Copertina
Autore Juliet B. Schor
Titolo Nati per comprare
SottotitoloSalviamo i nostri figli, ostaggi della pubblicità
EdizioneApogeo, Milano, 2005, Saggi , pag. 292, cop.fle., dim. 135x210x16 mm , Isbn 978-88-503-2335-7
OriginaleBorn to buy [2004]
LettoreElisabetta Cavalli, 2005
Classe pedagogia , sociologia , marketing , media , paesi: USA , scuola
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Indice

Nota dell'autore                                           1
Ringraziamenti                                             5

Capitolo 1
Introduzione                                               9

La commercializzazione dell'infanzia                      14
Una prospettiva storica sui bambini e
sulla cultura del consumo                                 16

Capitolo 2
Il mondo del consumo infantile in trasformazione          21

La mostruosa macchina del marketing                       22
L'esplosione della corsa all'acquisto dei giovani         25
La "Kid-fluence"                                          26
"Vincolati alla marca"                                    28
Il monopolio della vita reale                             31
Giocare di meno e comprare di più                         33
L'infanzia postmoderna: la generazione elettronica        36
Come stanno i bambini                                     38

Capitolo 3
Da Tony Tigre a Slime Time Live                           43


Il contenuto dei messaggi pubblicitari                    43

La psiche del bambino secondo gli operatori del marketing 47
Il marketing del cool                                     52
Comandano i bambini: Nickelodeon e il giovanilismo        57
La age compression                                        62
Il Dual Messaging: quando a bambini e genitori piacciono
cose diverse                                              65
Il Pester Power                                           68
Il trans-toying                                           71
Valutare i messaggi: in che modo influenzano i bambini?   72
La consapevolezza dei bambini di fronte alla pubblicità   74

Capitolo 4
La diffusione del virus                                   79


Quando la pubblicità pervade la vita quotidiana           80

POX: la battaglia sconosciuta                             80
Il buzz marketing e la transformation of friendship       85
Al di sotto del radar: 101 modi per camuffare una
pubblicità                                                89
La corruzione dell'informazione                           93
Arruolare le organizzazioni più credibili                 95

Capitolo 5
Non per libera scelta                                     97


La commercializzazione delle scuole pubbliche             97

Imporsi con la forza: Channel One e l'obbligo di una
visione giornaliera                                       98
La Shop-Rite Gym, la Exclusive Coke e la Sweet Tart Art:
sponsorizzazioni, pubblicità, concorsi e accordi fiscali 101
Le corporation redigono i programmi di studio            104
Sotto l'aura di "non dannosità"                          111

Capitolo 6
Anatomia del bambino consumatore                         113


Nuove forme di ricerca intrusiva                         113

La svolta etnografica                                    114
Il nuovo lavoro infantile: il bambino come esperto       121
Nella mente dei bambini                                  124
La ricerca tradizionale                                  128
Scorrettezze etiche                                      131

Capitolo 7
Le cattive abitudini                                     135


Vendere ai bambini junk food, droga e violenza           135

La portata e l'ampiezza della pubblicità alimentare      136
Confessioni di una ex addetta al marketing rivolto
ai bambini                                               138
Dal falso cibo all'arena politica                        144
La reazione delle aziende                                144
Di chi è la colpa, dei genitori o della pubblicità?      148
Tabacco, alcol e Marketing di droga                      151
Vendere la violenza                                      157

Capitolo 8
Come la cultura del consumo insidia il benessere dei

bambini                                                  161
La ricerca sui bambini, i media e la cultura
del consumo: premesse                                    164
Il coinvolgimento nel consumo fra i bambini              168
Esempi di uso dei media                                  174
Valutare il benessere dei bambini                        177
Genitori e figli                                         180
Dalla correlazione alla causalità                        183
Risultati statistici: il coinvolgimento nel consumo
insidia il benessere dei bambini                         185
Interpretare i risultati                                 190
Materialismo e sofferenza psicologica: le prove si
accumulano                                               191

Capitolo 9
Arricchiti o sedotti?                                    195


Il dibattito sulla pubblicità e sul marketing rivolto
ai bambini                                               195

Il nuovo discorso della responsabilizzazione             197
I benefici strumentali delle pubblicità                  200
L'industria attribuisce la colpa ai genitori             202
I dubbi dei pubblicitari                                 205

