Copertina
Autore Thomas Savage
Titolo Il potere del cane
EdizionePonte alle Grazie, Milano, 2003 , pag. 276, dim. 137x204x23 mm , Isbn 978-88-7928-590-2
OriginaleThe power of the Dog
EdizioneLittle Brown, New York, 1967
TraduttoreLuisa Corbetta
LettoreAngela Razzini, 2003
Classe narrativa statunitense
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 7 [ inizio libro ]

Era sempre Phil a occuparsi della castrazione; prima tagliava via la sacca dello scroto e la buttava da parte; poi strizzava fuori uno dopo l'altro i testicoli, incideva la guaina che li racchiudeva, li strappava e li gettava nel fuoco, dove erano pronti i ferri incandescenti per la marchiatura. Sorprendentemente, il sangue sparso era poco. Dopo qualche istante i testicoli scoppiavano come enormi popcorn. Certi uomini, si diceva, se li mangiavano conditi con sale e pepe. «Ostriche di montagna» li chiamava Phil con un sorriso d'intesa, poi consigliava ai giovani braccianti del ranch di mangiarne un po' anche loro, prima di fare gli stupidi con le ragazze.

George, il fratello di Phil, che aveva il compito di prendere al lazo le bestie, arrossiva a sentire quei discorsi, specie se rivolti ai dipendenti. George era un uomo massiccio, riservato e privo di senso dell'umorismo, e Phil si divertiva a farlo uscire dai gangheri. Dio, che gusto ci provava Phil a esasperare la gente!

Nessuno usava i guanti per un lavoro delicato come la castrazione, ma erano necessari in quasi tutti gli altri lavori per non spellarsi le mani con le corde e per proteggersi da schegge, tagli e vesciche. Si usavano i guanti per prendere le bestie al lazo, per lavorare alle staccionate, per marchiare, per gettare col forcone il fieno al bestiame o semplicemente per cavalcare, muovere i cavalli o condurre la mandria. Tutti li usavano, tranne Phil. Lui non si curava di vesciche, tagli o schegge e disprezzava quelli che indossavano i guanti per proteggersi. Le sue mani erano ruvide, forti, ossute.

I braccianti e i cowboy utilizzavano guanti di cuoio di cavallo che ordinavano dai cataloghi di Sears, Roebuck e Montgomery Ward. Dopo il lavoro o la domenica, quando l'edificio del dormitorio era invaso dai vapori del bucato e dell'acqua calda per radersi, e la fragranza delle lozioni all'alloro si sprigionava dagli uomini pronti per andare in città, tutti si davano da fare a compilare gli ordini, si incurvavano sopra il foglio come enormi bambini, rosicchiavano la matita, aggrottavano la fronte sulla grafia incerta, esitavano sull'indicazione del peso e del recapito postale. Il più delle volte si davano per vinti e con un sospiro cedevano l'incombenza a qualcuno che aveva più familiarità con lettere e numeri, qualcuno che aveva fatto qualche anno di scuola in più e che di solito scriveva per loro anche le lettere ai padri e alle madri o a qualche sorella rimasta nel cuore.

Era una bellezza ricevere l'ordinazione con la posta, una delizia e un tormento aspettare da Seattle o da Portland il pacco che poteva contenere, oltrè ai guanti nuovi, un paio di scarpe da città, dei dischi per il grammofono, uno strumento musicale per addolcire la solitudine delle sere invernali, quando il vento ululava come un branco di lupi dalle cime delle montagne.

La nostra migliore chitarra. Per musica e accompagnamento in stile spagnolo. Tastiera larga in ebano, tavola in abete rosso con raggiere a ventaglio, fasce e fondo in palissandro, filetto in corno naturale. Articolo di finissima fattura.

In attesa che l'ordinazione raggiungesse l'ufficio postale a quindici miglia di distanza, leggevano e rileggevano la descrizione, riandavano al momento in cui avevano compilato il modulo, pregustavano tutti i particolari. Filetto in corno naturale!

