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| << | < | > | >> |IndicePrefazione XI Inizio. La terra natale 3 Parte prima Hai ragione Etica della gioia (Soliloquio ispirato a Spinoza) 7 Perplessità etiche del XX secolo 17 Verso una cittadinanza caospolitica 23 Attualità dell'umanesimo 42 Immaginazione o barbarie 46 Groethuysen: l'antropologo come storico 51 I caratteri dello spettacolo 58 Candido: l'individuo esce dalla storia 63 Da H.G. Wells a X-Files 71 La sconfitta di Julien Benda 77 Ferlosio in pillole 82 Ritorno a Erich Fromm 89 Un puritano libertino 93 La vera storia di Gonzalo Guerrero 98 Angeli senza testa 118 Intermezzo Affetti cinematografici Il ratto della bestia 133 La dignità di ciò che è fragile 137 Lo squalo vent'anni dopo 141 Groucho e i suoi fratelli 145 Buona notte, dottor Phibes 148 Il tramonto degli eroi 151 Giasone e gli argonauti 153 Nostalgia della fiera 155 Parte seconda Che si sparga la voce Boswell, l'impertinente curioso 161 L'iniboscato di Vinogrado 165 I sogni di Hitler Rousseau 168 Con Borges, senza Borges 172 Ritomo al mio primo Cioran 175 Un eccelso dell'amarezza (In morte dí Cioran, giugno 1995) 181 Un altro addio 184 Elogio del racconto di fantasmi 186 Un gioiello tenebroso 189 Il caos e i dinosauri 191 Brevissima teoria di Michael Crichton 194 Altra breve notizia su Crichton 197 Pensare l'irrimediabile 199 Ragioni e passioni di una dama 202 Il riscatto dell'intimità 205 Cristianesimo senza agonia 208 Contro la cultura come identità 211 Un mondo omogeneo? 214 Il mago delle biografie 217 Dèi e leggi dell'ospitalità 220 Filosofia senza esagerazioni 223 La terapia cartesiana 226 Un insulto shakespeariano 229 Guglielmo il Temerario 232 Istituzioni divoratrici 236 Destra e sinistra 239 Fratello animale 242 Africa sognata 245 Lo strano caso del signor Edgar Allan Poe 248 Successi e faffimenti dei terrorismo 252 Un contemporaneo essenziale 255 Il più irriverente degli yankee 258 Polemiche 261 Il più strano degli animali 263 Un misantropo fra noi 266 Viva Dario Fo! 268 Un principe della filosofia 270 Gli incavolati 273 Un basco illuminista 276 Gli incidenti 278 La perdita 281 Addio al pioniere 284 Ideoclip 286 Commiato I morti Il mondo dei più 293 |
| << | < | > | >> |Pagina 7Ascoltate, lo sentite il mare? Sbakespeare, Re Lear, atto IVAl principio è la morte. Non parlo del principio del cosmo e neppure del principio del caos, bensì del principio della coscienza umana. Si diventa umani quando si sente e si accetta - mai del tutto, però, sempre a metà - la certezza della morte. Mi riferisco, ovviamente, alla nostra morte e a quelle che ci riguardano, alla morte dell'individualità, vale a dire di ciò che è insostituibile (l'individualità è sempre la propria, benché alcune sue parti o componenti siano costituite da quella manciata di individualità altrui che, per amore o per necessità, sono anche le nostre): alla morte come evento irreparabile. Il vero morire è sempre il mio morire. È la perdita irrevocabile di ciò che sono, non quell'incidente accaduto ad altri in un passato «che è stagione propizia alla morte», come dise ironicamente Borges. Morire significa andare perduti. | << | < | > | >> |Pagina 12In che cosa consiste la gioia, cioè, qual è la sua consistenza, la sua operatività? Fra gli effetti stimolanti della gioia, ne indicheremo tre, allo scopo di mantenere la simmetria hegeliana con le suddette conseguenze della disperazione. Gioire significa affermare, accettare e alleviare l'esistenza umana. In primo luogo, affermare la vita nella sua realtà limitata, ma intensamente attiva, rispetto al cumulo di superstizioni che la nascondono o la calunniano: rifiutarsi di sminuirla per il fatto che non è eterna - parola mitologica che cela una nebbiosa assenza di concetto - ma irripetibile e fragile, rifiutare l'assurdo platonico che la decreta illusoria a confronto con certe idee la cui unica entità deriva solo ed esclusivamente dalla vita, riconoscerla come modello di valori e verità rispetto a coloro che ne proclamano la miseria e la menzogna. La conseguenza di questa affermazione è ciò che propongo come secondo effetto della gioia, vale a dire l'accettazione della vita così com'è, con tutto il suo carico di dolore, di frustrazione, d'ingiustizia e - cosa più indigesta di tutte - con la consapevolezza della morte irreparabilmente insita in essa. Affermare la vita significa rifiutarsi di porle condizioni, di esigere da essa requisiti di accettabilità (mi riferisco alla vita umana come realtà globale, anche se, individualmente, l'amore per certi contenuti esistenziali può giustificare la rinuncia alla continuazíone biologica della vita). In una parola, affermare gioiosamente la vita significa darla per buona, anche se ciò non equivale a considerare buoni tutti i casi e i fattori che incidentalmente si verificano in essa.Di conseguenza, dalla prima affermazione della realtà del- la vita, nonché dalla sua accettazione incondizionata, deriva la terza funzione della gioia, quella più prossima all'etimolo- gia stessa della parola, se dobbiamo prestar fede a Ortega y Gasset: alleviare la situazione umana. Visto che la morte, ciò che più pesa sulla vita, ciò che la trasforma in cosa gravosa e grave, è fatalità e assenza di senso, la gioia allevia l'esistenza potenziando la libertà rispetto al caso, nonché il senso, ciò che è umanamente sígnificativo, ciò che noi umani condividiamo, rispetto all'assurdità della morte. In questo modo nascono quegli artifici, creatori di libertà e senso, quali l'arte, la poesia, lo spettacolo, l'etica, la politica e perfino la santità. | << | < | > | >> |Pagina 171. Durante il XX secolo sono stati affrontati due tipi di riflessione etica, che potremmo rispettivamente chiamare etica della prospettiva limitata ed etica della prospettiva universale. La prima di queste due prospettive parte dall'assunto fondamentale che in realtà la morale non è una sola, ma che esistono morali diverse secondo il gruppo umano d'appartenenza. La seconda prospettiva sostiene che esiste un fatto morale unico, oltre la diversità delle morali esistenti (vale a dire, non tanto una moralità universale, ma alcuni universali morali simili agli universali linguistici che soggiacciono a tutte le lingue) e che tale fatto morale si fonda sulla comune appartenenza al genere umano. In una parola, la prima prospettiva studia i diversi ragionamenti morali unicamente alla luce della comprensione favorita dal loro contesto, mentre la seconda pensa all'esistenza di una ragione morale che possa essere compresa e giustificata in qualunque contesto, anzi, di più: che deve essere compresa e giustificata in qualunque contesto morale. Naturalmente, entrambe le prospettive non sono invenzioni del Novecento, bensì estensioni, seppure di segno diverso, di un pensiero tradizionale già da molto tempo oggetto di discussione. | << | < | > | >> |Pagina 215. Dunque, forse ciò che si viene a scoprire applicando l'astrazíone della ragione pratica alle diverse morali culturali è un' etica comune dell'ospitalità. Come ha detto Jacques Derrida in un discorso (Cosmopoliti di tutto il mondo, ancora uno sforzo!) pronunciato davanti al Parlamento internazionale degli scrittori di Strasburgo, il 21 marzo 1996: «L'ospitalità è la cultura stessa e non un'etica fra le tante. Nella misura in cui riguarda l' ethos, cioè, la dimora, la propria casa, sia il luogo della residenza familiare sia il modo di abitarlo, la maniera di relazionarsi con se stessi e con gli altri, familiari o estranei che siano, l'etica è ospitalità, è interamente estesa all'esperienza dell'ospitalità, qualunque sia il modello in cui l'apriamo o la limitiamo». In questo scorcio di secolo, segnato dalle esclusioni, dagli esili e dalle immigrazioni di una moltitudine di persone alla ricerca di una casa e di un po' di protezione, la scommessa è riuscire a passare da un'ospitalità del noi (noso-tros), intesa come non-a-altri (no-a-otros, secondo il calzante gioco di parole di Xavier Rubert de Ventós), all'ospitalità di un noi che non esige requisiti e non opera esclusioni, un noi cui, come ha detto il classico, nulla di ciò che è umano possa risultare straniero.