Capitolo 10
Decommercializzare l'infanzia                            209


Oltre Big Bird, Bratz Dolls e i Back Street Boys         209

Il consumatore ne sa di più                              210
Il dilemma del prigioniero: il punto debole
nell'argomentazione liberista                            212
Andare a fondo: il problema per le aziende               213
Regolamentazione federale delle pubblicità e dei media   214
Scuole libere dalla pubblicità                           218
La necessità della cooperazione sociale                  219
I limiti del protezionismo                               221
L'invenzione dell'infanzia moderna                       222
La scomparsa dell'infanzia e la responsabilizzazione
dei bambini                                              224
Decommercializzare la cultura: cibo, media e spazi
all'aria aperta                                          226
Decommercializzare la famiglia: testimonianze da Doxley  229
Unisciti al movimento che si oppone all'infanzia
costruita dalle corporation                              233

Appendice A: Dati                                        235

Ricerca sui bambini, i media e la cultura del consumo    235
Fattore di coinvolgimento nel consumo                    236
Valutazioni                                              236

Appendice B: Le organizzazioni                           237

Organizzazioni in Italia                                 238

Appendice C: Il Parent's Bill of Rights
di Commercial Alert                                      239

Note                                                     243
Capitolo uno: Introduzione                               243
Capitolo due: Il mondo del consumo infantile
in trasformazione                                        244
Capitolo tre: Da Tony Tigre a Slime Time Live            250
Capitolo 4: La diffusione del virus                      255
Capitolo 5: Non per libera scelta                        257
Capitolo 6: Anatomia del bambino consumatore             259
Capitolo 7: Le cattive abitudini                         260
Capitolo 8: Come la cultura del consumo insidia
il benessere dei bambini                                 265
Capitolo 9 Arricchiti o sedotti?                         267
Capitolo 10: Decommercializzare l'infanzia               268
Bibliografia                                             273

 

 

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Pagina 9

CAPITOLO 1

Introduzione


Quella americana è la società più orientata al consumo al mondo. Le persone lavorano più che in ogni altro paese industrializzato. I tassi di interesse sono i più bassi. Il credito al consumo è esploso, e ogni anno circa un milione e mezzo di famiglie va in bancarotta. Nel paese ci sono oltre 46.000 centri commerciali, due terzi in più rispetto al 1986. Nonostante la media dei componenti per famiglia sia diminuita, le dimensioni delle case crescono rapidamente, e aumentano le nuove costruzioni con cabine armadio e garage per tre/quattro automobili, dove viene accumulata un'enorme quantità di oggetti. Secondo alcune stime, l'adulto medio americano acquista quarantotto capi d'abbigliamento l'anno e smette gli abiti a ritmi record, in confronto ai precedenti storici. Gli americani possiedono più apparecchi televisivi degli abitanti di ogni altro paese — quasi un apparecchio a persona. Gli osservatori ritengono la televisione responsabile della diminuzione dell'impegno civico, dell'aumento della povertà e del declino della socializzazione quotidiana nelle comunità. Si registrano alti tassi di ascolto televisivo e un'esposizione alla pubblicità senza precedenti. E gli annunci pubblicitari sono proliferati oltre lo schermo televisivo, occupando di fatto ogni istituzione sociale e spazio pubblico, nei musei e negli zoo, nei campus universitari e nelle classi delle scuole elementari, nelle toilette dei ristoranti e sui menu, negli aeroporti e perfino in cielo.

Gli architetti di questa cultura — le società che producono, commercializzano e pubblicizzano prodotti di consumo — hanno ora messo gli occhi sui bambini. Nonostante i bambini partecipino da tempo al mercato del consumo, fino a ora sono stati attori modesti, acquirenti di beni a basso costo. Attiravano solo in parte le attenzioni e le risorse dell'industria e venivano avvicinati fondamentalmente attraverso le mamme. Tutto questo è cambiato. I bambini e gli adolescenti sono diventati oggi l'epicentro della cultura americana del consumo. Attirano l'attenzione, la creatività e il denaro dei pubblicitari. I loro gusti guidano le tendenze del mercato. Le loro opinioni danno forma alle strategie di marchio. Eppure sono pochi gli adulti che riconoscono la portata di questo cambiamento e le sue conseguenze per il futuro dei nostri figli e della nostra cultura. Ho studiato per vent'anni le questioni relative al consumo. Economista per formazione e inclinazione, ho cominciato a interessarmi alla commercializzazione studiando la cultura del lavoro. Il mio primo libro, The Overworked American, riportava le mie conclusioni sul fenomeno misconosciuto e inatteso dell'aumento delle ore lavorative. Rispetto a trent'anni fa, l'impiegato medio trascorre ogni anno 200 ore in più sul posto di lavoro, vale a dire cinque settimane extra di lavoro. Cinquant'anni fa, le ore lavorative di un americano erano molto inferiori a quelle di un lavoratore dell'Europa occidentale; oggi le superano di più di 100 l'anno (circa tre settimane). Perfino il Giappone, il paese più stacanovista al mondo quando iniziai la mia ricerca nei primi anni Ottanta, conta oggi meno ore lavorative annuali degli Stati Uniti.

