Copertina
Autore Tiziano Scarpa
Titolo Cosa voglio da te
EdizioneEinaudi, Torino, 2003, L'Arcipelago 24 , pag. 206, cop.fle., dim. 12,2x18x1,5 cm , Isbn 978-88-06-16530-7
LettoreAngela Razzini, 2010
Classe narrativa italiana
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Abitavo a due passi da un negozio di cravatte


Abitavo a due passi da un negozio di cravatte, in una via secondaria di una città del nord. La via era dedicata allo scienziato sacerdote Lazzaro Spallanzani, che il 3 settembre 1788 salí sul monte Etna fino ai bordi del cratere, dove meditò a lungo dinanzi al ribollire della lava.

Nel negozio di via Spallanzani lavorava una commessa. Aveva i capelli biondi come un tizzone di braci. Di solito li raccoglieva in una treccia, ma almeno una volta alla settimana li teneva sciolti sulla schiena. Le arrivavano sotto la cintura.

Passavo ogni giorno davanti al negozio di cravatte, ma non osavo fermarmi davanti alla vetrina. Sbirciavo i capelli della commessa, rapinosamente, senza smettere di camminare. Le ricadevano dietro le spalle accarezzando morbidi maglioncini. Mi guardavo intorno, stupito dell'assenza di alveari. Come mai dentro quel negozio non volava nemmeno un'ape? Com'era possibile che gli sciami golosi di miele non dimorassero accanto a quella capigliatura?

Ogni giorno passavo e ripassavo davanti al negozio di cravatte. Non avevo il coraggio di soffermarmi davanti alla vetrina. Adocchiavo la commessa tutta sola, intenta a leggere un libro, senza dubbio un romanzo d'amore. Ogni tanto, nel negozio s'intravedeva un cliente. Si provava decine di cravatte per strozzarsi davanti a lei.

Rincasavo. La immaginavo nuda, diritta, con i capelli di miele che le colavano lungo la schiena. Ai suoi piedi, decine di signori in camicia e mutande la imploravano cantando inni gutturali. Si annodavano una cravatta di magma intorno al collo, la stringevano a strattoni.

- Non è la mia misura, non è la mia misura! - rantolavano i signori in mutande, strabuzzando gli occhi. Si strangolavano.

Immaginavo la commessa nuda, in piedi, avvolta nella sua cascata di capelli. Con le dita formavo un cappio intorno al mio sesso, lo tenevo stretto nella mano. I signori in mutande vacillavano sulle gambe pelose, stramazzavano al suolo tutti quanti insieme. La commessa nuda mi porgeva la sua capigliatura e la annodava gentilmente intorno al mio collo, attirandomi a sé. In quel momento mi sentivo pungere da uno spasmo acuto. Dal mio sesso sbolliva un fiocco liquoroso.

Scrissi una poesia dedicata alla commessa. La intitolai: Ai tuoi capelli. La rilessi. Era una poesia commovente. Immaginai la mia commessa che la leggeva, nuda, in piedi. Intorno a lei, i cadaveri dei signori pelosi si rodevano dall'invidia. Mi masturbai. Ne scrissi un'altra. La intitolai: Ai tuoi capelli. Ne scrissi un'altra ancora. La intitolai: Ai tuoi capelli. Si intitolavano tutte: Ai tuoi capelli. Scrivevo e mi masturbavo, mi masturbavo e scrivevo. Mungevo l'amore da me stesso. Fantasticavo.

Scelsi la poesia piú ispirata. Comprai un foglio di carta di canapa cruda. Lo piegai e lo ripiegai, con il tagliacarte ne ricavai decine di biglietti della grandezza di una banconota. Intinsi il pennino nell'inchiostro dorato, distillato dalla fabbrica di pigmenti Windsor & Newton. Copiai e ricopiai la mia poesia. Scelsi la copia con la calligrafia che dava l'impressione di essere la piú spontanea.

