei libri, e alcuni avevano le fotografie, ma vedere il cielo e le stelle in quel modo era tutta un'altra cosa. Era un'esperienza viscerale: ogni volta che puntavo il telescopio verso un gruppo di stelle, i brividi mi correvano lungo la schiena. Oggi quella sensazione non la provo più, ma la ricordo ancora. Guardando il buio tra le stelle mi sembrava di potervi cadere dentro. Era come una paura delle altezze al contrario, una specie di vertigine dal basso.

Forse avevo letto qualche libro di troppo e la mia immaginazione galoppava. Dopotutto, in quei libri avevo conosciuto la vastità dello spazio vuoto tra le stelle. Ma se avessimo un'idea di quanto è grande l'universo, i brividi lungo la schiena li avremmo costantemente. Per rimanere sani di mente gli astronomi usano la matematica, tonnellate di matematica, e questo può rovinare anche la migliore delle feste. Scherzi a parte, però, questo è un modo per affrontare il problema. Fin dai tempi di Eratostene, che all'epoca dell'antica Grecia calcolò le dimensioni della Terra, gli esseri umani usano la matematica (e la geometria) per misurare l'universo. Quasi sempre le nuove conoscenze aumentano la nostra sensazione di meraviglia, e molti scienziati (io sono uno di loro) vi diranno che questo è il motivo per cui fanno quello che fanno.

Ironia della sorte, questa vastità, così poco idonea alla nostra piccola scala, può essere essenziale per l'emergere e il conservarsi della vita. Cerchiamo quindi di esplorarne una porzione. D'ora in poi userò spesso la parola scala, che indica l'estensione o la dimensione relativa di qualcosa, spazio o tempo che sia. Per il tempo userò, nello specifico, l'espressione scala temporale. Ma iniziamo dallo spazio.

Viviamo in una galassia, la Via Lattea: un'"isola" di stelle e gas che turbinano nei bracci a spirale intorno a un centro. L'universo, come abbiamo visto attraverso i telescopi, è pieno di galassie. La stima attuale è almeno duecento miliardi.

Nelle mie prodezze notturne con il telescopio quando ero studente alle superiori cercavo di individuare anche altre galassie. Era una sfida, dato che per vedere la maggior parte delle galassie ci vuole un cielo buio e sereno, nonché un telescopio piuttosto potente. Ma ce n'è una che può essere vista anche a occhio nudo, e a differenza della maggior parte delle altre ha già un nome: Andromeda. Se vivete a nord dell'equatore, potete provare a vederla: è una debole macchia nebulosa nella costellazione di Andromeda; sorge a est nelle notti di fine estate ed è alta nel cielo nelle serate d'autunno e d'inverno. Consiglio davvero di provare a vederla, perché è di gran lunga l'oggetto più distante che un essere umano possa vedere a occhio nudo. La galassia di Andromeda è a due milioni e mezzo di anni luce da noi, e circa diecimila volte più lontana di gran parte delle stelle che vediamo di notte.

La galassia di Andromeda è molto simile alla Via Lattea. Come la nostra galassia, è un disco piatto di stelle e gas, perlopiù raggruppati nei bracci a spirale, ed è all'incirca della stessa dimensione. Se la notte è scura e il cielo limpido, potrete notare che la "macchia" della galassia di Andromeda appare come un'ellisse allungata, poiché il suo disco è orientato lateralmente rispetto a noi.

In generale, le galassie sono piuttosto vicine tra loro, e volendo potremmo anche improvvisare un modello in scala dello spazio intorno alla Via Lattea nel salotto di casa nostra. Se la nostra galassia fosse un piatto, quella di Andromeda sarebbe un altro piatto a circa tre metri e mezzo di distanza, e la galassia Triangolo (un'altra galassia vicina, nota come M33) sarebbe un insalatiera a circa tre metri dalla Via Lattea, e un po' di lato rispetto ad Andromeda. Una dozzina di cioccolatini M&M's potrebbe inoltre rappresentare la moltitudine di galassie nane satellite. Questa è una situazione comune nel nostro universo, dove le galassie sono separate le une dalle altre da distanze paragonabili alle loro stesse dimensioni. Possiamo riscontrarlo in qualunque direzione guardiamo: la distanza tra le galassie è appena sufficiente perché non si disturbino troppo l'una con l'altra.

Il quadro cambia radicalmente nel mondo delle stelle, e poi di nuovo nel mondo dei pianeti. Non si può costruire in salotto un modello in scala dello spazio intorno al Sole, perché le stelle sono insignificanti rispetto alle distanze che le separano. Se per la galassia il rapporto tra grandezza e distanza varia fra 1:50 e 1:10 (M&M's e piatti, per intenderci), nel caso delle stelle il rapporto è di oltre 1:100.000.000 (come paragonare gli esseri umani agli atomi). Anche nel caso dei pianeti il rapporto è enorme, sebbene non come per le stelle. Così è il mondo!

Ma tutto questo è rilevante per la vita?

Una risposta potrebbe essere no. Semplicemente, è capitato che le scale sono diverse, tutto qui. O forse non è così. La vita è un sistema, un sistema chimico che, almeno per come lo conosciamo, sembra funzionare solo su piccola scala. Non sappiamo che cosa sia la vita, ma sappiamo quali sono le sue funzioni di base. C'è qualcosa di speciale nella scala occupata dalla vita, tale da garantire un ambiente stabile che favorisce lo sviluppo di queste funzioni. Cerchiamo di capire meglio questo punto tornando al quadro generale.