Le prime analisi dei miei libri sulle ragioni dell'aumento delle ore lavorate rivelavano che questo fenomeno era determinato dall'aumento del costo del lavoro e dalla persistenza di culture corporative all'interno delle aziende quali l'extra lavoro e il face time (tempo trascorso dagli impiegati in rapporti interpersonali). Mi sono resa conto che i datori di lavoro erano restii a permettere ai lavoratori di negoziare il reddito in cambio del tempo e che, durante l'ultimo mezzo secolo, la maggior parte delle persone ha percepito salari più alti ma ha anche lavorato più a lungo. Ciò che non capivo era perché così pochi dipendenti avessero scelto di opporsi a questi programmi. I sondaggi mostravano che la maggior parte delle persone erano soddisfatte del rapporto tra ore lavorative e salario, nonostante le ore lavorative fossero aumentate. Benché aumentasse l'insoddisfazione, il consenso agli orari prolungati restava sconcertante.

Così ho cominciato a studiare il comportamento del consumatore, e ho trovato una risposta. Gli americani erano rimasti intrappolati in quello che definivo il circolo vizioso "lavora-e-spendi", nel quale la compensazione per l'aumento delle ore lavorative era un aumento del livello standard di vita dal punto di vista materiale. Le persone accumulavano cose a un ritmo senza precedenti. Lavori molto impegnativi e l'aumento dei debiti, invece, significavano un aumento dello stress e un'enorme pressione sui nuclei familiari. Alcuni cercavano di comprarsi una via di fuga dalla compressione del tempo concedendosi maggiori spese e offrendosi vacanze stressanti, strategie che richiedevano entrate sempre maggiori. Durante gli anni Novanta, gli anni del boom, il nuovo benessere condusse a una drammatica rincorsa dei modelli di consumo, che fece aumentare la pressione sulle famiglie. Il lusso sostituì il comfort come aspirazione nazionale, nonostante solo una minima parte della popolazione potesse concederselo. Nel mio secondo libro, The Overspent American, ho catalogato questi cambiamenti e identificato le tendenze sociali che li guidano. Gli americani avevano subito forti imperativi per stare al passo con l'aumento dei costi di beni primari – la sanità e la scuola – così come dei beni di lusso – capi firmati, automobili più grandi – e delle spese per il tempo libero e per il divertimento. Un viaggio a Disneyworld divenne una costosa, ma impellente, abitudine sociale. Le famiglie spendevano di più, risparmiavano di meno e contraevano più debiti. Intanto, la commercializzazione procedeva rapidamente: i marchi diventavano sempre più sofisticati, gli annunci pubblicitari proliferavano e comprare divenne un impegno a tempo pieno. Il paese era occupato a guadagnare e a spendere.

Quando scrissi The Overspent American, a metà degli anni Novanta, ero cosciente di quanto i genitori si sentissero sotto pressione nel provvedere ai loro figli, ricevendo richieste che spaziavano dalle attività ludiche, a una buona scuola, fino a scarpe sportive speciali. Sapevo quanto le persone si preoccupassero del futuro dei propri figli in un'economia globale altamente competitiva. Ho affrontato questi temi. Ma concepivo il mercato del consumo dal punto di vista del suo orientamento verso gli adulti, mentre osservavo i SUV sostituire le macchine, le "McMansions", abitazioni molto spaziose, sostituire le case, e le etichette di designer proliferare su qualsiasi oggetto, dagli occhiali da sole ai boxer. Ho anche studiato coloro che rifiutano il sistema consumista, chiamati down-shifters (letteralmente, coloro che scelgono il lavoro in base alla migliore qualità della vita che consente) – milioni di americani che rifiutavano lo stile di vita "lavora-e-spendi", scegliendo invece di lavorare di meno, spendere di meno e vivere più semplicemente. A conti fatti, furono loro a fornirmi un'importante indicazione sull'importanza sempre maggiore dei bambini nella cultura del consumo.