Attesi il giorno in cui la commessa indossava i suoi capelli sciolti. Mi feci coraggio. Per la prima volta, entrai nel negozio.

La commessa mi guardò negli occhi. Mi sorrise.

Non riuscivo a parlare. Strinsi i denti. Mi feci capire a gesti. Indicai la cravatta piú costosa, la cravatta di seta viola. La comprai senza provarla. Lasciai scivolare sotto le banconote il biglietto di canapa cruda istoriato dai miei versi d'oro.

Corsi fuori dal negozio. Boccheggiavo.

Mi barricai in casa. Sprangai la porta e rinserrai le finestre.

Per una settimana non ebbi il coraggio di uscire dalla mia stamberga. Non mangiai pressoché nulla. Non avevo fame. Non abusai sessualmente di me stesso, né del fantasma della commessa. Bevvi molto vino.

L'ottavo giorno telefonai al fido Scarpa, l'amico che mi dava qualche soldo in cambio delle autoradio e dei fanali di bici che riuscivo a rimediare per le strade. Gli illustrai la situazione. Lo mandai in avanscoperta.

Attesi accanto al telefono. Sospiravo.

Mi richiamò quella sera stessa. Era passato davanti al negozio, aveva investigato attraverso la vetrina.

- La tua bella biondona - mi riferí il fido Scarpa - non c'è piú. Al suo posto lavora un tipo con i capelli rasati.

Mi sentii mancare.

Per tutta la notte restai come stordito. Feci incubi da sveglio, con gli occhi sbarrati nel buio.

La mattina dopo decisi di porre fine alla mia clausura. Barcollando, mi feci strada verso la luce. Aprii la porta dell'appartamento che dava sul pianerottolo, all'ottavo piano. Affrontai il capogiro delle scale, il sozzo travaglio dell'atrio.

Un lembo di chiarore abbacinante, poggiato sulla cassetta della posta accanto al portone, mi ferí gli occhi. Era un pacchetto di carta bianca. C'era scritto: «Al compratore di cravatta viola».

Lo aprii.

Dall'involto cadde a terra un biglietto. Lo raccolsi:

Gentile Signore,

mi perdoni se apro il mio cuore a Lei. L'amore della mia vita mi rifiuta. Egli non mi vuole o, il che è lo stesso, non mi merita. La ringrazio per i versi cosí sentiti che ha voluto dedicare alla mia capigliatura. Le faccio dono della parte di me a Lei tanto cara.


L'involto conteneva la treccia della commessa. Un crampo mi torse lo stomaco. Vomitai vino e succhi gastrici su quella febbricitante cascata di miele.

Non mi reggevo in piedi. Tornai di sopra nella mia stamberga. Svenni. Quando mi riebbi, fissai la treccia al moncherino di lampadario che pendeva al centro del soffitto.

Salii su una sedia, saldai la treccia attorno alla gola, deciso a impiccarmi. Saltai a terra. Una pioggia di calcinacci mi piombò sulla testa. Il moncherino del lampadario mi colpi sulla fronte, lacerandomi la pelle. Sentii il sangue caldo colarmi sulla faccia, fino in bocca.

Mi avvolsi un asciugamano intorno alla testa.

Dopo che ebbi finito di medicarmi la fronte, annodai un elastico attorno a un capo della capigliatura e sciolsi il resto della treccia bionda che puzzava di vino e sangue.

Riempii la vasca da bagno di acqua fredda, vi feci gocciolare qualche stilla di sapone liquido. Immersi la capigliatura legata con l'elastico, sventagliai con delicatezza la coda di cavallo che si sparpagliò sull'acqua come un fiotto di anemoni vivi. Dopo un'ora la tirai fuori dall'acqua e la appesi sullo stenditoio. La lasciai sgocciolare in tranquilla solitudine.