| << | < | > | >> |Pagina 23... la bella libertà degli esseri razionali... Kant, Per la pace perpetuaSe qualcuno mi chiedesse di fare una proposta strettamente filosofica e altamente significativa (vale a dire, disposta a dare spazio a molte altre proposte e a orientare la pratica esistenziale) che poi avessi il coraggio di sottoscrivere con tutta la sicurezza di cui mi considero capace, me ne verrebbe in mente solo una, da ascriversi non a un filosofo, ma a un poeta, Meleagro di Gadara, vissuto in Siria cent'anni prima di Cristo: fu autore di eleganti epigrammi erotici e compilò un' Antologia di poeti che costituisce l'embrione dell' Antologia Palatina. La citazione appartiene all'epitaffio che Meleagro compose per se stesso; più o meno recita così: «L'unica patria, straniero, è il mondo che abitiamo; un solo caos ha prodotto tutti i mortali». Dalla prima volta che la lessi (riportata da Julia Kristeva nel suo bel libro Stranieri a se stessi), non ho più smesso di riflettere su questa frase sorprendente quanto sorprendentemente ovvia. [...] Mi si risponderà che l'approccio di Kant ha il vantaggio pratico di offrire un fondamento a quella cittadinanza non esclusiva su scala planetaria che un numero sufficiente di persone - molte, oserei dire - considera l'acme indispensabile della modernità rivoluzionaria. Ma immaginiamo che si dia il caso che proprio noi, che aneliamo razionalmente a questa cittadinanza, non crediamo - sempre per motivi razionali - in quella Natura governatrice il cui progetto attraverserebbe la storia e che tanto assomiglia al Dio ordinatore che la precede ideologicamente... e che in Kant l'accompagna perfino! Di più: poniamo che le vicissitudini del pavido XX secolo ormai non ci consentano neppure di credere in quell'altro moderno simulacro della divinità, la Storia, il cui maestoso spiegamento dal concetto di nazionale a quello di universale, in certe epoche baciate dall'ottimismo, fu definito progresso. La realtà è che la filosofia contemporanea è innanzitutto una filosofia atea, non solo nata sotto il segno dell'affermazione nietzschiana, inizialmente dubbiosa e poi incrollabile, che «Dio è morto!», ma anche cresciuta all'insegna di un graduale denudamento da tutto ciò che è teologicamente assoluto, mi si passi la ridondanza, in materia di senso. Le ideologie contemporanee - come quelle di altre epoche, poiché nulla meglio delle ideologie si sposa a ciò che è atavico - continuano ad avere divinità giustiziere, protettrici, interventiste, assetate di purezza e di sacrifici umani, perfino ecologicamente vittimiste o umanitariamente benefattrici; ma la filosofia contemporanea non ne possiede nessuna: anzi, si determina proprio attraverso la loro assoluta negazione e cancellando sempre più dal proprio discorso la nostalgia o il lamento per la loro assenza. I credenti e i pensatori sono sempre più scissi, fatto che è concretamente dimostrato dagli atteggiamenti filosofici, per così dire, postmoderni che cercano di convincerci ideologicamente del fatto che l'indebolimento delle ragioni proteistiche e antiteistiche ci permette ormai di optare per il credo fideista, sempre che ci sia favorevole dal punto di vista sociale - vale a dire, favorevole allo sviluppo della nostra identità sociale - senza poi causarci rimorsi speculativi. Una divinità ecclesiastica, naturalistica, comunitaria, umanitaria, o di qualunque altro tipo, suffragata dai suoi effetti sociali e parimenti alimentata dalla sconvenienza di una sua eventuale negazione o di una sua spiegazione razionale, mantiene intatte le sue virtù dal punto di vista ideologico, ma temo che non ne possieda nessuna dal punto di vista filosofico. In sintesi, il cittadino filosoficamente contemporaneo, che oggi concepisce la sua condizione etica e politica come ricerca di una realizzazione cosmopolita, manca, innanzitutto, del concetto stesso di cosmo, quell'ambito ordinato e ordinatore al principio, originario, in base al quale può comprendere il suo progetto planetario e universalistico. Ciò costituisce un grave problema che di nuovo ci rimanda all'apparentemente antico, ma forse segretamente contemporaneo enunciato di Meleagro. Noi cittadini di fine Novecento - un periodo piuttosto convulso (ma non poi tanto, se paragonato a ciò che abbiamo conosciuto cinquanta od ottant'anni fa!) - possiamo riconoscerci molto più come figli del Caos che non come eredi di qualche tipo di cosmo. Naturalmente mi riferisco a un caos esterno e storicamente più superficiale: il dominio bipolare del mondo è ormai terminato, ragion per cui è venuta meno quella versione piana e manichea dei progetti sociali che ha dominato per decenni; le ideologie onnicomprensive che con altrettanta scioltezza risolvevano i dubbi politici delle varie estetiche ed economie (i «grandi racconti», secondo la terminologia di Lyotard) hanno fatto spazio a puzzle personali secondo i quali ciascun individuo cerca di far sposare a modo suo la psicologia con l'ecología, i diritti umani con le identità culturali, il liberismo economico con lo Stato sociale, il laicismo governativo con la tolleranza di tutti i tipi di credo religioso, il femminismo, l'umanitarismo, la protezione dell'infanzia, il permissivismo sessuale e via dicendo. Lo sviluppo del capitalismo, senza un nemico esterno visibile, spinge verso una globalizzazione consolidata dall'estensione planetaria dei mezzi di comunicazione e di trasporto, con la conseguente decadenza di forme di produzione e di distribuzione che fino a non molto tempo fa sembravano naturali, gli individui viaggiano, emigrano e sono esiliati attraverso un mondo in cui è possibile imbattersi in qualunque tipo di cibo o di abbigliamento nel luogo più impensato, perché ormai tutto è decentrato e disseminato, mentre per mezzo delle nuovissime comunicazioni - Internet e compagnia bella - si coltiva un nuovo tipo di meticciato fra ciò che è lontano e ciò che invece è vicino, tessendo in questo modo insolite affinità elettive. Insomma, tutti sappiamo che stiamo navigando - la necessità di navigare è uguale alla