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Pagina 43

CAPITOLO 3

Da Tony Tigre a Slime Time Live

Il contenuto dei messaggi pubblicitari


                    È una bella trappola.

                    Lisa Morgan (pseudonimo),
                    account executive di New York,
                    a proposito del marketing rivolto ai bambini.

Coloro che sostengono la tesi del "non c'è nulla di nuovo sotto il sole" ci ricordano che il marketing per l'infanzia esiste da decenni o addirittura da secoli. Quando nel XVIII secolo furono lanciati sul mercato prodotti specifici nel campo della letteratura e dell'abbigliamento per bambini, si dovette convincere questi ultimi ad acquistarli. Alla fine del XIX secolo il Marshall Field, grande magazzino di Chicago, pubblicò un catalogo di 36 pagine dedicato esclusivamente ai giocattoli. Non molto tempo dopo, i grandi magazzini trasformarono i loro spazi di vendita di giochi stagionali in esposizioni aperte tutto l'anno e in negozi di abbigliamento alla moda per bambini. I programmi radiofonici per l'infanzia negli anni Trenta trasmettevano pubblicità dirette ai bambini. Ma come ho già sottolineato, nella prima metà del XX secolo i prodotti venivano per lo più acquistati dalle mamme.

Questo avveniva in parte perché le possibilità di raggiungere direttamente i bambini erano limitate, fino a quando non furono introdotti i programmi televisivi a loro rivolti. Nel 1954, la ABC cominciò a trasmettere il fortunato programma Mickey Mouse Club nella fascia oraria del dopo scuola, e la Mattel mandò in onda le proprie pubblicità durante il programma. Alla fine degli anni Cinquanta la popolarità della Barbie consolidò un duraturo e vantaggioso rapporto tra la televisione e le pubblicità di giocattoli. Anche i programmi del sabato mattina cominciarono in questo periodo, e per vendere i propri cereali la Kellogg's ideò i suoi classici personaggi Tony la tigre, il croccantino di riso Krispies, Crackle e Pop, e il coniglio Trix. Fin d'allora i giocattoli e i cereali per la colazione erano le due principali categorie di prodotti pubblicizzati. È interessante notare che l'attenzione al marchio e l'influenza sugli acquisti, i due temi centrali del marketing contemporaneo, erano già presenti negli anni Cinquanta. Ma paragonati a quelli di oggi, i pubblicitari del passato erano molto meno ambiziosi. Il mercato dei bambini era un'industria stagnante regolata da formule standard. Le pubblicità per i bambini erano presentate da speaker che urlavano, scontri tra macchine e animazioni. Quelle per le bambine erano pubblicità mielose e colorate di rosa. Le pubblicità tendevano a mettere in luce caratteristiche del prodotto, mentre quelle odierne hanno richiami più simbolici. Chi ha visto le pubblicità per bambini di questo periodo ricorderà che erano realizzate con un budget minimo e poca creatività.

I primi spot televisivi erano primordiali e statici. Le tecniche di vendita erano confuse. Le pubblicità mostravano bambini che acquisivano poteri sovrumani mangiando i cereali, e utilizzavano effetti speciali per migliorare l'aspetto dei giocattoli. Le pubblicità non dovevano distinguere tra fantasia e realtà, come invece fanno oggi. Era diffusa la pubblicità all'interno dei programmi. Spesso le prime pubblicità erano grossolane e si basavano su antiquate strategie di pressione e a volte su formule ingannevoli.