Quando rientrai in bagno, nel pomeriggio, la capigliatura rifulgeva impregnata di luce, come una colonna di fibre ottiche incandescenti. Un raggio di sole la attraversava infiammandola di bagliori, sembrava una fune di tungsteno galvanizzata da un flusso di elettroni.

Accesi la mia radio, ruotai la manopola della sintonizzazione alla ricerca di una musica solenne.

Sposai la capigliatura della commessa.

Come anello nuziale, le infilai un cilindro d'argento, unico superstite di un antico corredo di portatovaglioli.

Quella notte andai a letto con la mia nuova consorte.

Iniziò cosí il nostro matrimonio felice.

La mia amata mi riamava di amore appassionato.

Sapeva essere molto spiritosa, i suoi ciuffi si raggruppavano in piccoli pennelli piumati che mi vellicavano sotto le piante dei piedi, sui fianchi teneri del tronco, sotto le ascelle, facendomi traboccare in sonore risate.

La acconciavo con dolcezza in treccine lasche, appendevo sulle punte dei capelli alcuni piccoli coralli, dov'erano incastonati frammenti di lampadina. Mi fustigavo la schiena di notte, nella mia stanza, percorrendo innumerevoli giri intorno a una candela accesa sul pavimento. Di mattina sciacquavo il sangue secco dalla pelle della schiena, mi guardavo allo specchio per leggere alla rovescia i graffiti che il mio amore aveva scritto su di me.

Arrotolavo alcuni capelli alle chiavi di una vecchia chitarra. Pizzicavo le corde sottili con la punta delle unghie. Mi rispondevano tintinnando metallicamente.

A volte li separavo pettinandoli uno per uno, li facevo scorrere fra i miei polpastrelli insalivati. Li appendevo alla finestra, uno accanto all'altro, con pazienza, guardavo il paesaggio striato trapelare dietro il velo biondo, oltre le esilissime sbarre, attraverso i filamenti di pioggia disegnati dai capelli.

Li spostavo tutti quanti, dalla finestra alla porta della camera, uno alla volta, rimontavo la tenda di capelli sotto l'architrave, entravo, uscivo, rientravo. Oltrepassavo avanti e indietro quella soglia di capelli, li fendevo con il naso, li sentivo scorrere sulla mia faccia mentre avanzavo di un passo.

Ricomponevo la coda di cavallo, che colava densa e pastosa nelle mie mani, si inerpicava sul mio corpo come la femmina di un serpente, un fallo sfrangiato da migliaia di fessure. Di notte mi facevo spazio dentro quella foresta di vagine.

Vivemmo felici cosí per un mese.

Poi, una notte, la mia consorte mi fece un discorso che mi turbò molto:

- Amore mio, tu sei sempre piú debole e pallido. Perdi sangue, non mangi per causa mia. Io non posso sopportarlo. Guardami bene: guarda come mi intristisce averti ridotto in questo stato.

La esaminai con occhi nuovi: era leggermente infeltrita, i suoi capelli cominciavano a sfibrarsi. L'avevo lavata troppe volte, con esagerato vigore l'avevo strofinata sul mio corpo. La capigliatura mi sussurrò quale sarebbe stato il suo e il mio destino.

Obiettai. Protestai. Arrivai a strillare, a umiliarmi. La scongiurai in ginocchio. Non ci fu nulla da fare.

Telefonai al fido Scarpa per proporgli l'affare. Mi ascoltò in silenzio, poi sbottò:

- Senti, non me ne frega un cazzo di una vecchia parrucca. Anzi, se devo dirtela tutta, mi fa pure un po' schifo -. In compenso mi suggerí un indirizzo di via Tertulliano.

Accarezzai il mio amore, la lavai per l'ultima volta. La pettinai con un olio profumato. Splendeva come il giorno del nostro matrimonio.

Incartai la capigliatura dorata in un involto candido, la portai nel negozio di via Tertulliano. La proprietaria era quasi calva, sulla sua testa brulla qualche ciuffo giallastro sembrava dimostrare alle clienti la necessità di mascherare simili devastazioni.