necessità di vivere -, ma senza un punto di partenza né, tanto meno, d'arrivo che sia solidamente, e cosmicamente, determinato. [...] Tuttavia, credo che potremmo prudentemente affermare che, pur accettando di volgere lo sguardo al cosmopolita Kant, non ci conviene dimenticare del tutto il poeta Meleagro. Infatti, ciò che di questi è significativo è che anch'egli sostenne il principio di un'unica patria comune a tutti gli uomini e, pertanto, di un unico diritto di cittadinanza che non dovrebbe scaturire da un cosmo generatore - sia esso religioso, naturale, sociale eccetera -, ma dal caos, vale a dire dalla casuale indeterminatezza dove non vige altro ordine umanamente importante che non sia quello che, gli uomini decidono e riescono a instaurare. Partendo da auesto assunto, potremmo parlare di una cittadinanza caospolitica, invece che cosmopolitica, una cittadinanza che ricerchi il superamento dei distinguo e delle barriere nazionali per quanto riguarda i diritti della persona, senza però proclamarli in base a un cosmo preesistente, quanto piuttosto in base all'urgenza di uscire dall'indeterminatezza all'insegna della fratellanza, di abbandonare il caos, nei limiti del possibile? [...] Noi uomini non siamo figli di ciò che è fisso, stabile, ordinato, mirato a uno scopo, bensí cerchiamo di fissare, stabilire, ordinare e introdurre progetti là dove tutto è casualità, proprio perché tutto è casuale e insondabile. Danziamo sull'abisso, ma ci teniamo per mano. Il girotondo deve diventare sempre più vasto, senza escludere nessuno. Ciò che conta non è il luogo da cui veniamo, e neppure quello dove stiamo, bensì il viavai. Ciò che legittima la nostra cittadinanza umana è l'andare e il venire, non il nascere o il restare. Abbasso Heidegger e i suoi emuli comunitari. Amiamo i luoghi dove siamo cresciuti o in cui ci siamo divertiti, ma sono tutti luoghi di transito: la polis è un'altra cosa, è il luogo ideale di quelli che hanno perduto il loro posto o vengono da lontano. Anche chi non si è mai mosso dal suo luogo natale, come Kant di Königsberg, è un forestiero arrivato da chissà dove e che non smette di viaggiare, di passare da un luogo a un altro: come osservò Empedocle, «nascere è sempre viaggiare verso un paese straniero». La polis vuole essere il posto eternamente umano che ci accoglie, edificato sullo sbadiglio caotico dell'instabilità che ci espelle: cosmos noetos, un ordine pensato e ideato per la confraternita degli uomini (cui ogni individuo razionale deve avere accesso per il solo fatto di essere tale) con lo sguardo rivolto all'imprevedibile futuro e non a quell'origine perennemente reinventata dagli arbitrari signori dell'esclusione. [...] Le istituzioni della cittadinanza sono strumenti che servono a integrare ciò che è apparentemente inconciliabile, e non a racchiudere le somiglianze in corazze costituite da identità contrapposte. Il motto della cittadinanza che nasce dal caos recita così: nessuno deve accontentarsi di riconoscere l'umanità degli altri, ma ogni individuo deve imparare a riconoscere la propria umanità in quella degli altri, poiché assomiglia più a loro che al fantasma ipostatico di se stesso. In fin dei conti, la cittadinanza caospolitica si fonda sul progetto secondo il quale ciò che conviene agli uomini non è produrre sempre più cose, bensì sempre più umanità. Non si basa sulla fabbricazione degli oggetti chiusi nell'identità di ciò che sono, bensì sul riconoscimento dei soggetti aperti all'indeterminatezza di ciò che vogliono essere e di ciò che possono giungere a essere. Il buio ci spinge alla ricerca della luce o, almeno, del chiaroscuro della civiltà, anche se sappiamo che ciò che ci accomuna, in fondo agli abissi senza fondo - come dovette scoprire Macbeth, anche se troppo tardi per salvarsi - è «the season of all natures - sleep» [«Il balsamo di tutti gli esseri: il sonno!»]. | << | < | > | >> |Pagina 42(Discorso di ringraziamento pronunciato in occasione del Premio Van Praag 1997, ricevuto dalla Humanistisch Verbond olandese.) [...] L'umanesimo non nutre una diffidenza oscurantistica nei confronti di ciò che è umano, ma neppure una fiducia cieca in ciò che è umano ma talvolta - come avrebbe detto Nietzsche - troppo umano: l'umanesimo vuole apprezzare, scegliere e, soprattutto, comprendere. Per noi che ci siamo dedicati a questioni di riflessione etica, il tema della religione è particolarmente importante. Non è impossibde mantenere una visione puramente naturalistica e umanistica del mito religioso, senza per questo negarle la sua grande importanza simbolica all'interno della nostra cultura. Credo che sia stato André Gide a enucleare meglio di tutti la duplice immagine che si offre da questo punto di vista: Nel nome di Dio, mi guardo bene dal confondere due cose assai diverse; diverse fino a raggiungere gli estremi opposti: da una parte, l'insieme del cosmo e delle leggi naturali che lo governano; materia e forze, energie. Questo è il lato Zeus e lo si può chiamare Dio, sopprimendo tuttavia ogni significato personale e morale. Dall'altra, l'insieme di tutti gli sforzi umani verso il bene, la bellezza, il lento dominio di quelle forze brutali per metterle a servizio del bene e della bellezza sulla terra; questo è il lato Prometeo, nonché il lato Cristo, è l'estensione dell'uomo e di tutte le forze che in esso concorrono. Ma questo Dio non abita affatto la natura; esiste solo nell'uomo e per l'uomo; è stato creato per l'uomo o, se preferite, si crea attraverso l'uomo. Dunque, sono vani tutti gli sforzi compiuti per esternarlo attraverso le preghiere. Il progetto etico che la filosofia vuole incarnare è come un prolungamento laico di questa seconda divinità. Esso non si oppone né alla simbologia religiosa né alla buona volontà di chi la pratica, bensì alla pretesa di un certo numero di uomini di chiesa che vorrebbero imporre (tramite minacce terrene e ultraterrene) le loro superstizioni private a tutta la società. È utile ricordare che l'ingerenza ecclesiastica in questioni civili non è cosa del passato né attuale prerogativa di teocrazie come quelle islamiche: in gran parte degli Stati Uniti, per fare un esempio, l'adulterio e la sodomia sono considerati delitti punibili con il carcere. | << | < | > | >> |Pagina 63I have a Garden of my own. Andrew Marvell Autore di un'opera immensa - qualcuno direbbe smisurata Voltaire è tuttavia uno dei classici la cui creazione letteraria viene meno riletta fuori dai circuiti accademici. Di tanto in tanto si ritorna sui suoi opuscoi punitivi e nervosi, a volte irresistibilmente comici; si recuperano il suo Dizionario filosofico, la sua vasta e vibrante difesa della tolleranza, le sue diatribe contro i fanatici religiosi, le guerre, la tortura e il razzismo: è naturale, visto che i suoi nemici continuano a essere i nostri, anche se nei secoli sono cambiati i nomi e gli indirizzi di coloro cui erano rivolti i suoi strali. Gli appassionati di storia continuano a frequentare Il secolo di Luigi XIV o il Saggio sui costumi e, soprattutto, la sua monumentale corrispondenza, in quanto costituisce il miglior affresco - formalmente