Copertina
Autore Filippo Schillaci
Titolo Caccia all'uomo
SottotitoloQuello che è indispensabile sapere sui cacciatori
EdizioneNuovi Equilibri, Viterbo, 2005, eretica , pag. 160, cop.fle., dim. 120x167x10 mm , Isbn 978-88-7226-881-0
LettoreGiovanna Bacci, 2005
Classe ecologia , natura
PrimaPagina


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Indice


Prefazione                                            3
Capitolo 1 - Di cosa stiamo parlando?                 5
Capitolo 2 - Cosa accade nelle campagne italiane?     9
Capitolo 3 - Le giustificazioni dei cacciatori       35
Capitolo 4 - Caccia contro agricoltura               47
Capitolo 5 - O vacanze o fucilate                    62
Capitolo 6 - Se la caccia fosse un lavoro            75
Capitolo 7 - Il nostro futuro:
             servi della gleba dei cacciatori?      105
Capitolo 8 - Brandelli di psicologia del cacciatore 116
Capitolo 9 - Un po' di storia, ovvero come
             siamo giunti a questo                  121
Capitolo 10 - Manuale di autodifesa del cittadino   133
Appendice                                           153



 

 

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Pagina 5

Capitolo 1

Di cosa stiamo parlando?


Sappiamo veramente cos'è la caccia oggi? Pensiamo che sia qualcosa di lontano da noi, che non fa parte della nostra vita? Un'attività quasi romantica, retaggio dell'istinto primordiale di sopravvivenza dell'uomo e le cui vittime sono solamente gli animali?

Ci siamo resi veramente conto di cosa è la caccia oggi?

Forse è il caso di ripartire da zero. La caccia consiste nel libero uso di armi da fuoco da parte di dilettanti in luoghi non protetti. Luoghi in cui mentre il "cacciatore" spara, nulla vieta che qualcun altro stia transitando o sostando. Perché è nel giardino di casa sua, perché è un agricoltore che sta lavorando nel suo campo, perché ha deciso che è una giornata così bella da meritare una passeggiata in un bosco, o per mille altre legittime, indiscutibili ragioni. Egli è lì, dove ha il diritto di essere, e lì, a poca distanza da lui, c'è il cacciatore, col suo fucile puntato e il suo diritto, sancito per legge, a farne uso. Che questi due diritti siano incompatibili, che si escludano a vicenda, è la più intuitiva delle cose. Non sembra però esserlo per i legislatori i quali, da decenni, da sempre, in tutto ciò non trovano che ci sia nulla di strano.

Questo libro nasce in un luogo e in un momento precisi: nasce la mattina del 3 dicembre 2001 alle ore 8 nel giardino di casa mia. In quel momento un individuo armato con la licenza di caccia in tasca, penetrato attraverso un varco abusivo in un podere vicino, esplose una fucilata contro la siepe che separa il mio giardino da quello accanto, a due soli metri dal punto in cui ci trovavamo io e un'altra persona e a due sole ore dal momento in cui, nell'altro giardino, ai piedi di quella siepe, sarebbero giunte a giocare tre bambine.

La sparatoria di quella mattina non era un fatto isolato, il singolo gesto irresponsabile di un pazzo criminale. La zona in cui abito infatti è percorsa in lungo e in largo da individui armati i quali fanno generoso uso delle armi di cui sono "legalmente" in possesso, incuranti della presenza di numerose abitazioni e dei relativi abitanti. E la stessa cosa si ripete con tetra puntualità in molti altri luoghi d'Italia in cui la caccia è consentita.

È stato questo dunque l'inizio del mio viaggio nel tunnel della caccia: poiché la caccia si occupava di me, non avevo altra scelta che cominciare a occuparmi di essa.