Consegnai l'involto di carta alla proprietaria. Valutò il mio amore con malagrazia, palpando la capigliatura fra le sue dita rugose.

— Una matassa cosí può trasformare in una gnocca anche una cessa, - commentò.

Mi diede una cifra sufficiente ad acquistare tre cassette di vino e un'ora con una puttana.

Rientrai a casa dopo un'ora e mezza, trascinando tre cassette di vino su per le scale. Mi abbrutii per un'altra settimana, o forse di piú. Il tempo non si lasciava contare, né contava piú nulla per me.

Di notte andavo in via Tertulliano, in pellegrinaggio presso il negozio di parrucche, a spiare il mio amore che sfavillava fra le teste in offerta speciale. Avevano straziato i suoi nastri d'oro soffice arricciandoli in un cespuglio di boccoli.

Le mandavo baci, stampavo le mie labbra sulla vetrina, accarezzavo lo schermo trasparente che ci separava. Disegnavo con la punta delle dita i contorni inanellati della sua immagine.

Benché mi rivolgesse la nuca, con quel folto rigoglio di antenne a spirale, la capigliatura non sembrava avermi riconosciuto. Decine di riccioli si aprivano come orbite cieche, mi fissavano con i loro sguardi cavi. Mi illudevo che il mio amore facesse finta di nulla per risparmiarmi altra sofferenza. Irrigidendosi in quella posa altera forse pensava di aiutarmi: se non a detestarla, almeno a placare me stesso con una qualche forma di rassegnazione.

Mi rassegnai. Mi chiusi in casa. Bevvi altro vino.

Poi, una mattina, dissi basta. Era venuto il momento di uscire allo scoperto. Mi diressi verso il negozio di cravatte in via Spallanzani. Volevo confidarmi con la commessa. Ero intenzionato a dirle tutto.

Vidi il suo cranio rasato attraverso la vetrina. A suo tempo, quel drastico taglio di capelli aveva ingannato il mio amico: ignaro del sacrificio della capigliatura bionda, il fido Scarpa doveva aver pensato che si trattasse della testa di qualcun altro.

Entrai nel negozio di cravatte. La commessa mi dava le spalle. Ne approfittai per confessarle il mio dolore, senza lasciarmi intimidire dai miei stessi preamboli:

- Mi sono innamorato dei tuoi capelli - cominciai a dire d'un fiato. - Li ho amati piú della mia vita, e ne sono stato riamato, ma alla fine mi hanno voluto abbandonare. Non posso vivere senza di loro. Tu li hai avuti presso di te per cosí tanto tempo: insegnami come fai a rinunciare alla loro carezza. Come è possibile vivere senza? E se non è possibile, come posso riconquistarli? Dimmelo tu, che li hai sentiti crescere su di te, e ne conosci dall'interno ogni intima fibra.

- Mi sta prendendo per il culo? - mi rispose la commessa con una sconcertante voce baritonale.

La testa che aveva parlato si girò. Il volto era quello di un ragazzo, piantato sul corpo di un giovane adulto maschio.

Ci fu qualche istante di imbarazzo. Gli spiegai, biascicando, il mio equivoco.

- Ah, la capellona, - mi disse il ragazzo, con un'espressione stolida in viso. - Si è licenziata. Mai piú vista.

Non ci fu verso di ottenere da lui altre informazioni. La mia dichiarazione d'amore per la capigliatura della commessa doveva avermi messo in cattiva luce. Oppure, quel giovane uomo meschinamente pelato provava gelosia per la mia passione.

Vagai per le strade, offuscato da pensieri brutti. Senza farlo apposta mi ritrovai in via Tertulliano, di fronte al negozio di parrucche. La vidi sfavillare dall'altra parte della strada. Fu questione di un attimo: «Riavrò la vita della mia vita, - decisi, - costi quello che costi». Non avevo un soldo in tasca, ma avrei dato un braccio per riaverla.