Nell'universo le galassie si muovono, l'una rispetto all'altra, a una velocità di circa cinquecento chilometri al secondo. Le stelle si muovono sulle loro orbite galattiche a velocità simili, e un po' più lentamente l'una rispetto all'altra (per esempio, da cinquanta a duecento chilometri al secondo). Sono velocità da capogiro per la nostra esperienza quotidiana: una pallottola, per esempio, è cento volte più lenta.

Ecco il problema: queste velocità sono tuttavia minuscole per le distanze tra le galassie. La galassia di Andromeda si avvicina alla nostra a quattrocento chilometri al secondo, ma serviranno tre miliardi di anni perché sia davvero vicina (e in effetti potrebbe anche scontrarsi con noi). Ma non è così per le stelle! A simili velocità, se le stelle avessero dimensioni comparabili alle distanze che le separano si scontrerebbero in continuazione l'una con l'altra, per non parlare della sorte di eventuali pianeti orbitanti.

Fortunatamente, però, le stelle non si trovano su quelle scale, e le collisioni sono estremamente rare. Anche se fra tre miliardi di anni la galassia di Andromeda si schiantasse sulla Via Lattea, le stelle non si scontrerebbero. Le stelle di Andromeda scivolerebbero fra le stelle della Via Lattea, e tutte finirebbero per mescolarsi e fondere le loro orbite in una nuova, unica galassia.

Quindi, su una scala galattica vi è una relativa stabilità, che è importante per la vita. Ma la stabilità è sufficiente? Dopotutto, ciò che è abbastanza stabile per un microbo potrebbe essere caos e distruzione per un dinosauro.

Questo problema ricorda la famosa domanda posta da Erwin Schrödinger nel 1944: perché la vita è così grande rispetto all'atomo? Da parte mia, pongo la domanda opposta: perché la vita è così piccola rispetto a un pianeta? Per rispondere alla sua prima domanda Schrödinger sottolineò che le unità di base della vita sono grandi complessi chimici di atomi, molecole di grandi dimensioni. Grandi molecole e rispettive reazioni chimiche sono al centro di ogni processo legato alla vita. Immagazzinano e liberano energia, veicolano le informazioni che possono essere ereditate, e si assemblano in filamenti, pareti e altre strutture ancora.

Schrödinger ha anche sottolineato che la piccola scala dell'atomo, un mondo descritto dalle regole della meccanica quantistica, è in continua trasformazione e non perfettamente prevedibile (anzi, è decisamente caotico). E Schrödinger lo sapeva bene, poiché è stato uno dei giganti della scienza che ha contribuito a sviluppare la meccanica quantistica, e a dimostrare come questa sia molto diversa dalla meccanica classica elaborata tre secoli prima da Isaac Newton. La meccanica classica fornisce le regole per la grande scala e i grandi oggetti: stelle e pianeti, le loro orbite, ponti, auto, motori e così via. La vita è abbastanza grande da adattarsi al regno della meccanica classica, e lo sono anche le sue unità di base, ovvero le molecole di grandi dimensioni.

Per rispondere alla sua domanda, Schrödinger ipotizzò che le molecole della vita e le cellule fossero appena abbastanza grandi da evitare le imprevedibili e distruttive stravaganze della scala degli atomi, cioè del mondo della fisica quantistica. Allo stesso tempo la vita beneficia della ricchezza dei legami chimici, che è il segno distintivo della scala atomica. Dal mio punto di vista, le molecole complesse e le reti chimiche della vita evitano la distruttività violenta dell'universo abitando una scala abbastanza piccola da consentire molti ambienti stabili.

Sembra dunque che la scala abitata dalla vita abbia qualità speciali. Facendo un rapido giro attraverso le scale spaziali dell'universo possiamo osservare cose curiose. Le galassie si muovono lentamente, come tartarughe giganti; le loro stelle ronzano come api; i pianeti che orbitano intorno alle stelle si muovono ancora più velocemente, e così via fino a raggiungere le dimensioni del microcosmo, il mondo quantistico di atomi ed elettroni. Quanto più piccola è la scala, tanto più pazzo sembra il mondo. In effetti è pazzo, e la fisica moderna ha una buona spiegazione al riguardo. Per semplificare: le cose grandi si muovono lentamente, le cose piccole si muovono più velocemente. Basti pensare a un camion e a una moto al semaforo quando scatta il verde. Ricordate che massa e velocità si combinano per dare l'energia, e l'energia si conserva. Se la massa aumenta, la velocità diminuisce. C'è un ordine in tutto questo, dopotutto.

Alla scala della vita, però, c'è qualcosa di più di una semplice profusione di ambienti stabili. Per capire le particolari qualità della scala della vita dobbiamo prima conoscere la materia non vivente.

La scala atomica e gli atomi sono i "mattoni" fondamentali della materia ordinaria, come già avevano ipotizzato gli antichi greci. Noi continuiamo a pensare che sia così, almeno per i puri elementi della tavola periodica, come carbonio, ferro o oro, anche se ci rendiamo conto che la materia ordinaria è fatta di composti di atomi. Il ventesimo secolo, tuttavia, ha rivelato che in realtà la materia ordinaria è composta di particelle ancora più piccole, le cosiddette particelle fondamentali, o elementari, che si dividono in tre famiglie di quattro particelle (e antiparticelle) ciascuna. Le più comuni sono le particelle leggere della prima famiglia: l'elettrone, il quark up, il quark down e il piccolo neutrino elettronico.