ambizioso e nel contempo estremamente dettagliato - della vita quotidiana di quello che meritò di essere chiamato il secolo dei Lumi. [...] Tuttavia, nella maggior parte dei casi, anche se le opere di fiction di Voltaire non riescono a convincerci dal punto di vista letterario e offrono all'eventuale lettore moderno un piacere men che moderato, nel loro insieme non possono non continuare a suscitare ammirazione. Secondo quanto ha detto René Pomeau, massima autorità in materia, si tratta di un'autentica commedia umana in cui vengono passati in rassegna tutti i paesi, tutte le epoche e tutte le tradizioni possibili e immaginabili. È incredibile quanto fu vasta e satirica la curiosità di Voltaire. Malgrado condivida con il pensiero dominante del suo secolo un eurocentrismo di fondo, la sua sete di conoscenza del passato, temporale e spaziale, non si placa mai. Avrebbe desiderato dipingere tutti gli uomini e tutte le donne, i loro gusti, i loro capricci, i loro ragionamenti e le loro superstizioni, le loro abitudini. Altri sono affascinati dall'esotismo come un aspetto dell'insolito; ciò che interessa Voltaire è sorprenderci con ciò che per molti è routine. Anzi: con ciò che in fondo coincide con la routine delle passioni, dell'avidità e dei timori che noi tutti sperimentiamo. Semplificando al massimo, Voltaire giunge alla conclusione cosmopolitica per eccellenza, quella secondo la quale in tutto il mondo si cucinano le fave... anche dove non ce ne sono o è proibito mangiarle. Tuttavia, questa convinzione finale non mitiga il suo interesse per i dettagli e i molteplici scenari che circondano, come dice egli stesso, la rappresentazione della tragedia che ovunque è la stessa. I suoi drammi e i suoi racconti possono mancare di profondità analitica, ma non dell'inquietudine rispetto alla varietà di circostanze in cui si consuma l'avventura umana, né del proposito di abbracciarla nel modo più completo possibile. A volte pecca di confusione e di riduttività, ma non riesce mai a parlarci del colore locale. I secoli, il nostro pianeta, perfino le stelle e i mondi più lontani, tutto diventa piccolo o vicino grazie alla sua impaziente e peregrina vivacità. Nessuno è meno provinciale di Voltaire, perché, sebbene abbia creduto di occupare il centro del mondo come di solito capita a tutti, perlomeno ebbe la certezza che questo centro potesse spostarsi con lui. Solo in un punto Voltaire riesce a mettere d'accordo i posteri sul suo conto: Candido o dell'ottimismo è la sua massima riuscita letteraria nel campo della fiction. Si tratta di un'opera della maturità, poiché la scrisse nel 1758, dopo i sessantacinque anni, e non cessò di ritoccarla praticamente fino al termine della sua vita. In Candido non raggiunge soltanto la pienezza di stile - uno dei più depurati nonché inconfondibili del suo tempo - bensì anche la quintessenza intellettuale dell'esperienza di un vita particolarmente ricca di avventure e saperi. [...] Forse l'autentica originalità di Candido è di mostrare, per la prima volta, un individuo umano che si sottrae all'obbligo soggiogante della storia. I protagonisti dei racconti del passato, che fossero eroi o principi, si comportavano come agenti che, sollevandosi al di sopra della storia e dei suoi alti disegni, li incarnavano nelle loro figure. I personaggi della narrativa picaresca, dal canto loro, tramavano negli anfratti della storia, senza confermarla né smentirla, come furbi parassiti del suo magniloquente processo. Tuttavia, Candido potrebbe essere il primo personaggio letterario che dà inizio alla sua avventura convinto di dover sostenere ideologicamente il divenire degli avvenimenti di tutto il mondo e l'armonia che coordina il cosmo naturale e sociale, per poi, poco a poco, allontanarsi da una pretesa tanto ambiziosa. Candido subisce guerre e inquisizioni, batte in lungo e in largo mari e paesi, provoca la morte e viene a sua volta ferito: è perfino ospite e casuale beneficiario dell'Eldorado, cioè dell'utopia (un luogo fra gli altri, perché anche la fantasia desiderante contribuisce all'ironica cartografia del mondo che abitiamo). In ogni momento si sforza di conservare la struttura dogmatica che assolve e benedice gli eventi contro ogni evidenza. Tuttavia, poco a poco, con lacrime e soprassalti, perde... l'innocenza o il candore? No: l'arroganza storicistica che vorrebbe coordinare in una trama comprensibile, ispirata alla riflessione o alla critica feroce, il fortuito caos degli eventi in mezzo al quale ci troviamo a esistere e a muoverci. Alla fine del racconto, Candido non rinuncia all'azione che migliora e che approfitta di ciò che abbiamo a portata di mano - come Voltaire, anch'egli conosce l'ingenuità dell'ottimismo giovanile, ma non quell'altra peggiore e senile ingenuità: la disperazione -, bensí alla presunzione teorica che vincola ogni atto individuale alla frenesia delirante e sempre giustificante che non lascia mai nulla in sospeso. Candido diserta a priori l'unanime vocazione hegeliana che, alcuni decenni dopo, prolungherà la teodicea leibniziana. E si rassegna all'ideale domestico e ormai in disgrazia di Cunegonda, la tenace Dulcinea, ambigua e ottusa, amata da questo discreto Don Chisciotte che non ebbe bisogno di morire per rinsavire definitivamente. | << | < | > | >> |Pagina 71Alcuni scienziati americani hanno appena scoperto tracce di vita su Marte, proprio ora che si compiono cinquant'anni dalla morte di Herbert George Wells, che introdusse l'ombra minacciosa dei marziani nell'immaginazione universale. [...] La guerra dei mondi appartiene alla prima serie letteraria di H.G. Wells, quando a soli trent'anni scrisse una rapida successione di meraviglie che affascinò il pubblico dell'epoca: La macchina del tempo, L'isola del dottor Moreau, L'uomo invisibile (encomiata da qualcuno tanto restio all'elogio come Vladimir Nabokov), I primi uomini sulla luna, Il risveglio del dormiente eccetera. Non si tratta affatto di semplice letteratura di intrattenimento, anche se è difficile trovare qualcosa di più divertente. Per calibrare il rango di questi romanzi, è sufficiente confrontarli con quelli di Jules Verne, come fecero i contemporanei: il simpatico romanticismo del francese inventa spedizioni e macchinari che amplificano le possibilità dell'avventura individuale, mentre Wells dedica la sua immaginazione a confezionare parabole sociali complesse e temibili. Verne si appassiona a ciò che gli uomini possono giungere a fare delle cose; Wells si interessa a quel che gli uomini possono farsi a vicenda, grazie al loro dominio delle cose. Il viaggio sulla luna, per esempio: lo scrittore francese dedica molte e ingegnose pagine di Dalla terra alla luna alla descrizione del cannone gigante che sparerà il proiettile con a bordo l'equipaggio verso il nostro satellite, nonché al calcolo della sua traiettoria, degli effetti della perdita di forza di gravità eccetera, mentre i protagonisti devono accontentarsi di impianti archetipici e psicologicamente piani. Nei Primi uomini sulla luna, Wells non si dilunga in particolari tecnici (postula una sostanza che respinge la gravità, il