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 69

Phil vide George.

Gli occhi di Phil erano azzurro chiaro. Inespressivi? Anche se qualcuno diceva innocenti. Comunque erano occhi penetranti, molto penetranti, e l'iride non era meno sensibile della cornea; tanto che la minima alterazione di luce o ombra metteva in allerta Phil. Come le mani nude sentivano il marcio nascosto nel cuore del legno, la sua fragilità segreta, gli occhi vedevano intorno, oltre e dentro. Smascherava il patetico inganno della colorazione protettiva, vedeva la sagoma indistinta di una cerva immobile, mimetizzata tra rami secchi, foglie e terra; sorridendo, sparava per uccidere. Capiva se un lupo era zoppo, riconosceva per terra o nella neve l'impronta più leggera della zampa ferita, vedeva fremere un cespuglio, restava a guardare la biscia che spalancava la bocca e ingoiava una nidiata di topolini mentre la madre di questi squittiva correndo in cerchio. I suoi occhi seguivano il volo irregolare delle gazze in cerca di carogne, di un animale gonfio, della zampa putrefatta di un manzo trascinata dietro i cespugli. Nell'ansa stretta di un ruscello dove l'acqua rifluiva increspandosi, scovava la trota 'nascosta' nell'ombra di una roccia. Ma Phil vedeva qualcosa di più delle creature della Natura. Nella Natura stessa - nel modo ingenuo e all'apparenza casuale in cui prendeva forma e si organizzava - vedeva il soprannaturale. Nelle rocce della collina che si ergeva di fronte al ranch, nelle macchie di cespugli che deturpavano il pendio come acne, vedeva la forma sconcertante di un cane in corsa. Le snelle zampe posteriori lanciavano avanti le spalle poderose; il muso era abbassato all'inseguimento di qualcosa, una creatura spaventata - magari - che scappava tra gli anfratti e le ombre delle colline a nord. Ma Phil non aveva dubbi sull'esito di quell'inseguimento. Il cane si sarebbe impossessato della preda. A Phil bastava alzare gli occhi alla collina per sentire l'alito del cane. Ma per quanto vivido apparisse quel cane immenso, nessuno, tranne un'altra persona, l'aveva visto, e di certo non si trattava di George.

«Che cosa vedi, là in alto?» aveva domandato una volta George.

«Niente». Ma le 1abbra di Phil avevano abbozzato il vago sorriso di chi conosce la chiave di un mistero importante. Così viveva Phil - osservava, notava, deduceva mentre il resto di noi vede e dimentica.

In quel momento si trovava nella fucina e guardava fuori dalla grande porta; con il piede appoggiato a un ceppo che lui stesso aveva inchiodato a una parete, abbandonò il braccio sul manico liscio e consumato del mantice e piegò senza sforzo il lungo torso; il mantice si gonfiò, cedette e l'enorme polmone di cuoio attizzò le fiamme che arroventavano una fascia di ferro per un pattino di slitta. Phil guardò il fumo del carbone uscire e disperdersi sopra il campo di segale inaridita, una coltre color grigio sporco. Annusò e sentì l'odore della neve imminente:

Era domenica. La sera prima i lavoranti più giovani erano scappati in città con degli amici venuti su vecchie automobili, se n'erano andati agghindati nei loro abiti dozzinali, stringendo in mano l'assegno da cambiare in un saloon di Beech o di Herndon - sempre che si spingessero fin laggiù. Phil sorrise. Lunedì sarebbero ricomparsi prima di colazione con gli occhi cerchiati, distrutti, forse malati. Udì il rumore secco del chiavistello alla porta del dormitorio, vide la porta che si apriva e due uomini che trascinavano fuori un mastello pieno d'acqua e lo rovesciavano; li vide guardare l'acqua che scivolava fuori, dilagava e inzuppava il terreno. A loro l'età aveva insegnato l'astinenza, se non altro. La domenica facevano il bagno e lavavano gli indumenti pestando calze e mutande con un barattolo di latta inchiodato a un manico di vanga; si radevano, si buttavano in faccia la lozione e andavano a sedersi sul dondolo. Quelli che sapevano scrivere scrivevano le lettere, premevano sul foglio con la matita, strizzavano gli occhi e riempivano di sillabe stentate le righe larghe del blocco di carta ruvida. Più tardi giocavano al lancio dei ferri di cavallo o prendevano il calibro ventidue e andavano a sparare alle gazze tra i salici, vicino al posto segreto dove Phil andava a fare il bagno. Una volta, verso la fine della primavera, in quella zona Phil aveva trovato un nido traballante e scompigliato con quattro piccole gazze quasi pronte a volare. Gli uccelli adulti incitavano i piccoli, lanciavano richiami e li incoraggiavano. Per puro divertimento, Phil catturò i piccoli e se li portò alla stalla dentro un sacco di iuta, un'idea stupida, perché come arrivò a casa perse ogni interesse per loro. Dicono che se si taglia loro la lingua per il lungo imparano a parlare, ma Phil ci aveva già provato anni prima e aveva scoperto che non era vero.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 106

Phil arrivò al college due anni prima di George e come matricola fece quasi storia: a quei tempi mezzo milione erano un sacco di soldi e Phil non fece in tempo a registrarsi e a raggiungere il dormitorio sotto il sole della Californià, che nella testa degli studenti radunati nei locali dell'associazione studentesca il valore del ranch era già raddoppiato. I vestiti da campagnolo che si era portato - gli stessi che indossava al liceo di Salt Lake City - non fecero altro che accreditare la convinzione che un ragazzo tanto ricco poteva permettersi di ignorare la moda, così cominciarono ad invitarlo in tutte le case e a farsi promettere che sarebbe venuto. Tutti lo blandivano, gli venivano spinte davanti birre, e offerti sigari pregiati.

E lui andava dappertutto, voleva vedere fino a che punto sarebbero arrivati, sedeva nelle poltrone di cuoio con le lunghe gambe accavallate, composto e taciturno, intimamente divertito dalle chiacchiere sul baseball e le motociclette, e ignorava le ragazze invitate dal collegio femminile che cercavano di mettersi in mostra. «Come manzi da concorso» avrebbe detto in seguito. Ogni gruppo se lo contendeva come un premio e paventava manovre sleali da parte degli altri per accaparrarselo, tutti volevano legarsi in qualche modo a lui, perché forse un giorno la sua amicizia sarebbe valsa l'ampliamento della casa, la costruzione di una nuova, o un nuovo arredamento per il soggiorno, ma soprattutto avrebbe attirato altri giovani altrettanto ricchi, perché ricchezza chiama ricchezza.

L'ultima sera della cosiddetta «settimana del reclutamento», durante la quale le matricole decidono cosa vogliono fare e lo scrivono su un foglietto che infilano in una cassetta, Phil si conquistò un posto nella storia del college.

Naturalmente quella sera i giovani da cui andava spesso a cena si erano convinti che lui apprezzasse la loro compagnia - perché altrimenti avrebbe scelto di stare con loro per l'ultima notte dell'anno? - e così si trovò seduto con il presidente del circolo degli studenti alla sua sinistra e un professore alla sua destra. I ragazzi che si pagavano il college lavorando si erano messi in giacca bianca e servivano pollo fritto e biscotti caldi. Il presidente del circolo tenne un breve discorso sui valori dell'associazionismo. Disse che era una cosa meritevole. Disse che gli esseri umani non sono fatti per vivere isolati.

Poi, accolto da un applauso, il professore si alzò, bevve un sorso d'acqua e spiegò cosa aveva significato per lui, uomo maturo, essere membro di quel circolo. Si era sentito sostenuto nei momenti di difficoltà. Sedette, e di nuovo lo applaudirono.

A quel punto vennero accese le candele e spente le luci. I soci si alzarono in piedi e cantarono la canzone del circolo in collaudata armonia; tennero le teste lievemente chinate e alla fine si presero per mano.