Vediamo innanzi tutto di comprendere le dimensioni del fenomeno. Nel 2002 in Italia i cacciatori erano circa 800.000. Ma questo numero, da solo, non dice molto. Dice di più se si pensa che l'esercito angloamericano che ha invaso l'Iraq durante la guerra del 2003 era composto da 270.000 uomini: dunque appena un terzo del numero di cacciatori presenti un anno prima in Italia.

La prima domanda che mi posi fu la più ovvia: possibile che lo scorrazzare di 800.000 individui armati, liberi di sparare a volontà nelle campagne, rimanga senza conseguenze per la sicurezza di coloro che vi abitano o transitano?

Non sapevo ancora che l'associazione Uomo Natura Animali (UNA) aveva pubblicato appena un anno prima Di caccia si Muore, una impressionante rassegna stampa che riassumeva undici anni di tragedie provocate dall'attività venatoria.

Contattai la Lega per l'Abolizione della Caccia (LAC), dalla quale ebbi conferma che gli "incidenti di caccia" (così vengono chiamati e così per ora li chiameremo anche noi) c'erano davvero. L'associazione ecologista ne stava effettuando il censimento e subito dopo la chiusura della stagione venatoria 2001/2002 rese noti alla stampa i risultati in un comunicato nel quale si legge fra l'altro:

«A fianco della guerra condotta agli animali un'altra guerra di proporzioni enormi viene condotta dai cacciatori: è quella ai propri simili. Ogni anno le cronache dei giornali segnalano raccoglitori di funghi scambiati per fagiani, escursionisti e gitanti impallinati, cacciatori che si sparano tra loro, agricoltori uccisi mentre lavorano nei campi, bambini sparati sulla porta di casa mentre giocano (...)».

«Tra i principali fattori che concorrono a una simile tragedia», afferma Roberto Piana, segretario nazionale, «vi sono il territorio densamente abitato e in gran parte urbanizzato, la mancanza di grandi superfici naturali, il reticolo viario grandemente diffuso, l'incoscienza e la stupidità di molti cacciatori. A questi si aggiungono gli esami-caccia non seri e non sufficientemente selettivi, la mancanza di adeguati accertamenti psicofisici, il fanatismo venatorio e soprattutto le armi di molti cacciatori, che rendono questa attività pericolosissima anche per la specie umana» (...).

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Pagina 35

Capitolo 3

Le giustificazioni dei cacciatori


Come si giustificano i cacciatori e i loro sostenitori quelle poche volte che si sentono in dovere di farlo? Vediamolo.


1. Umbria, novembre 2001

La prima settimana di quel mese in Umbria fu tragica: 3 morti nella caccia al cinghiale in appena due giorni.

Su tali fatti Sauro Presenzini, a quel tempo coordinatore delle Guardie Venatorie del Wwf umbro, fu chiaro: «Smettiamola di definirli incidenti di caccia, considerandoli semplici fatalità. Questi sono veri e propri omicidi colposi, causati dall'assurda imprudenza con la quale si maneggiano le armi. Nella maggior parte dei casi siamo davanti ad omicidi colposi. Non si può scambiare un uomo per un cinghiale, non si può sparare all'impazzata ogni volta che si muove una fronda. Queste morti nascono da imperizia, negligenza e colpa. La caccia, ormai, è un problema di ordine pubblico. Nei boschi non ci sono solo i cacciatori, ma anche cercatori di funghi, appassionati di trekking o persone che vogliono semplicemente trascorrere qualche ora all'aria aperta».

Fu così che per una volta sui giornali si parlò degli "incidenti" di caccia con grande rilievo. E se ne parlò perché la dichiarazione di Presenzini generò, da parte dei cacciatori e dei loro sostenitori politici locali, forti reazioni.

Ecco qualche esempio delle loro risposte.


Fausto Prosperini, presidente nazionale della Federazione Italiana Caccia: «È la stessa conformazione della regione, oltre che il tipo di cartucce utilizzate, a rendere a più alto rischio la caccia al cinghiale rispetto ad altri animali».