Attraversai la strada e sentii un tuffo al cuore. Nella vetrina brillava una zucca calva di polistirolo granuloso. La capigliatura non c'era piú.

Entrai nel negozio con il cuore in tumulto.

La proprietaria mi assicurò che la parrucca era stata venduta pochi minuti prima. — L'ha comprata una tipa, — mi informò.

Mi gettai per la strada, correndo alla rinfusa. Scansai macchine, inciampai su una madre che spingeva la sua carrozzina. Mi muovevo febbrilmente, senza una direzione, lasciandomi guidare da una mistica lucidità. Mi espandevo a macchia d'olio.

All'improvviso davanti a me si spalancò una piazza, presidiata dalla statua di un panciuto condottiero.

Un'aureola d'oro lampeggiava sul marciapiede come un semaforo semovente.

La avvistai.

La riconobbi.

La raggiunsi.

Le camminai alle spalle per qualche passo.

Protesi un braccio, la sfiorai con indicibile emozione.

La ragazza che la indossava si voltò, mi puntò addosso il suo sguardo incollerito.

- Che cazzo vuoi!? - mi apostrofò.

Spiegai con molta calma che cosa ci stava accadendo. La rassicurai. Le offrii una somma esorbitante.

- Gira al largo, - rispose la portatrice abusiva del mio amore.

Allora le misi una mano sulla nuca, afferrai una ciocca, la strattonai per staccare la chioma adorata da quel cranio posticcio. La capigliatura non si scollava. Tirai piú forte. Fra le dita mi rimase un piccolo ciuffo di capelli e un lembo di pelle ancora viva.

La ragazza si mise le mani sulla testa e mandò un grido acuto.

- Mi sta scalpando, - strillava, - questo mostro mi sta scalpando!

Poi sopraggiunse uno di quegli scagnozzi armati che difendono il denaro delle banche. Qualcosa di solido si abbatté su di me. Caddi a terra picchiando la testa.

Mi risvegliai molte ore dopo in questa dimora piena di luce.

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A guardarmi non si direbbe


A guardarmi non si direbbe, ma io ho fatto un volo di cento metri. Mi sono buttato a picco sul torrente andino, e mentre io cadevo, a una spanna dal mio naso cadeva insieme a me la cascata delle Malafurias, ma ero io che scrosciavo roboante. Io precipitavo piú veloce dell'acqua.

Ho gridato a capofitto nell'abisso, con questa affabile pancetta, e i ciuffi di capelli, tutti e due, sparati sulle tempie, aperti come ali, da tutte e due le parti della testa, sí, pelata.

Possiedo il video, per chi lo mette in dubbio.

Si è sentito l'urlo di un maiale scannato, ed ero io. Pesante come l'anima di un porco morto, io sono caduto giú.

Io, giuro, con queste mie guanciotte da commercialista, sono andato a sbattere di faccia contro l'acqua. Un tonfo immane ho fatto nella pozza, dove il torrente era piscina che bolliva. Ho serrato di colpo le mascelle e ho morso, ho morso la corrente.

Mi sono ritrovato una trota di tre chili fra i denti.

Io sono piombato come il falco predatore, con questa mia testolina tonda. Mi sono tuffato, adunco e fatale, e ho perforato l'acqua, l'ho fiocinata, e ho fatto diventare morta la trota che era sana come un pesce. Mi spiace, trota, ma stava scritto: ero il tuo destino, io.

La fune elastica mi ha risucchiato di nuovo in alto, la trota schiaffeggiava la mia guancia con la coda, io masticavo sapore di animale vivo, via dalla sua furibonda esistenza torrentizia l'avevo strappata, a morsi.

Per una settimana sono andato in giro con gli occhi neri. Pareva che mi avessero preso a pugni, tanto forte fu l'impatto con l'acqua, dopo cento metri di strapiombo. È stato cosí che ho dato la mia occhiata al torrente, il mio colpo d'occhio.