Voi, io, il nostro pianeta e la nostra stella siamo tutti fatti di queste particelle, e in particolare di elettroni, quark up e quark down. I due tipi di quark formano i protoni (due up e un down) e i neutroni (due down e un up), che si combinano per formare il nucleo di un atomo e l'identità chimica di un dato elemento. I leggeri elettroni orbitano intorno al nucleo e permettono agli atomi di legarsi in molecole. Il nucleo dell'atomo è dove risiede la massa, e gli elettroni intorno a questa sono così leggeri da risultare pressoché irrilevanti, ma rendono possibile la chimica. Quando cuciniamo stiamo dunque giocando con gli elettroni, rompendo e riformando legami chimici. Se mangiare si traduce in aumento di peso, è perché sono stati aggiunti più quark nel nostro corpo.

Ma questo non è ancora tutto. Non possiamo dimenticare le forze fondamentali. Una particella può influire su un'altra: per esempio, il protone positivo di un atomo di idrogeno mantiene in orbita un elettrone negativo. Un pezzo di materia può influenzare un altro pezzo di materia per mezzo di queste forze. Ci sono quattro forze fondamentali: la forza gravitazionale, la forza elettromagnetica, la forza forte e la forza debole. Le nostre vite quotidiane, e quasi tutti gli oggetti, sono interessate esclusivamente dalle prime due. La gravità, che noi sperimentiamo come peso, ci tiene a terra; e l'elettromagnetismo ci consente, grazie all'attrito, di muoverci tra le altre cose. Una caratteristica comune a tutte le forze è che possono essere rappresentate da una particella associata (di solito priva di massa a riposo) che contiene il più piccolo quanto, o pacchetto, di forza. La particella della forza elettromagnetica è chiamata fotone. Noi sperimentiamo i fotoni, per esempio, come luce o calore radiante, oppure li "usiamo" per le nostre conversazioni telefoniche al cellulare. La particella della forza gravitazionale è chiamata gravitone. Tutte queste particelle hanno proprietà ondulatorie, come peraltro tutte le particelle elementari, compresi elettroni, protoni e neutroni.

Ora consideriamo le scale molto più grandi, quelle di galassie, stelle e sistemi planetari. Si tratta di un mondo governato dalla sola forza di gravità. Non vi è alcun attrito, né altra manifestazione della forza elettromagnetica abbastanza forte da rallentare o deviare le stelle e i pianeti dal loro percorso, e i legami chimici essenziali per la vita non si manifestano. All'estremità opposta c'è una scala molto più piccola, la nostra scala quantistica. Qui è la forza di gravità a non avere alcuna influenza: le singole particelle hanno una massa così piccola che a governare sono solo le forze elettromagnetiche. A entrambe le scale, molto grande e molto piccola, non c'è posto per la vita. La scala cosmica è inondata di radiazioni e oltre il punto di congelamento, e questo si scontra con tutto ciò che dipende dall'elettromagnetismo per la coesione. Alla scala più piccola tutto si muove così velocemente e imprevedibilmente da non offrire alcuna possibilità a una cosa ordinata come la vita. La vita esiste sulla Terra a una confacente scala intermedia che possiamo chiamare scala delle grandi molecole. La sua gamma inizia poco al di sopra della scala quantica (10^-9 metri) e termina vicino a casa (10^-5 metri).

La scala delle grandi molecole è la vera dimensione della vita come noi la conosciamo. Tutti i processi essenziali per la vita, il trasporto molecolare delle informazioni e la maggior parte degli organismi viventi (i microbi) vi si adattano perfettamente (vedi figura 7.1 a p. 99). La stessa scala della vita si adatta bene a un pianeta. Senza contare le grandi piante e gli animali che hanno superato le dimensioni molecolari, e che sono uno sviluppo recente.

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Capitolo 8

Origini della vita

Perché i pianeti?


Durante il Medioevo, quando ogni continente era un mondo a sé, le persone prendevano in seria considerazione la possibilità di origini molteplici. E durante il Rinascimento, quando la Terra era ormai un pianeta tra gli altri, le persone prendevano altrettanto seriamente la possibilità di molteplici origini della vita su altri pianeti, compresa la Luna.

Rispolvero dunque una vecchia domanda, per rivisitarla alla luce delle nuove prove sui mondi scoperti di recente e su quello che occorre alla vita per emergere e resistere in uno di questi. Ad alcune di tali prove ho accennato in precedenza, ma qui ho intenzione di tirare le fila per sostenere che, affinché la vita emerga, deve "accadere" sui pianeti.

Facciamo allora un passo indietro e pensiamo alla prospettiva cosmica. Perché i pianeti? Non ci sono altri luoghi dell'universo che potrebbero essere adatti alla vita? Ecco una ricetta per rispondere a queste domande: prendiamo ciò che sappiamo degli altri luoghi dell'universo, mescoliamolo con quello che sappiamo della vita e vediamo se viene fuori qualcosa di utile. Il primo ingrediente è facile da trovare. Nel corso degli ultimi cinquant'anni gli astronomi hanno rivoluzionato la nostra conoscenza dell'universo osservabile, arrivando persino a compilare un censimento abbastanza completo di ciò che contiene: molte galassie, ancora più stelle e un elenco di pianeti che cresce praticamente di giorno in giorno. Quello che sappiamo della vita è la parte difficile, perché sappiamo molto e poco allo stesso tempo. Gli scienziati hanno rivoluzionato la nostra comprensione degli elementi costitutivi e della sorprendente interconnessione tra forme viventi, che sono parti di un sistema e formano reti, e in tutto questo c'è qualcosa di essenziale ma sfuggente.