Questo significa ammettere che l'ambiente (selvatico e dunque incontrollabile) è un elemento cruciale e ineliminabile nel determinare i livelli di rischio della caccia. Ne riparleremo nel cap. 6.

«Ma l'idea di proibire questa particolare attività venatoria», continua Prosperini, «è assurda. Sarebbe come metter fuori legge le autostrade perché vi si verificano incidenti».

Il paragone con gli incidenti d'auto è molto caro ai cacciatori e lo ritroveremo nel corso di questo capitolo: ricorre con tale frequenza da essere ormai quasi un luogo comune.

Il più elementare buonsenso ci dice che è impossibile chiudere le autostrade in quanto viene da esse un beneficio sociale ineliminabile. Nonostante ciò il costo sociale causato dagli incidenti stradali è giustamente rinenuto eccessivo e si legifera allo scopo di ridurlo. Possiamo dire altrettanto della caccia? Il discorso - qualunque discorso - va posto in termini di rapporto costi/benefici, e poiché il beneficio sociale della caccia è nullo, altrettanto nullo è il costo sociale accettabile. Questa logica è del tutto estranea al modo di pensare del cacciatore, il quale non trova nulla di esagerato nell'attribuire al suo "hobby" la stessa rilevanza della circolazione automobilistica. Sulla visione assurdamente amplificata che i cacciatori hanno della caccia tornerò nel cap. 8.


Proseguiamo. Gianni Zaganelli, avvocato, membro dell'esecutivo nazionale di "Libera Caccia": «Parlare di "omicidi colposi" equivale a parlare di incidenti, in quanto le morti di questi giorni sono fatalità dovute a negligenza, imperizia e imprudenza, fattori che si possono verificare in qualsiasi momento della vita di una persona e non solo sul terreno di caccia».

Questa dichiarazione è totalmente incoerente: parlare di «fatalità dovute a negligenza, imperizia e imprudenza» è una contraddizione in termini. Una fatalità è qualcosa che avviene senza colpa umana; negligenza, imperizia, imprudenza sono colpe umane, dunque l'esatta negazione di una fatalità.

Ma Zaganelli non si ferma qui: prosegue in una sfrenata agiografia della figura del cacciatore: «I tesserini per la caccia vengono rilasciati soltanto a chi possiede una fedina penale pulita anche per quanto riguarda il certificato dei carichi pendenti. I cacciatori sono dunque per definizione le persone più limpide e trasparenti che esistano». Una affermazione offensiva nei confronti di tutti noi che cacciatori non siamo e che, chissà come, ci ritroviamo ad avere la fedina penale ugualmente pulita. Anche noi possiamo ritenerci sotto questo aspetto "limpidi e trasparenti", e in più non abbiamo l'inaudita pretesa di aggirarci armati per le campagne. Non si capisce perché colui che invece ha questa pretesa debba essere più "limpido e trasparente" di noi. «Sostenere che i cacciatori sparano all'impazzata», continua Zaganelli «è una notizia falsa e tendenziosa, per il fatto che, se le cose stessero davvero così, ogni giorno dovremmo contare centinaia di morti e di feriti». Centinaia no, ma un numero proporzionalmente più alto che in numerosi altri contesti sì. E così difatti è. Anche questo punto sarà approfondito nel cap. 6. «Invece», conclude Zaganelli «è in vigore nella categoria una severa autodisciplina». Un'autodisciplina che include spari alla cieca verso cespugli dietro cui si è intravista una sagoma, famiglie che vivono in stato di assedio asserragliate nelle proprie abitazioni, insomma tutto quello che è già emerso nelle pagine precedenti e con cui possiamo confrontare il valore di queste affermazioni.