Per questi motivi, alla fine le pubblicità televisive rivolte ai bambini vennero in America notevolmente regolamentate attraverso un sistema spontaneo di linee guida promosso dalla Children's Advertising Review Unit (CARU), del Better Business Bureau, nonché da più specifiche ma analoghe linee guida delle emittenti televisive. Queste linee guida comprendono diverse proibizioni, tra cui il divieto alla vendita diretta, all'esposizione di celebrità a sostegno di un prodotto e all'utilizzo di effetti speciali. Tutte le pubblicità rivolte ai bambini devono inoltre astenersi dal suggerire che un bambino abbia bisogno di un determinato prodotto per essere accettato dai suoi compagni o che possedere quel prodotto gli conferisca uno status di superiorità. È anche proibito l'uso di un linguaggio che esorti a "comprare" il prodotto o a "chiederlo ai genitori", pratica definita "hard sell", metodo di vendita con il quale si impone un prodotto al cliente. Tuttavia, queste linee guida si applicano solo alle pubblicità che si rivolgono esclusivamente ai bambini. Le pubblicità delle birre, delle automobili e di qualsiasi altro prodotto il cui pubblico è per il 51% composto da adulti sono regolate da linee guida molto meno restrittive. Sempre più spesso i bambini guardano i programmi per adulti e questo ha minato la pertinenza delle linee guida stabilite per i bambini (alla fine degli anni Novanta, oltre la metà dei venti programmi più guardati dai bambini tra i due e i dodici anni erano programmi per adulti).

La pubblicità di giocattoli, seconda solo a quella per il cibo in termini di investimenti, è la categoria più rigidamente regolamentata. Le linee guida stabiliscono che una parte della pubblicità di un giocattolo debba mostrare il prodotto in un ambiente realistico, come risulta nella sequenza finale del prodotto al termine di ogni pubblicità, e il giocattolo deve essere mostrato in un contesto neutrale. La pubblicità inoltre non deve lasciare intendere che il giocattolo abbia caratteristiche che in realtà non possiede, come muoversi da solo quando invece necessita di supporto umano, e deve essere esplicitato quando è necessario l'acquisto di batterie o altri accessori. Le pubblicità di giocattoli devono anche esplicitare chiaramente il contesto realistico del gioco, distinguendolo dagli ambienti di fantasia, e questo non deve occupare più di un terzo della durata dello spot.

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CAPITOLO 5

Non per libera scelta

La commercializzazione delle scuole pubbliche


In passato la pubblicità televisiva rappresentava i due terzi della pubblicità indirizzata ai bambini. Ma, alla metà degli anni Novanta, la televisione viene eclissata dal marketing diretto, dalle promozioni e dalle sponsorizzazioni che si stima assorbano l'80% di tutto il denaro investito nel marketing. Questa mutazione conduce la pubblicità rivolta ai bambini oltre i confini del salotto di casa, invadendo tutti gli spazi e le istituzioni pubbliche, tranne poche e significative eccezioni, come i luoghi di culto. Ecco allora, nello zoo di St. Louis, l'insettario della Monsanto o la vasca degli ippopotami della Anheuser-Busch. L'ospedale infantile presso la UCLA viene ribattezzato Mattel's Children's Hospital, e ce n'è uno sulla East Coast che porta il nome della Hasbro. Ovunque ci siano i bambini ecco spuntare il marketing a loro rivolto. Ma il fiore all'occhiello dell'infiltrazione commerciale sono le scuole pubbliche della nazione.

L'influenza delle corporation sulle scuole pubbliche americane non è una novità. Le società produttrici di beni di largo consumo e le aziende agricole hanno sponsorizzato per decenni l'educazione alimentare e quella alla salute. Ma, a partire dagli anni Novanta, le attività commerciali nella scuola si sono considerevolmente estese, con un aumento esponenziale, a partire dal 1997, di quasi tutti i tipi di operazioni di marketing nelle sedi scolastiche. Le scuole erano diventate un target particolarmente allettante per i venditori. Esse erano, fino a quel momento, rimaste relativamente esenti dalla pubblicità, un'isola incontaminata non comune nell'immenso mare dei messaggi commerciali. Gli insegnanti e gli amministratori godono di una grandissima fiducia e autorità, e i prodotti che appaiono sotto il loro imprimatur possono trarre profitto dal timbro della loro approvazione. Infine, e soprattutto, gli studenti costituiscono una captive audience, un "pubblico forzato" d'eccezione per i pubblicitari.