Inizierò con la parte più difficile, elencando ciò che sappiamo della vita. Non una definizione di vita, ma solo alcuni suoi attributi essenziali4:

1. La vita è essenzialmente chimica.

2. La vita è un sistema non in equilibrio.

3. La vita è adattativa e auto-ottimizzante.

4. La vita è compartimentata: ha bisogno di cellule, recinzioni, vescicole.

5. La vita utilizza molecole adatte all'acqua.


La lista è abbastanza facile da compilare. La parte difficile è capire che cosa potrebbe mancare, poiché tutto ciò che sappiamo sulla vita proviene da un unico esempio: la vita sulla Terra. Curiosamente, ciascuno dei cinque elementi presi separatamente può descrivere un sistema non vivente; la vita sembra avere bisogno di tutti e cinque contemporaneamente.

Il primo attributo è ovvio, ma è utile per il quadro generale, perché è un assoluto per qualunque origine della vita nel nostro universo. Non c'è altra forma di materia o sistema in grado di reggere reti ordinate; i legami chimici possono fare miracoli in condizioni naturali. Non possiamo escludere che forme di vita esistenti possano sviluppare un sistema (o svilupparsi in un sistema) che non si basi su molecole, ma non è questa la domanda che mi sto ponendo. Ciò che mi interessa è il processo che fa emergere la vita e gli ambienti che lo favoriscono, cioè la transizione cosmica dalla chimica alla vita.

Qualcuno (per esempio, Hans Moravec, Ray Kurzweil e Steven Dick) ha descritto forme di vita non molecolari (non biologiche), ma sempre come derivati o evoluzioni di predecessori biologici, nonché basati, almeno in parte, su molecole e legami molecolari. Noi esseri umani possiamo creare reti ordinate di silicio, ma questo è il risultato della lunga storia dello sviluppo della tecnologia, non una condizione originaria di un pianeta senza vita.

I pianeti contribuiscono a rendere possibile tutto questo fornendo, con la loro massa e la loro atmosfera, uno schermo fisico contro le radiazioni dello spazio. Garantiscono una stabilità su una scala temporale mediamente più lunga dello sviluppo delle reti chimiche, cioè anni. Invece, le nubi molecolari interstellari (come ogni altra nube) non possono creare un macro o microambiente stabile o al sicuro dalla distruttiva radiazione cosmica su una simile scala temporale.

Anche il secondo attributo è un assoluto: un sistema in equilibrio è un sistema morto, in cui non accade nulla, e sappiamo che per compiere qualunque cosa serve energia. Per assemblare una rete ordinata, chimica o meno, c'è bisogno di energia. E occorre energia anche solo per mantenerla ordinata, per mantenere l'interno separato dall'esterno.

Il terzo attributo è quello più affascinante della vita sulla Terra, e probabilmente di ogni vita, che può adattarsi a cambiamenti sia veloci sia lenti. La genialità di Charles Darwin è stata quella di vedere l'essenza di tale proprietà, che in parte si basa sul processo attraverso il quale organismi nuovi e diversi si sviluppano in seguito a variazioni del materiale genetico. E infatti la chiamiamo evoluzione darwiniana in suo onore. La maggior parte degli scienziati la considera così importante da definire la vita attraverso di essa. Gerald Joyce dello Scripps Institute ha sintetizzato una proposta avanzata nel 1994 da un comitato della NASA in una breve e famosa definizione della vita come «sistema chimico autosufficiente capace di evoluzione darwiniana», a volte indicata come definizione NASA. Sebbene l'evoluzione darwiniana sia un modo ovvio per ottenere la diversità in risposta alle mutevoli condizioni ambientali e all'interazione con altre forme viventi, in verità non è l'unico.

L'alternativa è data da condizioni ambientali che permettano la creazione continua di forme di vita senza molecole ereditabili, ma ancora con variazioni casuali. La possibilità di una siffatta biochimica si basa quindi sull'esistenza di condizioni ambientali che consentano la continua sintesi di forme di vita.

L'evoluzione offre un meccanismo più semplice e diretto, ed è molto probabile che sia un attributo universale delle diverse origini della vita e delle relative biochimiche.

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Due fattori rendono le super-Terre più vivibili di un pianeta delle dimensioni del nostro. Prima di tutto, essendo più massicci riescono a conservare le loro atmosfere e a far evaporare l'acqua meglio di altri. Questo è molto importante per i pianeti che orbitano più vicino alla loro stella di quanto non faccia, per esempio, Marte rispetto al Sole. In secondo luogo, se sono super-Terre rocciose, l'attività della loro tettonica a placche è, secondo i nostri modelli teorici, altrettanto elevata di quella della Terra o addirittura superiore. Questo è importante per la vita e per le sue origini. Nel nostro sistema solare, Marte non ha mai avuto placche in movimento, e Venere sembra solo marginalmente in grado di spostare le proprie. Anche la nostra Terra ci riesce appena!

L'attività della tettonica a placche è quella che osserviamo sulla Terra come deriva dei continenti, e la moderna tecnologia GPS ci permette di misurare tale movimento. Ma perché è utile alla vita? La risposta, in poche parole, è stabilità e concentrazione chimica. Nel corso di miliardi di anni la Terra ha mantenuto stabile la sua temperatura di superficie. Gli oceani, per esempio, sono stati generalmente sempre liquidi. Lo sappiamo da prove geologiche, e sappiamo anche che il nostro Sole è diventato del 30 per cento più luminoso dal momento in cui si è formata la Terra.