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Pagina 47

Capitolo 4

Caccia contro agricoltura


"Gestione del territorio agro-silvo-pastorale": questo è l'insieme di attività nel cui ambito viene fatta rientrare la caccia. Naturalmente fra le parti in causa vi sono gli agricoltori, e i cacciatori ne sono consapevoli. Da sempre essi infatti attuano nei loro confronti una attività di propaganda che non ha mancato di dare i suoi pessimi frutti. Nel 1980, anno del primo tentativo referendario contro la caccia, su una pubblicazione del Partito Radicale si leggeva: «Non si comprende la logica difensiva delle associazioni venatorie, che affermano contemporaneamente: 1) che gli animali selvatici spariscono non per effetto della caccia, ma per l'uso di pesticidi e anticrittogamici in agricoltura, per l'inquinamento industriale delle acque ecc.; 2) che senza la caccia le specie si moltiplicherebbero in tali proporzioni da compromettere seriamente la nostra agricoltura. Delle due l'una!».

Senza dubbio. Ma le due affermazioni non solo si escludono a vicenda; ciascuna di esse è in sé discutibile. Qui mi occuperò brevemente della prima, lungamente della seconda. Perché è proprio su quest'ultima che i cacciatori hanno costruito un gigantesca mistificazione ai danni dei coltivatori riuscendo molto spesso a farsi passare per difensori dell'agricoltura, ovvero per l'esatto opposto di ciò che sono.


1. Il cacciatore "ambientalista"

La prima affermazione rientra nel quadro di una immagine che il cacciatore da sempre tenta di dare di sé: quella di "strenuo difensore dell'ambiente". In una indagine Ispes del 1987 è scritto: «Si sfoglino le pagine di "Diana" agli inizi del secolo, quando l'opinione pubblica era tutta centrata sui problemi del macchinismo industriale: ebbene si vedranno espresse ripetute preoccupazioni a riguardo del degrado ambientale e manifestate non poche attenzioni nei confronti degli animali domestici e selvatici».

Fin qui si può non meravigliarsi, perché è chiaro che il cacciatore ha interesse al mantenimento dell'integrità degli habitat: senza habitat sani niente animali selvatici da uccidere, senza animali selvatici niente caccia. Ma basta questo a qualificare il cacciatore come un ambientalista?

La stessa indagine Ispes notava una diversità di atteggiamento fra il cacciatore e l'ambientalista nell'approccio al mondo selvatico: «pratico-manipolatorio per il cacciatore, estetico-conoscitivo per l'ambientalista». Da notare l'eufemismo contenuto nella parola "manipolatorio": un po' pesante se si considera che la "manipolazione" consiste nel prendere a fucilate degli esseri viventi. Sarebbe stato più corretto utilizzare un altro termine: "predatorio".

Il sito internet del Wwf di Caserta forniva qualche tempo fa una illuminante stima degli effetti di un anno di caccia: 100 milioni di animali uccisi, 3.000 tonnellate di piombo (i pallini) e oltre 900 di plastica (i bossoli) disperse nell'ambiente. Uno strano modo di "preoccuparsi" del degrado ambientale.

Concentriamoci ora sulle posizioni espresse dai cacciatori "difensori dell'ambiente" nei confronti dell'agricoltura. Da un manuale di tecnica venatoria del 1979: «Una causa determinante della trasformazione degli ambienti naturali originari è indubbiamente lo sfruttamento agricolo dei terreni. Lo sviluppo dell'agricoltura nelle sue forme tradizionali, pur determinando la distruzione delle condizioni naturali preesistenti, permetteva il ristabilirsi di un nuovo equilibrio tra fauna ed ambiente. Con l'avvento delle moderne tecniche agricole la fauna delle zone coltivate ha subito profondi cambiamenti. Le continue operazioni colturali tendenti ad abbreviare il ciclo di produzione delle piante coltivate, l'impiego di mezzi meccanici che causano molte vittime fra gli uccelli da cova sul terreno, l'uso generalizzato e incontrollato di anticrittogamici, insetticidi, diserbanti e fertilizzanti, in parte legato al diffondersi delle monocolture, sono le cause più importanti che rendono sempre più difficili la vita della fauna selvatica in queste zone».