cavorite, così come Cirano dotò il suo viaggiatore di bottiglie piene di rugiada, che in passato si credeva fosse attratta dalla luna), per concentrarsi su un'oscura requisitoria antimperialistica e sul crudele tradimento di un'amicizia. La generazione che oggi si diletta con X-Files deve sapere che le favole critiche di Mulder e Scully discendono in linea diretta dallo stile con cui H.G. Wells abbordò la fantascienza. Wells fu un grande romanziere, secondo me uno dei più grandi della storia del genere, e non si distinse soltanto nella narrazione fantastica, ma anche nei ritratti sublimi dei personaggi della classe media e bassa, in lotta per trovare una sistemazione moderstamente felice nella società implacabile che fin troppo bene conosciamo (Kipps, La storia di Mr. Polly, L'amore e il signor Levisbam, Tono-Bungay eccetera), nonché nei tentativi che fece nel campo sempre spinoso del romanzo di idee, alcuni dei quali riuscitissimi come La ricerca sublime. [...] Nel cocktail ideologico di Wells si mescolano il marxismo elementare, il darwinismo e l'eugenetica, ma forse ciò che lo rese irresistibile a tanti palati del suo tempo fu un altro ingrediente: l'anticipazione dell'impatto politico e sociale di invenzioni appena accennate. Quando l'automobile era poco più che un fenomeno da baraccone, Wells scrisse di grandi autostrade sulle quali circolavano enormi camion carichi di merci; prima che i primi aerei diventassero realtà, egli parlò dell'importanza dell'aviazione e fece dei suoi samurai degli aviatori come in passato altri capi elitari erano stati cavalieri. Nel Mondo liberato, pubblicato nel 1914, descrive il collasso dell'ordine sociale a causa delle bombe atomiche utilizzate in una guerra che incomincia con l'invasione della Francia da parte della Germania, attraverso il Belgio, nonché il modo in cui l'invenzione di un motore atomico avrebbe aumentato, verso il 1956, la disoccupazione in modo catastrofico. Anni dopo, nella Forma delle cose che verranno (1933), predice una guerra mondiale che sarebbe cominciata nel 1939 e in cui la Germania e l'Italia avrebbero conquistato l'Europa occidentale, mentre quella orientale sarebbe divenuta interamente comunista; il Giappone avrebbe continuato a cercare di impossessarsi della Cina e pertanto avrebbe affrontato gli Stati Uniti in una battaglia che avrebbe perduto, e così via. Paradossalmente, H.G. Wells ebbe più occhio per il futuro che non per il presente. Dalla sua visita a Stalin, allo scopo di realizzare un'intervista (che è stata pubblicata poco tempo fa su un numero domenicale del «País»), trasse questa impressione: «Non ho mai incontrato un uomo così candido, pulito e onorato; e sono queste qualità, non qualcosa di occulto e di sinistro, a garantire la sua indiscussa ascendenza sulla Russia». | << | < | > | >> |Pagina 145Se l'anticipo con cui devo preparare queste poche pagine - che vi appartengono - non mi induce in errore, secondo i miei calcoli, quando avrete la bontà, di leggerle, staranno per scadere i centocinque anni dell'anniversario della nascita di Groucho Marx, venuto al mondo nell'ottobre dell'anno 1890. Groucho centenario! Così irriducibilmente giovane come continua a essere... Nessuno può sapere con certezza quali saranno i personaggi che, nell'immaginazione dei nostri discendenti, rappresenteranno il secolo che abbiamo vissuto e che salutiamo. Proust, Kafka, Picasso? Orson Welles, Bertrand Russell, Einstein? Hitler e Stalin, con una menzione a piè di pagina per Gandhi? In ogni caso, se dal futuro venissero a chiedermi con chi sarebbe meglio rimanere (consulenza che non sembra molto probabile), io consiglierei di puntare su Groucho e di lasciare il resto agli specialisti. Ma non avremo tanta fortuna... [...] Ciò che più gli assomiglia è quel treno del Far West che alimenta le proprie caldaie con la sostanza dei suoi stessi vagoni e che corre libero, fuori dalle rotaie, attraverso la campagna. «Più legna e meno martirio», dice la battuta del film, più polemica e meno vittimismo! Groucho Marx è l'unico personaggio del mondo moderno con cui avrebbe simpatizzato Diogene, anch'egli sicuramente un po' curvo per aver abitato in un barile tanto a lungo; Groucho è Oscar Wilde, ma senza dar importanza alla cosa e senza chiamarsi Ernesto, è il Newton che scoprì la legge dell'assenza universale di gravità e poi si mangiò la mela, è come Proust, ma senza tempo da perdere, è Marx, senza però rinunciare a essere Groucho. | << | < | > | >> |Pagina 172Sono già dieci anni che noi lettori viviamo senza Borges. Mi riferisco all'assenza della persona fisica: fortunatamente i suoi libri sono ancora con noi e sono perfino aumentati, grazie al recupero di alcune opere degli esordi che l'autore accantonò per eccessivo zelo autocritico. [...] Di certi autori ci piace questa o quell'opera: sono riusciti a emozionarci letterariamente una, due o dieci volte, e non gli chiediamo di più. A volte ci sorprende perfino che, fra le tante cose che hanno scritto e che non ci interessano, siano riusciti a scrivere qualcosa di tanto buono. Invece, ci sono altri che amiamo non per i loro successi, ma per la totalità del loro impegno: ci piace il modo in cui hanno scritto ogni singola pagina, perfino quelle ci piacciono meno. Quando scompaiono, ne rimpiangiamo la voce, non i libri che avrebbero potuto scrivere in futuro. So che il bel romanzo di domani rinnoverà l'estasi che mi ha ispirato quello che oggi ho terminato con un sospiro di soddisfazione; ma nessuna voce potrà mai sostituire, per me, quella di Cioran, di Thomas Bernhard e di Borges. Soprattutto, quella di Borges. [...] C'è di più: il fascino bizzarro di un avventuriero che ha esplorato le biblioteche con l'ingenuo trasporto e la navigata astuzia con cui altri hanno frequentato le foreste, i mari, gli intrighi politici, le battaglie e l'arena della passione. E che da quei libri, con nostalgia e lucidità disperate, ci parla della morte in guerra e delle agonie dell'amore. Sono pochi gli scrittori che, come Borges, esigono tanta complicità da parte del lettore, trovando in essa il più ambito dei riconoscimenti. | << | < | > | >> |Pagina 181Dopo aver pronunciato una delle sue solite, e quanto mai vere, enormità contro l'universo, Cioran socchiudeva gli occhi vivaci e lasciava andare una breve risata, afona e trionfale. In questo modo, mentre celebrava il successo della sua sentenza, le toglieva anche importanza. Comunque, checché se ne dica, tutto è rimasto uguale. Nessuno fu meno lugubre e meno impregnato di prosopopea, nessuno seppe pronunciare diagnosi più terrificanti con fare meno intimidatorio. Possiamo immaginare amabile l'angelo sterminatore? Ebbene, Cioran era questo e, come dicono i teologi di tutti gli altri angeli, la sua individualità fu il culmine della stirpe cui apparteneva. Non si può inserire in nessun movimento letterario o filosofico, in nessuna scuola e in nessuna moda. È impossibile immaginarlo mentre parla di decostruttivismo, neobarocco o del ritorno alla soggettívítà. Gli unici argomenti che lo preoccupavano erano quelli che possiamo condividere con Montaigne o con Buddha.