La soluzione a questo apparente mistero sembra essere il ciclo geochimico globale. La Terra è una palla di grandi dimensioni che al suo interno è molto calda e bolle. In superficie questa energia muove l'insieme delle placche continentali e oceaniche. Il punto essenziale della tettonica a placche planetaria è lo scambio. La miscela fusa interna può scambiare elementi chimici con la superficie e l'atmosfera, e viceversa. In questo processo gli elementi non sono semplicemente riciclati, ma nelle loro trasformazioni e concentrazioni chimiche si scambiano energia in un ricco equilibrio dinamico. L'alternativa è l'equilibrio molto più povero di uno stato stazionario che, senza fonti di energia locali, si instaura all'interno e sulla superficie. Così la tettonica a placche rende un pianeta dinamico, in continuo rinnovamento e vitale. Come hanno stabilito Ward e Brownlee, la tettonica a placche promuove la complessità ambientale. Lo scambio, inoltre, avviene attraverso cicli globali.

Il più noto e importante ciclo globale del pianeta è il ciclo carbonato-silicato (vedi figura 10.2). Il ciclo ha inizio con il CO2 che i vulcani immettono nell'atmosfera, dove viene assorbito dalle gocce d'acqua. Piovendo sulla superficie, l'acqua ricca di carbonio erode le rocce e il suolo facilitando il passaggio del carbonio negli oceani, dove va a depositarsi sotto forma di rocce ricche di carbonio come il calcare. L'attività tettonica delle placche riporta poi il carbonio sotto la crosta terrestre, dove viene fuso, mescolato e nuovamente riciclato nell'atmosfera attraverso i vulcani. Come abbiamo visto nel capitolo precedente, tale ciclo è importante per l'esistenza dell'atmosfera sul nostro pianeta, ma non solo per questo: infatti agisce anche come un termostato, perché il CO2 è un gas serra e il suo ciclo ha integrato in sé un meccanismo di retroazione che riporta la temperatura della Terra a una media normale (vedi figura 10.3).

Un gas serra permette ai raggi solari di filtrare e scaldare la superficie terrestre e aiuta a mantenerla calda, come una coperta. Il vapore acqueo e il metano sono altri diffusi gas serra. Se la temperatura della superficie terrestre aumenta leggermente, il contenuto di CO2 nell'atmosfera tende a diminuire perché il gas si dissolve nell'abbondanza d'acqua dovuta alla maggiore evaporazione, mentre la pioggia lo porta sulla superficie accelerando l'erosione e la deposizione nelle rocce oceaniche.

La minore quantità di CO2 nell'atmosfera a questo punto indebolisce l'effetto serra e fa abbassare la temperatura della superficie terrestre. Quando questa si riduce, però, il contenuto di CO2 nell'atmosfera tende nuovamente ad aumentare perché c'è meno pioggia. A sua volta l'aumento di CO2 favorisce il riscaldamento da effetto serra e riporta la temperatura della Terra alla normalità. Un termostato perfetto!

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Guardando con più attenzione a ciò che accadeva, abbiamo riscontrato un terzo effetto che fa la differenza: la temperatura più elevata impedisce alle super-Terre di far crescere una crosta spessa. Così alla fine abbiamo ottenuto un risultato molto solido, e valido per tutte le super-Terre: la diminuzione dello spessore della crosta e l'aumento della pressione del flusso del mantello agiscono per produrre una vigorosa e "sana" attività della tettonica a placche.

Confrontando la Terra con i modelli teorici di super-Terre di diverse dimensioni riscontriamo una ricca diversità di condizioni planetarie stabili simili a quelle della Terra. Infatti troviamo una famiglia di pianeti, definita solo attraverso la massa, l'attività tettonica e la stabilità a lungo termine della temperatura, che solo per poco comprende la Terra. Essendo più piccola, la Terra è più vulnerabile a un gran numero di incidenti cosmici. Nonostante i favoritismi per il nostro pianeta, in questa famiglia la Terra non è certo il figlio prediletto! Suppongo che questo faccia male allo sciovinismo terrestre, ma è una grande notizia per la vita nell'universo, che a quanto pare dispone di molti luoghi in cui proliferare.

La domanda che ora abbiamo di fronte è: che cosa ci dice l'attuale censimento dei pianeti? Quanto può essere grande la famiglia della vita?

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Se pensiamo alla storia della vita rapportandoci non al nostro calendario ma ai tempi della vita stessa, alcuni fatti importanti diventano scontati. Per esempio, la vita è esistita e si è sviluppata sulla Terra per un periodo (circa quattro miliardi di anni) paragonabile all'età dell'universo (circa quattordici miliardi di anni). Questo è molto significativo, o come dicono gli scienziati, non banale. Ci dice che la nascita e lo sviluppo della vita sono processi confrontabili con quelli di formazione e sviluppo dei pianeti, delle stelle e persino delle galassie. In un certo senso, fa apparire la vita come un "normale" processo cosmico.

D'altro canto, non potremmo dire lo stesso dell'umanità, perché le scale temporali non sono paragonabili. I più antichi resti umani conosciuti (del genere Homo) risalgono a circa due milioni di anni fa. Ciò che rende l'uomo diverso, ovvero il linguaggio e la tecnologia, è molto più recente, essendo emerso probabilmente solo quarantamila anni fa.

La disparità tra le due scale temporali, quella umana e quella cosmica, è notevole. Il rapporto tra la storia della vita sulla Terra e la storia degli esseri umani moderni, per esempio, è di 100.000:1. Anche questo è molto importante, perché ci dice una di queste due cose: 1) il processo molto breve (lo sviluppo della società umana) che è emerso dal processo molto lungo (lo sviluppo della vita sulla Terra) non è paragonabile al processo di sviluppo del pianeta; 2) siamo molto fortunati a essere all'inizio di un nuovo processo, peraltro di breve durata. Questa seconda opzione ci suggerisce anche che abbiamo poca capacità di previsione.