Riassumendo: no all'agricoltura convenzionale perché distrugge l'ambiente naturale, sì all'agricoltura che oggi chiamiamo biologica perché compatibile con esso. Difficile non essere d'accordo. E sembrerebbe dunque che almeno con quest'ultimo settore del mondo agricolo il mondo venatorio possa considerarsi in qualche modo in sinergia. Ma una sinergia implica un rapporto di reciproco beneficio e non è questo il caso. Perché se si valuta attentamente quel discorso ci si accorge che esso dice quali vantaggi la caccia può trarre dall'agricoltura biologica, ma non quali vantaggi possono venire a quest'ultima dalla caccia.

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Pagina 80

5. Sicurezza e prevenzione nella disciplina della caccia

L'attività venatoria è regolamentata in Italia dalla Legge 157/92, nel cui art. 1 si legge: «L'esercizio dell'attività venatoria è consentito purché non contrasti con l'esigenza di conservazione della fauna selvatica e non arrechi danno effettivo alle produzioni agricole».

Una omissione colpisce subito: che questo "esercizio" non costituisca pericolo per l'incolumità pubblica: un particolare cui il legislatore mostra fin dal principio di attribuire scarso peso, nonostante il fatto che «è chiaro che l'attività venatoria può porre in pericolo la tranquilla convivenza dei cittadini, la loro incolumità, particolari attività da questi svolte, ecc. ecc.».- Da dove ho tratto questa affermazione? Non da una pubblicazione animalista o ambientalista bensì dal già citato manuale di tecnica venatoria della Federazione Italiana della Caccia. Nuovamente, una fonte al di sopra di ogni sospetto, che sarà la nostra guida lungo gran parte di questo capitolo.

Il tema della sicurezza trova spazio nella Legge 157/92 in tre articoli: 12, 21 e 25.

L'art. 12 prevede per il cacciatore l'obbligo di stipulare una «polizza assicurativa per la responsabilità civile verso terzi derivante dall'uso delle armi o degli arnesi utili all'attività venatoria». Egli ha anche 1'obbligo di stipulare una polizza assicurativa «per infortuni correlata all'esercizio dell'attività venatoria». Viene citata l'eventualità di «morte o invalidità permanente». Il legislatore dunque riconosce che la caccia è un'attività ad alto rischio e riconosce come soggetti esposti a esso non solo coloro che la praticano ma anche altre persone. La tutela che egli garantisce è però limitata al risarcimento dei danni subiti.

Lo stesso principio guida l'art. 25, il quale istituisce un «Fondo di garanzia per le vittime della caccia» nei casi in cui il responsabile dei danni non sia identificato o risulti privo di assicurazione per responsabilità civile verso terzi. Il risarcimento è però limitato ai «soli danni alla persona che abbiano comportato la morte o un'invalidità permanente superiore al 20 per cento».

Nell'imporre questo, peraltro discutibile, limite il legislatore conferma che l'esposizione al rischio, anche per chi non è cacciatore, può risultare grave o perfino letale.

E la prevenzione? Non è trattata esplicitamente bensì unita ad altre disposizioni, sotto la comune dicitura "Divieti", nell'art. 21, il quale esaurisce tutto ciò che il legislatore nazionale ha ritenuto di dover dire sull'argomento.

L'art. 21 prevede il divieto di esercizio venatorio in alcuni luoghi, fra cui: giardini, parchi, terreni adibiti ad attività sportive, aie, corti o altre pertinenze di fabbricati rurali. Prevede inoltre delle distanze minime da rispettare dai fabbricati, dalle macchine agricole in funzione e dalle vie di comunicazione. Esclude però da queste ultime le strade poderali e interpoderali. Queste distanze sono di 100 m per fabbricati e macchine agricole, di 50 m per le strade. Diventano di 150 m se si spara in direzione di essi.

Molto interessante è un passo del citato manuale della Federazione Italiana della Caccia, in cui si discute su cosa debba intendersi per "vie di comunicazione" e in particolare "strade".