Quello sí che fu GUARDARE.

Cadere addosso alle cose da vedere. Schiantarci gli occhi sopra. Andare a sbattere con le pupille aperte. Guardare il marciapiede come lo guarda il suicida quando atterra.

Ma se fosse stato per me, oh, se fosse stato per me... Invece di buttarmi bambinone dagli strapiombi in Cile, sarei rimasto tutta l'estate a fissare il visino di Teresa. Stare di fronte a Teresa, lei in poltrona, io inginocchiato sul tappeto, nel salottino del mio bilocale, a Mestre, provincia di Venezia. Scarabocchiare su un bloc notes la sua bella faccia con la penna a biro, da mane a sera...

Non ho mai saputo disegnarla. Non sapevo disegnare. Ma era meglio cosí. Gli scarabocchi che mi uscivano quando le copiavo il visino bello erano il ritratto delle mie budelle appassionate. Non imprimevo l'immagine di Teresa sulla carta a quadretti: sui quadrettati fogli io esprimevo le mie entragne coratelle. Tutto un attorcigliamento arruncigliato, un imperscrutabile tumulto... Quei garbugli sbisciolati a biro erano ciò che ero io quando le stavo di fronte.

Rimira questi sgorbi, Teresa mia irriproducibile, incopiabile. No, non sono io, è il ritratto di ciò che si impadronisce di me quando ti guardo.

Oh Teresa, Teresa... Accetta questi miei scarabocchi, non di bambino ma di maschio adulto, tutti sbavati di viscoso inchiostro sciolto d'afa. Essi sono l'impronta veritiera delle mie viscere ingroppate.

Este es el mio sentimiento: mira, Teresita.

Teresa non ha apprezzato.

È partita da sola, mi ha lasciato cosí, attorcigliato, scarabocchiato. È stato allora che sono volato in Cile, per appendermi alle funi e precipitare giú dalle Ande.

Ho teso fino allo spasimo i miei intestini ingarbugliati, Teresa mia, Teresa mia mia mia mia mia mia mia mia mia mia mia mia mia...


Lo so che nessuno mi darebbe un centesimo, ma sono saltato in groppa ai dromedari da corsa dell'Alto Nilo. Con le lacrime agli occhi ho contrabbandato le bombe a mano tra le indomite genti somale. Si dilettavano a farle esplodere nell'intestino dell'avversa fazione, quei valorosi. Dilatavano gli sfinteri avversari, li laceravano se era il caso, di modo che accogliessero le granate bitorzolute. Strappavano dipoi l'anello detonatore, correvano a godersi da lungi lo spettacolo di un culo detestato che deflagra.

Ma io non mi pascevo dei loro passatempi, della politica del Corno d'Africa non mi curavo. Io sobbalzavo contrabbandando bombe sui dromedari da corsa, mi afferravo ai ciuffi di pelo sul cocuzzolo della gobba, e mi pareva d'aggrapparmi a un pennacchio d'erba sull'orlo di un precipizio, tanto rapide scalpitavano quelle bestie iraconde. Io rovinavo addosso all'aria, precipitavo orizzontalmente, affondando nel galoppo.

Ho sfinito dozzine di dromedari avvezzi allo scatto, ho insegnato che cos'è il vento a quell'aria tormentata dalle aride burrasche. Ho spazzato il deserto petroso, ho fatto sbigottire i granelli di sabbia inchiodati a terra dal sopore dei millenni.

Ero monsone di sudore e collera.

L'aria pigra ho inumidito, a rotta di collo scavavo tunnel di vento dentro le montagne d'aria, dentro quel cielo immenso, bassissimo, ancorato al suolo. Nell'azzurro accasciato a terra dal suo peso, io procedevo impavido, fendevo il ventre molle del cielo panzuto.