Perché scriveva? Forse per l'ansia di comporre un
«libro leggero e irrespirabile, che giungesse al limite del
tutto e si dirigesse verso il nulla». Molte volte
insistette sulle stesse questioni, frugando in mille modi
nella spaventosa fragilità di ciò che siamo e
nell'incontenibile delirio del nostro desiderio,
urtandosi con ironia della sua stessa ostinazione, però
senza mai stancarsene né annoiarci con essa. Bisogna essere
maestri di stile di sommo livello per riuscire in una tale
prodezza
perché non c'è progresso nell'idea della vanità del
tutto, né scioglimento; e, per quanto lontano ci addentriamo
in questa meditazione, la nostra conoscenza non aumenta in
alcun modo: è, al presente, ricca e azzerata come lo era al
principio. È un'impasse dell'irrimediabile, una lebbra
dello spirito, una rivelazione attraverso lo stupore.
Per la sua padronanza dell'abbreviazione folgorante in cui si condensa non già un trattato - che è poca cosa -, bensi tutto un ramo del sapere che nessuno ha esplorato, Cioran può essere paragonato, nel Novecento, solo a Elias Canetti. Si tratta di uno scrittore letteralmente insostituibile: quando uno si appassiona al suo tono, non permette ad alcun palliativo di sostituirlo. Fu per questo che ebbe la stima di alcuni fan nient'affatto disprezzabili (Octavio Paz, Susan Sontag, Paul Celan, Clément Rosset ... ), nonché la riprovazione di altri (Eduardo Subirats, Luis Racionero, Javier Sádaba ... ): la lista dei suoi complici e quella dei suoi avversari gli fanno ugualmente onore. La sua opera possiede una morale? Evidentemente nessuna e, pertanto, posso proporvene due. La prima appartiene al campo ontologico: «Nascendo, abbiamo perduto quanto perderemo morendo. Tutto». La seconda è di ordine pratico: «Siamo e saremo sempre schiavi della menzogna finché non saremo guariti dalla mania di sperare». | << | < | > | >> |Pagina 191Visto che la cultura è composta sia da pregiudizi sia da giudizi, non pretenderò di discutere qui la liceità dei suoi, fratello lettore. Mi limiterò ad avvertirla che, qualora provasse una certa avversione per la letteratura popolare in genere e per la fantascienza in particolare, la lettura di questo mio appunto - in ogni caso non indispensabile - le parrà particolarmente superflua. Ma se lei assume, come me, che scrittori che mai vinceranno il premio Nobel né meriteranno di essere studiati da Harold Bloom o da George Steiner, possano anche comporre autentici capolavori, mi permetta di comunicarle la buona notizia che ho appena finito di leggere un gioiello di quell'arte minore che è la fantascienza (mi sia consentito ricordare, con un po' d'orgoglio, che questa rassegna è stata scritta prima che Spielberg rendesse travolgentemente celebre questo romanzo con la sua magnifica versione cinematografica). Il suo autore è Michael Crichton, nel tempo libero anche stimato regista cinematografico, che qualche anno fa scrisse Mangiatori di morte, la storia di un contadino moro del IX secolo, rapito dai feroci guerrieri scandinavi, che finisce a lottare a fianco di Beowulf e dei suoi compagni contro il mostro Grendel. Un'altra di quelle cose preziose che sempre sfuggono ai pedanti (oh, chiedo scusa, ho promesso di non scagliarmi contro i pregiudizi di nessuno!). Tuttavia, il libro che adesso le raccomando, Jurassic Park, è senza dubbio migliore del precedente. Per incominciare a elogiarlo, potremmo dire che si tratta del miglior romanzo con i dinosauri da quando Arthur Conan Doyle compose l'ímmortale Mondo perduto. [...] Tuttavia, il libro raggiunge una complessità piuttosto rara, perché Jurassic Park racchiude anche una chiara parabola sulla perversione impura (attenzione, non dico perversità intrinseca) delle applicazioni tecnico-commerciali della scienza moderna. Allarmi farraginosamente espressi da Heidegger, Arnold Gehlen e tante anime belle dell'ecologismo letterario che, nel corso del Novecento, non è mai mancato nella fantascienza più didattica, nel romanzo di Michael Crichton trovano un'eco dolcemente ironica e nient'affatto indigesta. La sua lezione fondamentale riguarda il delirio di onnipotenza e ci ricorda che quanto più è grande l'accumulo di potere e di progetti, tanto più duro sarà il lavoro di demolizione operato dal disordine dell'imprevisto; utilizzando una dottrina di moda, Crichton ci raccomanda di applicarci alla scienza del caos, se vogliamo sapere dove andrà a finire, prima o poi, il caos della scienza. Scrivere un buon romanzo di fantasia e di avventure è già in sé cosa assai notevole, ma che distilli una morale assennata riuscendo a essere apocalittico senza oscurantismi, è realmente quasi miracoloso. In sintesi, e ripetendo Lichtenberg: se lei ha due paia di pantaloni, ne venda uno e si comprí questo libro. | << | < | > | >> |Pagina 208Un certo giorno di alcuni anni fa, Gianni Vattimo, telefonando da una gelateria milanese, ebbe una conversazione con un altro illustre professore italiano, un cattolico tomista. Il discorso doveva vertere su un concorso a cattedre della cui commissione facevano parte entrambi, ma l'interlocutore lasciò cadere il discorso sulle manovre accademiche e domandò a Vattimo se credeva ancora in Dio. Colto alla sprovvista fra signore accaldate che degustavano gelati e bambini che bevevano aranciate, Vattimo rispose che «credeva di credere». Adesso, ha pubblicato un libretto, breve e sincero, ragionando in termini filosofici su quella risposta data a caldo. Con sottigliezza e acume, sono anni che Gianni Vattimo coglie le lezioni democraticamente moderate di autori che al principio si prestano ben poco a questa caratteristica della civiltà, come Nietzsche o Heidegger. Soprattutto nel caso di quest'ultimo, Vattimo ha seguito con profitto le lezioni del suo maestro Gadamer che si è dedicato - secondo la celebrata ironia di Habermas - a urbanizzare la lussureggiante foresta del pensiero heideggeriano. Oggi si direbbe che, nella radura così disboscata, Vattimo s'incarica di edificare (un poco tongue in cheek, va detto) una discreta cappella, contribuendo a rendere il paesaggio più accogliente. Le sue ragioni? Vattimo non indietreggia davanti alla menzione pudica dei motivi di questo ritorno all'ovile cristiano, quali la morte di una persona amata con cui sperava di condividere il meglio della vita e l'imminente vecchiaia. Tuttavia, indica anche altre questioni di natura che non si può definire più filosofica - la perdita di una persona amata o la vecchiaia sono insuperabili da questo punto di vista -, bens' più tecnicamente filosofica. Secondo Vattimo, nel passato recente, la causa del rifiuto illuministico dei dogmi cristiani è stata la fede ontologicamente forte in una realtà materiale a sufficienza descritta dalla scienza. Tuttavia, la postmodemità ha man mano indebolito l'ontologia materialistica, in modo che la proposizione «Dio esiste» non può