Ma prima una piccola osservazione: questo manuale risale al 1979 e dunque commenta in realtà la preesistente Legge 968/77 e non l'attuale Legge 157/92 che l'ha sostituita. La seconda, tuttavia, in tema di prevenzione e sicurezza ha "fotocopiato" quasi letteralmente la prima, e questo fa sì che considerazioni vecchie di un quarto di secolo rimangano oggi di piena attualità.

Ecco ora il passo che qui ci interessa:

«per strada deve intendersi quella via di comunicazione che è percorribile (salvo fatti eccezionali) in ogni stagione dai veicoli ordinari. Esistono tracciati in terra battuta che sono percorribili da questi, ma soltanto in alcune stagioni dell'anno; appena piove il tracciato diviene intransitabile; non siamo perciò dinanzi ad una strada. Egualmente con motociclette o auto fuoristrada si possono percorrere sentieri o carrarecce transitabili soltanto con carri agricoli, da trattori, o a piedi; anche in questo caso non siamo dinanzi a una "strada" come la legge intende, perché transitabile soltanto con mezzi particolari e non con veicoli ordinari.

La legge poi non impone il rispetto della fascia di m. 50 di distanza da quelle strade, che pur avendo i requisiti di transitabilità sopra detti (...) siano poderali o interpoderali; per poderale si intende quella strada che pur partendo da una strada pubblica, porta ad una unità poderale, servendo normalmente ad un numero limitato di persone addette a quel podere (anche se ivi possono passare altre persone per recarsi alla relativa casa), e lì si fermi senza proseguire; per interpoderale si intende quella strada che pur partendo da una strada pubblica, serve più unità poderali, congiungendo un immobile ad altri, ma poi sempre terminando senza sfondo alcuno.

Se al contrario questa strada, pur partendo da una strada pubblica e congiungendo diverse unità poderali, prosegue riallacciandosi ad altra strada pubblica, ecco che questa serve ad un numero indeterminato di persone e come tale rientra nel raggio del rispetto di m. 50 per l'esercizio venatorio.

In altre parole le strade senza sfondo non sono tutelate dalla legge, in quanto assai meno frequentate».


Interpretiamo: il singolo cittadino non è tutelato preventivamente come individuo bensì solo in quanto "immerso" in una collettività. Abbiamo visto che se egli è un turista il "fenomeno turistico" di cui fa parte deve (mi correggo: doveva) essere intenso affinché egli potesse essere al sicuro dalle fucilate. Allo stesso modo la strada su cui si transita deve essere "molto" frequentata. Dal momento in cui si lascia una via pubblica per incamminarsi lungo il viottolo che conduce alla propria casa di campagna si è al di fuori di qualsiasi tutela preventiva. Da quel momento nulla vieta che la persona sia esposta al tiro di colpi d'arma da fuoco. "Per sbaglio", s'intende, ma si converrà che dal punto di vista di chi riceve una fucilata questo è un dettaglio trascurabile.

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Capitolo 10

Manuale di autodifesa del cittadino


Siamo alla conclusione. Al punto in cui si impone una risposta all'inevitabile domanda: cosa si può fare? Come difendersi dall'individuo armato denominato "cacciatore"?

Diciamo innanzi tutto che, in ogni campo, abbiamo due modi per difendere i nostri diritti: individualmente e collettivamente. Individualmente possiamo farlo conoscendo le leggi dello Stato ed esigendo che esse siano fatte rispettare. Il che è già molto. Tuttavia, quando le leggi sono carenti, quando consentono ciò che non andrebbe consentito, l'autodifesa individuale non basta perché essa ha efficacia, appunto, entro i confini delle leggi esistenti ma nulla può affinché siano cambiate. Allora l'autodifesa deve compiere un salto di qualità, deve diventare collettiva affinché abbia il potere di mutare le leggi. È ciò che si chiama lobby quando ad attuarla sono i potentati economici, è ciò che si chiama democrazia diretta quando ad attuarla siamo noi cittadini qualsiasi.