Ero stendardo tempestoso, infuriavo garrendo fra le dune. Ad ogni miglio mi fermavo, piantavo un candelotto dentro la tana di un topo, per far sgorgare geyser di sabbia, pietre miliari nebulose, torri di guardia evaporate, miraggi di oasi secche.

Ma se avessi dato retta al quieto pulsare del mio sangue, me ne sarei rimasto a Mestre, in vacanza con Teresa, in vacanza nella mia cucina... Teresa, mia Teresa... Ti avrei insegnato tutti i trucchi per prendersi gioco dell'afa. È un'imbelle, l'afa, un'indolente, lo sapevi, oh mia Tu? Signorinetta che te ne vai in giro onusta dei tuoi occhioni, lo sapevi che basta mettersi di fronte al frigorifero aperto, i portelloni spalancati, con un ventilatore dentro ogni reparto del frigorifero? Lo senti, amore mio amorissimo, che meravigliosa granita di brezza promana dal reparto surgelati?

Io non avevo nessun bisogno di cercare la mia vacanza per il mondo. La mia vacanza era lei, la mia vacanza si chiamava Teresa. Passavo le ore sulla porta del bagno a fischiettare tutti i dischi dell'estate. Tutte le canzoni del Festivalbar ho imparato, per ispirare a Teresa la pipí, per stimolare la sua distilleria ingrippata. Aprivo tutti i rubinetti, la doccia scroscia, il mio fischio ti struscia, lasciati andare, Teresa, alza la coscia e sgocciola.

Teresa ha storto il naso, non le piaceva che stessi li impalato sulla porta del bagno mentre lei spingeva seduta sulla tazza.

- Nemmeno cagare in pace si può? - è sbottata.

Oh, Teresa, la tua pace, la tua pace...

Il mio tafferuglio, il mio subbuglio.

Il mio amore l'hai fatto andare giú nel cesso come un escremento rancido appestato...


Allora me ne sono andato a rammaricarmi, a immalinconirmi... Sí, ho ceduto, mi sono voltolato nel truogolo della tristezza.

Ho sentito un bisogno di lago.

E cento ne ho trovati, mille ne ho contemplati.

Tutti i laghi di Finlandia ho contornato, passo passo, sponda sponda, e mi sentivo come palla da flipper, lucidata a specchio, che rifletteva tutto quanto il cielo. Ed io specchiatamente riflettevo tutti quanti gli specchi d'acqua che riflettevano il cielo.

Cosí, vuoto e riflettente mi purgavo, e non volevo pensiero, non volevo passione, volevo solo il riflesso d'un riflesso nell'animo mio, essere un riflesso, essere portatore di riflesso, e nulla piú.

I laghi finnici erano miei fratelli consanguinei, conacquinei mi sono stati i laghetti. Specchiavano le nubi del cielo cosí supinamente, cosí scolarettamente... O non era piuttosto il cielo a riflettere i laghi? Era la volta cilestrina a rispecchiare nuvolaglie di latte immerse in quelle pozze lacustri, ciuffi di mucillagini subacquee, branchi sperminosi di avannotti?

L'alto cielo rannuvolato duplica forse le nubi degli abissi?

Io rimbalzavo da un lago all'altro come anonima pallina da flipper rimbalza fra i respingenti.

Ero una biglia a specchio che non diceva piú: «io», ma: «paesaggio». Non dicevo piú: «eccomi», dicevo: «ecco il visibilio». Non dicevo piú: «questo è il mio volto», dicevo: «questo è il mio dintorno».

Come uno specchio sferico mi sono tatuato di tutto ciò che c'era fuori, per coprire il mio rossore, il mio pallore, il mio languore. Ed era tatuaggio mutevole, era pellicola d'immagine che scorreva sulla mia pelle, e mi lustrava, mi purificava. Vetril di verità superficiale, vetrofanie di mondo detergevano il mio spirito.