Nella scienza la capacità di previsione è importante perché spesso è indice di una solida comprensione di quello che sta accadendo. Poiché comprendiamo le leggi della gravità, siamo in grado di predire la futura posizione della Luna nella sua orbita, e quindi di lanciare un razzo e atterrarvi sopra proprio come previsto. La seconda opzione è anche uno sfortunato avvertimento: comparare le scale temporali ha i suoi limiti.

D'altra parte, la prima opzione è piuttosto allettante! Ci dice che un processo planetario (la vita stessa) era necessariamente portato a sviluppare una forma di vita (l'uomo) in grado di trascendere la scala temporale planetaria, e che la vita potrebbe essere un fenomeno cosmico che si sviluppa sui pianeti su scale temporali planetarie, ma porta a forme che non coevolvono più con i pianeti, i quali diventano indipendenti da quella scala per crearsi la propria, lungo la quale si evolvono o almeno cambiano i loro ambienti. Tuttavia, per arrivare a quel livello il processo richiede molto tempo. La seconda opzione suggerisce che la vita simile a quella umana sia parte della scala temporale dei pianeti e ne rappresenti la fase finale, ma che possa non durare abbastanza a lungo da realizzare il proprio potenziale cosmico.

[...]

La gerarchia delle scale temporali che coinvolgono la vita è molto interessante, e si intreccia con la scala spaziale della vita. La scala delle grandi molecole, come abbiamo visto, è in media di 10^-7 metri, e la reazione chimica di replicazione di un'unità di DNA dura circa 10^-3 secondi. È troppo rispetto a quanto possono fare gli atomi nel loro piccolo volume di 10^-7 metri, ma è estremamente poco rispetto a qualsiasi processo planetario. Questo significa che la vita come processo (o somma di processi) avrà il tempo per adattarsi, cooperare o semplicemente sopravvivere a qualunque cosa accada sulla più lunga scala temporale geologica, come per esempio le oscillazioni della temperatura globale o la ridisposizione dei continenti.

Ma una reazione chimica è una reazione chimica, e un processo geochimico planetario è spesso la semplice somma della miriade di reazioni chimiche che vi soggiacciono. Quindi tutte le singole reazioni geochimiche mostrano di avere una scala temporale analoga (breve) a quella delle reazioni biochimiche che compongono i processi della vita.

Ma allora come hanno potuto i processi della vita innalzarsi al di sopra della chimica distruttiva dell'ambiente planetario? Se richiedono lo stesso tempo per creare tali reazioni, dovrebbe vincere la chimica ordinaria. Affinché prevalga la vita e la sua biochimica, le loro scale temporali dovrebbero essere più brevi. La vita sulla Terra è competitiva grazie a due trucchi: uno è quello di ottenere un aiuto da speciali molecole (i catalizzatori, di solito chiamati enzimi) per accelerare le reazioni, l'altro è "prendere nota" di ciò che viene fatto. In altre parole, la biochimica è fatta di sequenze di reazioni che fanno qualcosa molto bene e velocemente (come immagazzinare e rilasciare energia, formare un involucro, ecc.). Inoltre, una speciale molecola registra le sequenze ordinate in modo che non debbano essere reinventate ogni volta. Conosciamo queste molecole, le abbiamo tutti: sono il DNA e l'RNA.

[...]

La velocità limitata della luce è una grande macchina del tempo, e gli astronomi dirigono i loro telescopi su oggetti molto distanti per arrivare a vedere come apparivano nel passato. Così, guardando il cielo del passato, osserviamo un'epoca che risale a circa 13,7 miliardi di anni fa, quando l'intero l'universo osservabile era fatto di un caldo gas di idrogeno ed elio con piccolissime tracce di litio. Non esisteva ancora nessuno dei familiari oggetti del nostro cielo notturno (galassie, stelle, pianeti). Cosa ancora più importante, non esistevano neppure altri elementi chimici.

Gli astronomi possono osservare direttamente quell'era utilizzando un sensibile dispositivo di misurazione del calore che permette loro di rilevare la radiazione cosmica di fondo, o CMB (cosmic microwave background). La CMB è il residuo della luce rilasciata quando si è formato l'intero stock di idrogeno dell'universo a partire dalle precedenti particelle super-energetiche che si sono combinate in atomi. Ci sono voluti solo ventimila anni perché questo avvenisse e fosse rilasciata quella luce. La maggior parte di tale luce ha viaggiato attraverso il nostro universo che si espandeva e raffreddava. Oggi è diluita e spostata verso lunghezze d'onda maggiori, così quella che era luce visibile si è trasformata in microonde e onde radio.

Temperatura, variazioni di temperatura e polarizzazione della CMB trasportano un tesoro di informazioni, un'impercettibile misura di come le onde CMB si sono intrecciate. Queste misurazioni sono molto impegnative, e solo negli ultimi dieci anni la tecnologia ha fatto sufficienti progressi da permettere questo tipo di studi, sia dalla Terra sia con missioni spaziali come COBE (Cosmic Background Explorer), WMAP (Wilkinson Microwave Anisotropy Probe) e Planck. Queste misurazioni dirette mostrano chiaramente che 13,7 miliardi di anni fa l'universo non possedeva alcun materiale per "costruire" la vita o anche solo i pianeti, ma solo idrogeno ed elio ad alta temperatura.