più essere rifiutata categoricamente per mancanza di fondamenti empirici, ma deve essere sottoposta a un dibattito ermeneutico sulla base di interpretazioni ben dosate. In una parola, quando l'ontoteologia cristiana ha ormai perduto il suo radicalismo metafisico, è assurdo che l'ateismo pretenda di prendere il suo posto con un'altra metafisica forte, quella del realismo scientifico. Dunque, al posto del «tutto o niente» della scommessa pascaliana, restano prudentemente aperte diverse porte. Di fatto, la via che preferisce Vattimo trasforma il dogma centrale del cristianesimo in allegoria della debole ontologia postmodema: la divinità, incarnandosi, s'indebolisce, dando a noi tutti un esempio di modestia metafisica. E tale scommessa sulla fragilità è il vero contenuto del cristianesimo, il cui nucleo intellettuale è l'esigenza di ridurre la violenza e aumentare l'amore: la carità. Vattimo non nasconde il suo apprezzamento estetico per il cerimoniale ecclesiastico che custodisce questo messaggio essenziale, però è assolutamente consapevole del fatto che, insieme all'oro evangelico, dai pulpiti, ci vengono imposte anche autentiche superstizioni in campo filosofico e morale che fondamentalisti come Giovanni Paolo II non contribuiscono certo ad ammorbidire. Ricorrendo di nuovo all'esperienza biografica, Vattimo cita l'opprimente posizione ortodossa nei confronti dell'omosessualità o l'irrazionalità della condanna del preservativo in tempi di Aids. Condude rivendicando il diritto a una nuova lettura del cristianesimo evangelico alla luce del comandamento supremo della carità, che rifiuta le violenze inquisitorie, ma, nonostante tutto, accetta debolmente il rifugio della Chiesa cattolica. Credere di credere: questo titolo, all'orecchio del lettore spagnolo, suona inevitabilmente unamuniano, anche se il feroce don Miguel si spinse oltre e disse che «si crea ciò in cui si crede». Dunque, l'agnosticismo tragico di Unamuno è lontanissimo dal sereno e tollerante cattolicesimo di Vattimo, che a volte dubita, ma non offende mai, né scarta esplicitamente, come ormai superata, l'agonia esistenziale che in passato inquinò tali questioni. E tuttavia... tuttavia, l'ateo che come me, simpatizza in pieno con gli esiti civilizzanti della carità, della tolleranza e della non-violenza, non cessa di domandarsi se si possa definire religioso qualcosa di tanto ragionevole. Unamuno, per tornare a lui, non voleva morire: anelava alla fede che promette l'immortalità e la resurrezione, e credeva di non credere in quella fede. Nella riflessione di Gianni Vattimo, questo punto fondamentale è curiosamente assente, probabilmente perché è più facile urbanizzare il pezzetto di foresta heideggeriana che trasformare l'essere-per-la-morte in essere-per-l'immortalità. È troppo forte quest'agonia nei nostri claustri antologicamente debilitati, ma nostalgici di un'estetica spiritualistica? Wojtyla sostiene che un Dio assurdamente preoccupato per l'ostetricia condanna coloro che, quando fanno l'amore, fanno uso dei preservativi o lo fanno contro natura; però assicura che quel Dio nient'affatto credibile riscatterà per sempre dalla morte i suoi fedeli, contro ogni razionale comprensione. E l'ateo, per una volta, simpatizza con l'esaltato: non per l'oggetto della sua fede, ma perché egli crede che sia proprio quello, e non un altro più modesto, ciò che vale la pena di credersi... disposti a credere. | << | < | > | >> |Pagina 211Esiste una cultura europea? Per quanto buona sia la disposizione con cui la si affronta, la domanda fa già sbadigliare. Tutti vogliamo credere che sia ancora vivo il mitico unicorno e che, prima o poi, verrà a reclinare la bianca e contundente testa nel grembo della fanciulla che, senza fortuna, lo attende. Una cultura, malgrado tutto, europea! Non oso suggerire come debba essere narrata questa leggenda, ma credo che nei limiti delle mie possibilità possa raccomandarla in negativo, come hanno sempre fatto i teologi prudenti con i loro dèi. La cultura europea non può costituire l'argomento ontologico destinato a suffragare un'identità nazionale, sia essa francese, italiana, catalana, inglese, polacca, basca, croata, russa... e neppure un'identità europea. Naturalmente, sappiamo già che l'uso e, soprattutto, l'abuso più comune delle cosiddette culture nazionali è la strumentalizzazione che ne vuol fare prove ontologiche della tensione all'identificazione: ovunque si cucina questo tipo di fave, propizie alla flatulenza. Se c'è un impegno culturale che si può definire tipicamente europeo, questo è la negazione della cultura ridotta a mero sostegno e legittimazione dell' identità. E questo malgrado il fatto che gli amministratori ufficiali delle culture europee continuino a vederle attraverso tale prisma deformante. Perché ciò che alcuni europei di ieri e di sempre intuirono è che la cultura non può mai essere un semplice meccanismo di identificazione etnica o nazionale. L'identità, quell'insieme di riti e di mitologie idolatrato dai gestori della routine, archiviato dai burocrati essenzialisti e omaggiato a suon di cannonate dai padri della patria, è quanto di più culturalmente antieuropeo si possa immaginare. L'autentica cultura non è l'identità che consacra gregari i nostri simili, bensì proprio quell'annullamento dell'identità che ci permette di metterli in discussione, di smentirli e, soprattutto, di mischiarli con ciò che viene da fuori, con ciò che ci assomiglia, ma mai completamente. Cultura è curiosità per ciò che è diverso, non celebrazione maniacale di ciò che è proprio; è quello che offriamo agli altri e ciò che negli altri cerchiamo, non la semplice ripetizione di ciò che abbiamo decretato come indissolubilmente nostro. Nessuno definisce colto colui che conosce la propria lingua, ma colui che è capace di parlarne o di leggerne diverse; né colui che sa tutto del suo quartiere, bensì chi si interessa di metterlo in contatto con l'universo mondo. Il vero elemento differenziale, nel campo della cultura, è quello che distingue i cercatori dell'universalità dai santificatori dell'individualità. | << | < | > | >> |Pagina 236Coloro che oggi si mettono le mani fra i capelli alla notizia del sacrificio dei membri della setta californiana sono opportunamente invitati a riflettere sullo scandalo che, a suo tempo, suscitò la dottrina dei primi cristiani. Risponderanno che il cristianesimo non ha mai predicato il suicidio, il che è vero solo a livello individuale: dal punto di vista collettivo, la tendenza maggioritaria degli inizi - assai ben studiata dallo storico Peter Brown - era la rinuncia totale alla sessualità e, soprattutto, alla procreazione. Le moderne associazioni a favore della vita avrebbero fatto pochi proseliti a quei tempi, quando il saggio Origene giunse a castrarsi in un eccesso di entusiasmo. La credenza generale di quegli