Imporsi con la forza: Channel One e l'obbligo di una visione giornaliera

La promessa di una captive audience è stata l'impulso che ha spinto alla creazione di Channel One, un programma quotidiano di notizie e pubblicità in onda dal 1989. In cambio dell'utilizzo di materiale video e apparecchiature, le scuole hanno accettato di far visionare ogni giorno da un pubblico di studenti il programma. Ben presto la società ha preso accordi con quasi 12.000 delle circa 50.000 scuole medie e secondarie della nazione e riferisce che più di 8 milioni di studenti, dalla prima media alla quinta liceo, ovvero il 40% di tutti gli adolescenti degli Stati Uniti, guardano il programma nella stragrande maggioranza dei giorni scolastici. Per ampiezza di pubblico, Channel One è considerata seconda solo al Super Bowl. Il programma viene presentato come una trasmissione di dieci minuti di informazione e attualità, un'introduzione che serve da logica giustificazione agli amministratori delle scuole per aderire al progetto. Ma un'attenta analisi accademica del contenuto del programma ne ha messo in rilievo l'elevato livello di inconsistenza: cronache sulle celebrità del mondo dello spettacolo, approfondimenti su personaggi pubblici e notizie piccanti, oltre a una bassa propensione all'informazione, nonostante i difensori del programma abbiano cercato di sostenere il contrario. Ma l'aspetto più criticato del programma è il fatto che la trasmissione è accompagnata da dieci minuti di annunci pubblicitari.

Sin dall'inizio, Channel One è stato un programma controverso. Gli insegnanti, i gruppi di genitori e le organizzazioni religiose conservatrici si sono opposti alla pratica di costringere i bambini a guardare le pubblicità. Di fatto tutte le altre pubblicità richiedono perlomeno un consenso passivo da parte dello spettatore: si può cambiare canale, uscire da un sito Web o allontanarsi da un cartellone. Queste opzioni non esistono con Channel One. Contrattualmente le scuole sono costrette a fornire studenti, che siedono ai loro banchi, con il volume prestabilito. (I comandi del volume degli apparecchi non sono infatti regolabili.) La captive audience è diventata uno dei maggiori argomenti di vendita che Channel One offre ai suoi inserzionisti. Un'altra osservazione critica è il fatto che tra le pubblicità prevalgono quelle su junk food, bibite, videogiochi, film di Hollywood, programmi televisivi e altri prodotti che non migliorano certo il benessere dei bambini. Channel One è stato utilizzato per il reclutamento militare e per i messaggi che promuovono marchi di aziende di tabacco. Un altro aspetto della disputa è il costo. Una ricerca ha mostrato che sei giorni di ore scolastiche dedicate a Channel One costano ai contribuenti 1,8 miliardi di dollari. Uno dei sei giorni è interamente assorbito dalle pubblicità, con un costo annuale di 300 milioni di dollari.

Le ricerche che mettono a confronto le scuole Channel One e le altre dimostrano che il programma incide sul comportamento dei bambini. Una ricerca condotta su due scuole superiori del Michigan rivela che è molto più probabile che gli studenti Channel One affermino che "una bella macchina è più importante della scuola" e che "sono le etichette a fare la differenza" o che "le persone benestanti sono più felici di quelle povere". Gli studenti Channel One, inoltre, credono al reale valore dei prodotti pubblicizzati, perché vengono mostrati in classe. Come ovvio, i bambini delle aree più povere rischiano maggiormente di frequentare scuole Channel One, con la conseguente perdita di ore scolastiche ed esposizione ai messaggi pubblicitari. Da una ricerca emerge che il rischio è due volte superiore per questa categoria rispetto ai bambini di famiglie più ricche. Chris Whittle, il fondatore della società, ha concentrato la sua azione in modo particolare nelle aree povere della California, abitate da latinos, pagando gli amministratori delle scuole, gli insegnanti e i genitori nella speranza di farsi strada nello stato.

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Confessioni di una ex addetta al marketing rivolto ai bambini

Alla fine del 2002 ho conosciuto Amanda Carlson, quando aveva da poco lasciato il suo impiego presso una delle più importanti agenzie pubblicitarie del mondo, che si occupa principalmente di Big Food. Carlson è una giovane executive intelligente, vivace e moderna che ha fatto una brillante carriera nella sua agenzia come specialista nel marketing rivolto ai bambini, nel momento in cui c'era una forte richiesta di questo tipo di competenza. Nonostante sia ancora impegnata nel marketing rivolto ai bambini, il suo esodo dal settore alimentare l'ha resa, rispetto a molte delle persone che ho incontrato, più guardinga sui modi in cui l'industria incoraggia i bambini a mangiare junk food. È stata disponibile a parlare liberamente delle sue opinioni in qualità di addetta al marketing del cibo e di come le industrie produttrici e le agenzie pubblicitarie stanno affrontando i loro critici.