Prima di continuare con il resto della storia, devo affrontare la cronologia dei diversi eventi della storia iniziale dell'universo. L'età dell'universo è stimata in circa 13,7 ±0,1 miliardi anni, il che significa che dalle nostre misurazioni non sappiamo dire se l'età sia 13,6 miliardi di anni, 13,8 o qualsiasi valore intermedio a questi due. Tuttavia, alcuni eventi possono essere collocati temporalmente con maggiore precisione se misurati in termini relativi. Pertanto è stato più facile fare riferimento ai tempi dei diversi eventi partendo dal tempo zero (Big Bang). Per esempio, la CMB è stata rilasciata trecentosettantanovemila anni dopo il Big Bang. Questa del CMB è una misurazione, e l'affermazione precedente rimane vera indipendentemente dal fatto che l'età dell'universo (cioè l'istante del Big Bang) sia di 13,6, 13,7 o 13,8 miliardi di anni. In alternativa, se fissiamo il Big Bang a 13,7 miliardi di anni fa, questo stesso evento (la creazione di ciò che è diventata la CMB) si è verificato 13,6997 miliardi di anni fa.

Ma torniamo alla nostra storia. L'ovvia domanda a cui dobbiamo rispondere è: da dove vengono tutti i materiali da costruzione, cioè gli elementi chimici come il carbonio, l'ossigeno, il silicio e il ferro? La risposta è ben nota: sono arrivati tutti dopo, dalle stelle. Questo ci porta al prossimo evento importante nel nostro universo, la formazione delle prime stelle. Si tratta di qualcosa che ancora non riusciamo a vedere direttamente, anche se il successore del telescopio spaziale Hubble è stato costruito apposta per questo. Ad ogni modo, gli scienziati hanno già parecchie prove indirette di quanto è successo circa 13,1 miliardi di anni fa.

Le stelle, incluse le prime che si sono formate, sono oggetti molto particolari, se guardiamo al quadro generale. Si tratta di concentrazioni stabili e longeve di materia ordinaria, o barionica. Non c'è niente di strano in questo. La materia ordinaria si trova dappertutto nell'universo (che conta miliardi di galassie), in raggruppamenti grandi e piccoli che semplicemente stanno lì e non fanno niente, tranne quando alcuni vengono compressi dal loro stesso peso e formano le stelle. Si dà il caso che l'equilibrio tra forza di gravità e repulsione della materia si raggiunge all'interno della stella a temperature e densità che permettono ai nuclei atomici di idrogeno e di elio di fondere. Quando i nuclei atomici fondono si hanno due importanti conseguenze: viene rilasciata parecchia energia e si formano nuovi nuclei pesanti. È così che il nostro Sole splende.

[...]

La breve storia dell'universo, dunque, appare così: a partire dai soli idrogeno ed elio di circa tredici miliardi di anni fa, generazioni di stelle hanno prodotto abbastanza ferro e ossigeno, silicio, carbonio e tutti gli altri elementi da permettere la formazione di pianeti come le Terre e le super-Terre. Da questa storia si possono trarre almeno due importanti lezioni che riguardano la vita.

In primo luogo, c'è voluto molto tempo prima che le stelle di tutto l'universo potessero avere dei pianeti. Gli ambienti stabili di normali galassie sufficientemente arricchite da avere pianeti si sono rese disponibili circa nove miliardi di anni fa. Se cerchiamo grandi pianeti terrestri, come le Terre e le super-Terre rocciose, allora è più verosimile guardare a sette-otto miliardi di anni fa. Possiamo immaginare che la vita abbia dovuto attendere fino a quel momento nella storia dell'universo per emergere, se non ancora di più.

In secondo luogo, l'arricchimento continua anche oggi, e abbiamo un'idea abbastanza chiara di come il nostro universo si trasformerà negli eoni a venire. Per esempio, vediamo che le stelle massicce si sono formate con minore frequenza negli ultimi cinque miliardi di anni, quindi nel futuro le stelle piccole diventeranno l'elemento produttivo e di arricchimento dominante. In generale, questo significa più carbonio che ossigeno. Oggi nella maggior parte della nostra galassia ci sono tre volte più atomi di ossigeno che atomi di carbonio, ma alla fine verrà raggiunto un punto in cui carbonio e ossigeno saranno presenti in quantità uguali. Quando ciò accadrà, la mineralogia dei pianeti rocciosi cambierà. I carburi domineranno sui silicati, e ci saranno importanti implicazioni per le origini della vita su questi pianeti, dato che i pianeti di carbonio descritti in precedenza passeranno dall'essere rari all'essere comuni.

In generale, però, il futuro della vita appare eccellente. A meno che la vita sia un fenomeno estremamente raro, ce ne dovrebbe essere di più in futuro, e nelle forme più disparate. I pianeti potrebbero essere solo una minuscola frazione dell'universo, visto che sono così piccoli, ma ce ne sono talmente tanti che i luoghi per la vita abbondano. Ora sappiamo che il nostro universo sta attraversando il suo picco di formazione di stelle, che possiamo chiamare epoca stellifera, ma un picco in termini di formazione dei pianeti sembra che debba ancora arrivare.

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Con questa risposta al paradosso di Fermi, possiamo stimare quanto sia grande la famiglia della vita sulla base del censimento dei pianeti abitabili. La risposta è: abbastanza grande. Considerate questo: ci sono più stelle nell'universo che granelli di sabbia in tutte le spiagge del mondo, e lo stesso vale per i pianeti (vedi figura 11.1).

Naturalmente, come ho osservato all'inizio del libro, questi numeri astronomici non implicano l'inevitabilità, indipendentemente da quanto ci sentiamo sicuri dei nostri modelli. Dobbiamo andare e scoprirlo, e a questo ci penserà la missione Kepler della NASA. Nel frattempo, però, possiamo usare le attuali scoperte sui pianeti extrasolari per fare una stima preliminare.