innovatori era che si stava avvicinando la fine del mondo e che tutto ciò che accelerasse la liberazione dal vecchio ordine (non dimentichiamo che il diritto romano si fondava sull'istituzione della famiglia) doveva essere ben accolto. I primi cristiani aspettavano la fine del mondo e il ritorno del Messia: invece arrivò la Chiesa. E fra una setta e una chiesa la differenza è fondamentale, perché la setta è progettata per l'estasi e il compimento veloce delle profezie, mentre l'obiettivo della chiesa è quello di durare. Dunque, la castità assoluta si trasformò in rassegnato matrimonio, il rifiuto di tutte le istituzioni terrene in alleanza fra trono e altare, il Cesare venne battezzato, e così via. Le sette possono aborrire la procreazione e la proprietà, nonché raccomandare il suicidio, ma le chiese hanno criteri meno chiassosi. Hanno da fare con il tempo, non con la fine dei tempi. E quando i termini si allungano, l'istinto di vivere si fa più forte dei misticismi autodistruttivi che esigono il sacrificio sull'altare della perfezione. Lo disse assai bene il biologo Jean Rostand: «È proprio l'istinto vitale che allontana l'incredulo dalla disperazione e il credente dalla santità». | << | < | > | >> |Pagina 248Da qualche parte Cioran lasciò scritto che l'unica cosa che ha senso è essere un poeta, un matematico o un generale. Ebbene, forse se combinassimo queste tre vocazioni in dosi gradualmente decrescenti potremmo ottenere qualcosa di simile a Edgar Allan Poe. Prima di tutto poeta, naturalmente, nel senso più esaltato e taumaturgico del termine, un profeta della bellezza stridente, dell'impossibile e della morte; ma anche un matematico, posseduto dal demonio del calcolo esatto, appassionato creatore e guastatore di meccanismi deduttivi il cui rigore sembra proteggerci dal caos; e un po' generale, perché no, un militare del Sud, arrogante, mitomane, attaccabrighe e galante. Nel caso di Poe, questa particolare miscela di ingredienti produsse effetti esteticamente singolari, nella sua opera letteraria, ma fu nefasta per la sua vita. Quando si ripercorrono le disgrazie della sua breve e sventurata biografia («se può esser breve la sventura», ha detto Borges), si resta sorpresi dalla cattiva disposizione con cui seguì sempre i suoi affari e dalla sfortuna che li vanificò quando riuscì a gestirli un po' meglio. Si direbbe che l'esistenza di Poe fu una partita a carte con l'Ombra, con quell'Ombra fatta di miseria, deviazione e mediocre risentimento che normalmente fagocita ogni cosa: quando l'avversaria sembra perdere una mossa, Poe fa in modo di regalarle la seguente. | << | < | > | >> |Pagina 268Pare che, ultimamente, l'Accademia di Svezia sia in stato di grazia: di questo passo, finirà per riconciliarci con il premio Nobel. Nel 1996 ha sorpreso molti ignoranti con la magnifica scoperta di Wistlava Szymborska, un regalo di cui non la ringrazieremo mai abbastanza. Nell'ottobre 1997, ci dà una nuova gioia, premiando altrettanto inaspettatamente il grande Dario Fo. Invece di seguire il normale percorso che va per aree nazionali o linguistiche, ha preferito premiare il, più trascurato dei generi, la cenerentola della letteratura, il campo sottovalutato cui appartengono però Sofocle, Shakespeare e Molière: il teatro. Agli inizi del secolo furono molti i drammaturghi premiati (Bernard Shaw, Pirandello, O'Neill...), ma poi scemarono, come sintomo della decadenza del teatro nelle preferenze di un pubblico sempre più coinvolto dai mezzi audiovisivi. Forse è stato Samuel Beckett l'ultimo grande scrittore di teatro - famoso innanzitutto per il suo teatro e non per aver scritto, fra gli altri lavori letterari, anche qualche pièce - che ha ricevuto il premio Nobel. Tuttavia, torniamo all'oculatezza dell'Accademia svedese: invece di occuparsi di qualche noioso Grande-Letterato-Nonché-Coscienza-Dei-Nostri-Tempi, di quelli che passano la vita calcolando, nei loro diari insulari, quante possibilità hanno di ottenere infine l'immortalità conferita da Stoccolma, hanno premiato un geniale buffone, un comico dal linguaggio irriverente, iconoclasta, sensuale, rabelesiano, anticlericale e gioiosamente volgare. Ma di quella volgarità intelligente che appartiene a tutti coloro che vogliono essere ribelli, non la sudicia stupidità degli oziosi e degli schiavi soddisfatti. Di questo premio azzeccatissimo si sono scandalizzati quelli che avrebbero negato il Nobel a Shakespeare perché era un attore; inoltre Fo ha già attirato su di sé le proteste dell'odiosa canaglia vaticana, una corporazione di pagliacci disgraziati - cioè senza grazia - che non può sopportare questo giocherellone che tanto ha riso e ha fatto ridere alle loro spalle. Con Dario Fo, il Nobel ricade sulla parola teatrale, vale a dire, sulla parola fatta corpo, gesto, inventiva e risata. Se ogni tanto la vitalità travolgente del suo monologo ha commesso degli errori, schierandosi da una parte o da un'altra, o è incorsa in qualche esagerazione al momento di denunciare, è perché gli errori e l'esagerazione fanno parte della vita e solo le letterature liturgiche e patinate, le letterature della vita in sospeso, possono completamente evitarli. Evidentemente Dario Fo non è un grande scrittore come lo sono stati Joseph Conrad o Marcel Proust (per citare solo due fra quelli che non hanno mai ricevuto il Nobel), ma senza dubbio è un autentico artista letterario, vale a dire, qualcuno che, per mezzo della parola, ha risvegliato l'emozione e la rabbia di molti. Forse la letteratura è qualcosa di troppo serio per lasciarla solo agli scrittori... No, fortunatamente non c'è nulla di casuale nel meritato trionfo di questo anarchico. | << | < | > | >> |Pagina 286M'interessa l'etica perché rende la vita umana accettabile; e l'estetica perché la rende umanamente desiderabile. [...] Ebbe un incidente e nacque. [...] La sua attrattiva? Si limita a quella qualità che può far dimenticare l'assenza di tutte le altre, ma che non può sostituirne nessuna completamente: l'estrema giovinezza. [...] Lo sviluppo fisico e quello intellettuale si assomigliano per il fatto che entrambi esigono molto tempo da dedicare agli esercizi. Ma sono diversi in questo: la ginnastica e l'allenamento atletico sono molti noiosi, mentre il risultato fisico che ne consegue è assolutamente un trionfo; invece, il meglio della vita intellettuale è la preparazione - leggere, studiare, pensare, dialogare con i saggi -, ma la dimostrazione finale di ciò che si è acquisito (concorsi, conferenze, trattati magistrali...) è fastidiosa e monotona come fare mille flessioni. [...] E pensare che l'interesse per la filosofia comincia con la sorpresa davanti all'abisso della morte inesorabile e finisce a cercare bibliografie! [...]
Ciò che è invidiabile della bellezza è che non ha
bisogno di spiegazioni.
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