Furono spente le candele e riaccese le luci. Phil notò divertito qualche lacrima spudorata. Si alzò in piedi.

«Vorrei dire anch'io due parole» annunciò, e seguì l'applauso.

«Signori» cominciò, e fissò gli astanti con gli occhi azzurro cielo. «Io so, signori, perché mi avete invitato qui. Mi avete invitato qui per i miei soldi. Per quale altra ragione dovreste volermi? Non sapete neppure se ho un cervello nella testa. Non sapete un bel nulla di me, eppure mi avete invitato».

Forse, spiegò, erano convinti che lui considerasse una cortesia l'attenzione che gli riservavano. Invece la considerava per quello che era. Un insulto.

La sala ammutolì.

«E con questo, signori» concluse, «vi lascio».

Uscì dalla sala e se ne andò a dormire.

Forse a causa di ciò, due anni dopo, diventato a sua volta matricola, George rimase inutilmente seduto in camera, ad aspettare che i ragazzi del circolo venissero a cercarlo. Rimase in camera, seduto alla scrivania con gli occhi fissi sulle mani squadrate, pronto a sorridere a chiunque entrasse a cercarlo, il viso bloccato in un'espressione di benvenuto. Sentiva bussare ad altre porte, poi scambi di battute, risate fragorose, rumore di passi sulle scale.

Nel corso della settimana si era studiato la moda del momento ed era subito andato in un negozio di vestiti. Sudando, si era comperato dei nuovi capi, era andato dietro la tenda e si era cambiato. Ne era uscito trasformato.

E adesso aspettava, con i grossi piedi nelle scarpe nuove ben piantati per terra.

«Probabilmente» gli disse Phil più tardi, «probabilmente il guaio è che si ricordano ancora quello che ho fatto io. Probabilmente non è affatto colpa tua».

Ma George non ci volle credere e non dimenticò mai l'attesa in camera, un giovane massiccio, con i piedi piantati per terra. Quando in corridoio si era fatto silenzio, si era messo il pigiama nuovo ed era andato a letto. Dalla finestra aperta sentiva le voci e i canti, e la notte della California non aveva il profumo pesante delle artemisie, ma quello di fiori sconosciuti.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 137

Phil era comparso all'improvviso.

E poco dopo si era sentita quella risata sferzante nel dormitorio, come l'eco di uno sparo. Il Natale era sempre stato un fastidio, per quel che riusciva a ricordare. I genitori gli affidavano la scelta dell'albero, che lui selezionava con cura, cercandone uno che avesse ricevuto il sole su tutti i lati perché i rami fossero folti e di uguale lunghezza, lo portava giù dalla montagna con la slitta, poi a braccia fin dentro casa, lo sistemava nell'angolo e la Vecchia Signora immancabilmente diceva: «Come mi piace il Natale!» e cominciava a decorarlo, e il Vecchio Signore allungava il braccio dove lei non riusciva ad arrivare, con la palla di vetro luccicante che catturava l'immagine deformata della stanza e rimandava i riflessi della finestra che affacciava sulla collina coi cespugli. La vigilia di Natale era sempre lunga e terribile e aveva un odore speciale, forse perché la casa era buia, o forse perché sembrava strana con i mobili spostati per fare spazio all'albero, e le ore di quella giornata si concludevano sempre allo stesso modo, con sua madre che tirava fuori i regali e li ammucchiava sotto l'albero. «Che buon odore ha questo albero!» e nei suoi occhi, nel suo sorriso, George vedeva il riflesso di quella che era stata un tempo, anche se - come la stanza nelle palle luccicanti - distorto. Poi si aprivano i pacchi arrivati dall'Est, si posavano i regali sotto l'albero; poi la cena, con i dipendenti nella sala da pranzo sul retro che ridevano e davano in esclamazioni per le cravatte e gli assegni che la Vecchia Signora faceva sempre trovare sulla tavola, come faceva adesso George (a parte i pacchetti); poi Phil si alzava da tavola e andava in camera sua e chiudeva la porta mentre venivano aperti i regali e la Vecchia Signora faceva finta di niente. Lei non aveva mai imparato - loro non avevano mai imparato - ad accettare Phil per quello che era, e al diavolo tutto il resto. A lei piaceva credere - a loro piaceva credere - che i Burbank almeno quell'unica sera fossero come tutti gli altri. E non lo erano. Phil li considerava dei dilettanti inetti e maldestri, degli illusi, dei sognatori e, a parte Phil, lo erano davvero. Come fa un uomo, come fa un uomo solo a trovare la forza di spingere gli altri a vedere in se stessi quello che lui vede in loro? Dove trova l'autorità? Ma da qualche parte lui la trovava. A Phil non sarebbe costato nulla fermarsi con loro quell'unica sera e prestarsi al gioco, anche se il Natale lo imbarazzava, anche se degli orologi d'oro e dei coltelli da caccia, della roba ordinata per corrispondenza, non gli importava più di quanto importasse a George della camicia da notte di seta azzurra e di quelle assurde pantofole in cui si infilava solo la punta del piede. Pianelle, le chiamava lei.