Per cominciare, il numero di pianeti conosciuti fino all'estate del 2011 era circa seicento, la maggior parte dei quali si trova nel nostro "quartiere", ovvero nella nostra galassia (vedi figura 11.2). Questo sarà un punto di riferimento utile.

Prima di tutto ho bisogno di sapere il numero complessivo di stelle presenti nella galassia. Questa cifra viene aggiornata costantemente, ma non è cambiata granché negli ultimi dieci anni, e si basa su molte indagini differenti. Ad oggi sono stati contati svariati milioni di stelle, di tipi diversi e in diverse parti della nostra galassia. Grazie a tali conteggi e a una misurazione delle dimensioni della galassia, si ottiene il numero totale di stelle: circa duecento miliardi. Ma solo il 90 per cento di queste sono abbastanza piccole e longeve per sviluppare e avere pianeti. E solo il 10 per cento delle stelle più piccole si sono formate con elementi pesanti in quantità sufficienti per avere pianeti simili alla Terra. Finora le nostre stime sono state molto sicure e affidabili, ma ora ho bisogno di sapere quante stelle di quel 10 per cento ospitano effettivamente pianeti simili alla Terra.

Mi metto quindi a contare i pianeti, proprio come ho fatto con le stelle. Conto quante volte saltano fuori Terre e super-Terre nei censimenti planetari fatti finora. È un compito difficile, perché sono state scoperte poche super-Terre (e ancora nessuna Terra); come abbiamo visto, però, sono molto più difficili da trovare dei pianeti giganti, quindi bisogna tenere conto di questa difficoltà nel loro censimento. Un modo per farlo è quello di confrontare due diversi metodi di rilevamento dei pianeti e vedere se conducono alla scoperta di differenti rapporti di grandezza fra super-Terre e pianeti giganti.

Il confronto fra il metodo dello spostamento Doppler e il metodo della lente gravitazionale suggerisce che circa la metà delle stelle con elementi pesanti dovrebbe avere almeno una Terra o una super-Terra. Se ipotizziamo che non ci siano orbite privilegiate — ovvero che, a parità di tutte le altre condizioni, i pianeti possano formarsi e restare in una qualsiasi orbita intorno a una stella —, allora solo il 2 per cento di queste Terre e super-Terre si troverà all'interno della zona abitabile della loro stella. Il restante 98 per cento orbiterà o troppo vicino o, più spesso, troppo lontano dalla stella. La risposta definitiva ci verrà fornita dalla missione Kepler, che terminerà entro pochi anni, ma i dati preliminari appaiono già coerenti con questa stima.

Ora sono pronto a riassumere i numeri. Con tutte queste progressive riduzioni di una popolazione iniziale di duecento miliardi di stelle nella nostra galassia, arrivo a cento milioni di pianeti potenzialmente abitabili.

Non è un numero preciso, ma è evidente quanto sia grande. D'altra parte, la maggioranza di questi pianeti ha un'età vicina a quella della nostra Terra. Alcuni sono più giovani, ma solo pochi dovrebbero essere molto più antichi, dato l'avvento recente degli elementi pesanti. Con questi vincoli temporali dobbiamo essere cauti nel trarre conclusioni su una presunta inevitabilità. Tutto ciò di cui possiamo essere certi è che la vita non è un fenomeno incredibilmente raro: ha sicuramente una probabilità di uno su cento milioni. Un rapporto simile non è così male, perché eventi di una simile rarità accadono. Per esempio, a partire dal maggio del 2011, negli Stati Uniti il jackpot della lotteria Mega Millions è stato vinto quattro volte in quello stesso anno, con probabilità di uno su centosettantasei milioni. Infatti, utilizzando la distribuzione binomiale, notiamo che c'è un 18 per cento di probabilità di due successi in cento milioni di prove.

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Per la prima volta in circa quattro miliardi di anni, una nuova specie non sta per emergere dalla serie di processi che ha portato alla diversità della vita su questo pianeta. Invece, una specie sta per sintetizzarne un'altra, una forma di vita nuova e unica, ma non nel senso in cui un cane di razza o una pianta di mais geneticamente modificata sono unici rispetto al loro progenitore, cioè per alcune differenze esteriori. Sarà nuova e unica in termini di biochimica, ovvero una forma di vita che non ha posto sull'albero della vita della Terra ma che sta alla radice di un nuovo albero della vita.

Sto descrivendo l'alba di un nuovo campo di studi: la biologia sintetica. Tutta la vita sulla Terra ha un'impressionante unità biochimica condivisa, ed è per questo che possiamo utilizzare Escherichia coli, i moscerini della frutta e i topi da laboratorio come approssimazione della nostra biologia. Gran parte del meccanismo cellulare è lo stesso. Attraverso la genomica sintetica (o più in generale, la bioingegneria) gli scienziati utilizzano questa unità per creare diversità nella forma e nelle funzioni. Pensate ai secolari incroci degli allevatori, o all'attuale prospettiva di genomi microbici interamente progettati. La biologia sintetica, nel modo in cui vi faccio riferimento qui, va oltre la genomica sintetica, sia concettualmente sia nella pratica. Non è più questione di modificare un genoma o addirittura di scriverne uno nuovo, ma di sintetizzare sistemi biologici che in natura non esistono in quanto tali, nonché di sfruttare questo metodo per comprendere meglio i processi della vita. Ciò equivale a cambiare la biochimica di base, motivo per cui questa nuova forma di vita non può appartenere all'albero della vita della Terra.

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