Per tale motivo questo piccolo "manuale di autodifesa" sarà diviso in due parti: cosa ciascuno può fare individualmente e cosa noi possiamo fare tutti insieme.


1. Autodifesa individuale

La prima cosa da fare è conoscere le regole che l'individuo armato denominato "cacciatore" è obbligato a rispettare. Riassumiamo dunque i principali divieti, a cominciare da quelli contenuti nell'art. 21 della Legge 157 del 11 febbraio 1992.

1.1 I divieti

Luoghi in cui la caccia è vietata: giardini, parchi, terreni adibiti ad attività sportive, aie, corti o altre pertinenze di fabbricati rurali.

Distanze dalle case. La caccia è vietata a distanza inferiore a 100 metri da case, fabbriche, edifici adibiti a posto di lavoro, anche se al momento disabitati. Qualora il cacciatore spari in direzione di essi tale distanza sale a 150 metri.

Distanze da strade e ferrovie. La caccia è vietata a distanza inferiore a 50 metri dalle strade, comprese quelle comunali non asfaltate, e dalle ferrovie. È vietato sparare in direzione di esse da distanza inferiore a 150 metri. Sono escluse da questo divieto le strade poderali e interpoderali che risultano pertanto prive di qualsiasi tutela relativa all'incolumità pubblica.

Distanze da mezzi agricoli. La caccia è vietata a una distanza inferiore a 100 metri da macchine agricole in funzione.

Distanze da animali domestici. È vietato sparare a distanza inferiore a 150 metri in direzione di stabbi, stazzi, recinti ed altre aree delimitate destinate al ricovero e all'alimentazione del bestiame nel periodo di utilizzo agro-silvo-pastorale.

Mezzi vietati di caccia. Reti, trappole, tagliole, vischio, esche e bocconi avvelenati, lacci, archetti, balestre, gabbie trappola.

Giorni vietati. La caccia è sempre vietata nei giorni di martedì e venerdì anche se festivi (silenzio venatorio).

Diritto di entrare nelle altrui proprietà. L'art. 842 del codice civile, risalente al regime fascista, consente al cacciatore di penetrare nei fondi altrui ed esercitarvi la caccia a prescindere dal consenso del proprietario.

Per impedirglielo è necessario trasformare il proprio fondo in un cosiddetto "fondo chiuso". A tale scopo è necessario dotarlo di una recinzione alta almeno m. 1.20, o notificare l'intenzione di istituire un "fondo chiuso" all'Amministrazione Provinciale con richiesta formulata entro i 30 giorni successivi all'approvazione del piano faunistico venatorio provinciale. Un fondo chiuso, richiesto senza che poi la Provincia si opponga, non necessita di recinzione ma solo di tabellazione obbligatoria esente da tasse.

La recinzione può essere fatta in qualunque tempo e poi notificata alla Provincia, mentre il fondo chiuso di cui ottenere il riconoscimento è una possibilità che si apre in un arco temporale di soli 30 giorni abitualmente ogni 5 anni, ossia al rinnovo del piano faunistico venatorio.

Terreni in attualità di coltivazione. La caccia è vietata in forma vagante sui terreni in attualità di coltivazione. Si considerano tali «i terreni con coltivazioni erbacee da seme; i frutteti specializzati; i vigneti e gli uliveti specializzati fino alla data del raccolto; i terreni coltivati a soia, a riso, a mais per la produzione di seme, anch'essi fino alla data del raccolto». Il divieto vale anche «sui terreni in attualità di coltivazione individuati dalle Regioni, sentite le organizzazioni professionali agricole maggiormente rappresentative a livello nazionale, tramite le loro strutture regionali, in relazione all'esigenza di protezione di altre colture specializzate o intensive» (L. 157/92, art.15).

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