Purtroppo, oltre il confine estone ho commesso un errore.

Mi sono impadronito di un sidecar, una di quelle moto con il guscio a fianco, un ovulo ospitale e ruota di triciclo. Non ho avuto cuore di rifiutare passaggi alle ragazze snelle che trasgredivano la frontiera clandestine.

Tenendo saldo il mio manubrio con ambedue le mani, a fianco di costoro quanto sbadigliavo! A bocca aperta, a tutta birra sulla moto, quante sanguinarie zanzare baltiche ho ingollato, feroci punteruoli che ti pinzano fin dentro l'esofago.

Oh, le mie noiose passeggere d'Estlandia... Carnagioni dorate fino a non poter distinguere il confine degli smunti capezzoli. Abbronzate fin dentro il solco dei glutei, che esse porgono all'ultravioletto sole boreale divaricandoli, per piú piacere ai loro linfatici maschi sodomiti.

A frotte ne ho scorrazzate di qua dal confine, pallosissime giovani poppute, non mi potevano pagare, quelle fichissime straccione, mi ripagavano con le solite sfuriate di sesso.

Mi abbuffavo di quella carne immotivatamente allegra... Ammiccavano, ammiccavano sempre e dappertutto con quei loro sorrisi sinceri, sorrisi vuoti o pieni che fossero del mio malinconioso cazzo. Quanti tediosi orgasmi mi hanno munto, quante uggiose sborrate a sbuffo... Uff.

Ma se avessi trascritto a chiare lettere ciò che mi dettava il mio desiderio, cosí da costringermi a leggerlo, avrei passato le ferie con la mia donna e signora e proprietaria. A letto con Teresa, mano nella mano, nella mia cameretta, davanti al televisore senza audio. Ripetere a memoria dalla prima all'ultima battuta i dialoghi di tutti i film che già guardammo insieme, io e lei, recitarli a fior di labbra, sincronizzarli con le labbra degli attori...

Tu hai preferito gli squallidi arcipelaghi.

Tu hai scambiato per un mese a Ponza le nostre meravigliose avventure casalinghe.

Non possedevi il coraggio bastevole ad amarmi. E non volevi ammetterlo, Teresa.

Tu mi facevi lunghi predicozzi.

- Io ti faccio piú male che bene, non lo vedi? - sostenevi.

Di certo mi facevi piú male che bene a dire che mi facevi piú male che bene.

- Io ho un cattivo influsso su di te. Un influsso deleterio! - rincaravi.

La tua mala influenza... Il tuo disinteresse. Il mio interesimento...

- Tu ti esprimi veramente per ciò che sei solamente quando sei lontano da me, - sostenevi.

Pretesti, quanti pretesti accatastavi.

- L'impraticabilità del nostro amore, - dicevi.

Sei tornata da Ponza, strabellissima e rosea.

Da te ho ricevuto solo secchiate di buonsenso. - Hai la fissa, - dicevi, - togliti questa fissa dalla testa, tu non sei innamorato di me.

Se apri bocca, Teresa, è solo per distruggere il nostro spericolato amore.

A fare gli sbruffoni per il mondo sono capaci tutti, ma chi possiede l'ardimento per restare a casa ad amare l'amor suo, eh, Amore Mio?

Tu parli, parli, parli, Teresa, e intanto fai naufragare i miei tenerissimi progetti...

Perché piuttosto non metti alla prova la nostra passione, invece di dirla esausta e a me nociva? Perché non mi accontenti, per una volta almeno?

Passiamo Ferragosto dentro il mio sgabuzzino, sotto il refrigerante luminoso neon... Scartabelliamo insieme la Nostra Storia d'Amore. Te le rileggo tutte, le cartoline che ti scrivevo alle medie, tutte le lettere che mi hai restituito a pacchi, a mucchi. Passiamo il Ferragosto a rirammemorarci, Teresa, io e te, noi due presenti e eterni...

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