Pianelle!

Che le aveva preso, alla Vecchia Signora, quando aveva comprato quella roba? Quando se la doveva mettere, secondo lei? Esisteva qualcuno al mondo che ne aveva il coraggio? Gli uomini, i parenti e gli amici dell'Est, andavano in giro per casa conciati a quel modo senza morire di vergogna?

«Ma certo che mi piace» le aveva detto George. «Mi piace molto». Poi, sentendosi addosso il suo sguardo, se l'era infilata sopra i vestiti perché lei era sua madre e per Dio, lui non si vergognava di volerle bene. E in quel momento sulla porta era comparso Phil.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 217

Si voltò e parlò.

«Phil» domandò con un sorriso aperto, amichevole e pacato. «Perché mi detesti tanto?»

Il silenzio cadde come un'ombra. Lei guardò il quadrante della pendola, quasi cercasse un indizio. Mancavano pochi minuti allo scoccare dell'ora. Si voltò verso Phil. La stava fissando, con quello sguardo gelido da rettile.

«Te ne prego, Phil, dimmelo».

Lo disse prima che lei fosse pronta ad ascoltare. Si aspettava un'altra pausa, invece le arrivò la sua voce. «Ti detesto» rispose, «perché sei una volgare piccola intrigante e perché ti scoli le bottiglie di George». Tornò a fissare la copertina della rivista.

Rose alzò una mano per toccarsi i capelli. Poi si voltò. Scivolò via fino alla camera rosa cercando di tenere il passo fermo e chiuse la porta dietro di sé. Entrata che fu le spalle le crollarono, raggiunse il grande letto reggendosi ai mobili. Si lasciò cadere a faccia in giù, cercando di scacciare le parole che aveva sentito. Aveva gli occhi assolutamente asciutti e sentiva freddo, anche se l'alito caldo dell'estate entrava dalla finestra. Rimase immobile, come sotto shock, assorbendo passivamente i rumori del ranch all'esterno: lo scatto del chiavistello sulla porta del dormitorio, l'eco della carabina degli uomini che nell'intervallo del pranzo facevano il tiro a segno con le gazze appollaiate stancamente sul capanno della macelleria, le grida di trionfo o di delusione. Rumori che per un po' tennero a bada il suono della voce di Phil, la sua calma brutale, il suo sguardo gelido, il verbo 'scolare' crudelmente espressivo, l'aggettivo 'volgare' pieno di disprezzo, e quel sorriso che lei si era stampata sulle labbra quando si era alzata da tavola, nel tentativo di comunicare a Peter che sapeva come proteggerlo. Si sentì soffocare nel vuoto che si era spalancato tra le sue intenzioni e la sua inettitudine, si sentì spezzare dalla solitudine.

| << |  <  |