In un certo senso il foodspace, termine tecnico che indica il contesto industriale alimentare, intreccia strettamente il modello di bisogni eterni che ho descritto nel capitolo 3. I temi del kid empowerment e del giovanilismo sono utilizzati per vendere prodotti apparentemente comuni come gli snack e i cereali. Carlson ha descritto l'approccio dell'agenzia a uno snack dolce: "Conferisce autorità perché è uno snack che appartiene davvero solo ai bambini, non è per gli adulti... a volte è un elemento affermativo perché ha forme che piacciono solo ai bambini. E poi esiste un elemento di separazione, perché separa me da te: è il mio snack. È un po' irriverente. È qualcosa che tua mamma vorrebbe che tu non mangiassi, quindi ti dà potere".

Anche il dual messaging è diffuso nel marketing alimentare. Le pubblicità dirette ai bambini cercano di far colpo su di loro sottolineando che si tratta di un cibo molto energetico e divertente; i messaggi diretti alle mamme enfatizzano il fatto che il prodotto è vitaminico o a base di avena. Questa doppia strategia è risultata efficace per i cereali, le bevande e gli snack. Il trans-toying, o la trasformazione dei prodotti normali in oggetti con cui giocare, è molto più preminente nel settore alimentare che in qualsiasi altra categoria. Diane Levin, esperta di sviluppo infantile, lo chiama "eatertainment" [N.d.T.: gioco di parole tra il verbo inglese to eat = mangiare e il termine entertainment = divertimento]. In un brillante esempio di trans-toying, Kentucky Fried Chicken offriva ai bambini un pasto contenuto nella confezione di un computer portatile.

Ma il foodspace ha le sue dimensioni specifiche, tra cui gli enormi sforzi dedicati all'innovazione del prodotto, l'aggiunta e la sottrazione di ingredienti e la modifica delle caratteristiche e dei colori. Nei cereali, una tendenza diffusa è stata quella di aggiungere caramelle o altri dolci. Tra gli esempi si possono elencare Post's Oreo O's, Reese's Peanut Butter Puffs e Mickey's Magix – una collaborazione tra la Kellog's e la Disney che contiene Mickey Marshmallows colorati e una polverina che fa diventare blu il latte. La Heinz ha creato il ketchup verde. Parkay vende margarina blu. La General Mills ha dato vita al General Mills Glow con il Dark Yogurt, e sono stati commercializzati i maccheroni al formaggio Kraft's Blue's Clues con otto forme diverse e con impronte blu. Carlson teme che il processo di innovazione sia ormai fuori controllo: "Credo che la gente stia impazzendo. C'è chi cerca di inventare burro di arachidi che contenga sostanze scoppiettanti, che 'ti dà energia e ti fa andare meglio a scuola'.

Secondo la Carlson è in atto un acceso processo competitivo. "Oggi più che mai il marketing e i media sono molto importanti, molto più di quanto lo siano mai stati. Il marketing deve incidere sul pensiero dei bambini e si deve mantenere alta – non voglio dire alzare, perché non mi sembra giusto – la pressione. Ma per farlo oggi c'è bisogno di più stimoli, perché i bambini sono abituati così e perché sono così smaliziati che si lasciano impressionare meno facilmente". Ma crede che le aziende potrebbero andare in un'altra direzione: "Non sono convinta che si debba diventare sempre più estremi e che i sapori debbano essere sempre più aspri, i giochi più violenti e così via". A suo parere, in parte si tratta di mancanza di immaginazione. "Mi sembra che la gente sia a corto di idee". Così i bambini si aspettano di più. Un aneddoto raccontato al Kidpower 2002 riportava di una mamma che offriva a suo figlio un pacchetto di liquirizia e il bambino rispondeva: "A cosa serve?".

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CAPITOLO 10

Decommercializzare l'infanzia

Oltre Big Bird, Bratz Dolls e i Back Street Boys


Mentre gli addetti al marketing lottano per impossessarsi dei cuori e delle menti dei bambini americani, le prove del loro successo sono ovunque. I bambini sono legati ai marchi, hanno adottato il cool come valore supremo, e non sembrano badare al fatto che i loro gruppi musicali preferiti siano pure creazioni di marketing. Visitano siti Web commerciali e ricoprono i loro corpi di loghi. Dopo quasi due decenni di bombardamento intensivo dei bambini, non c'è dubbio che l'industria abbia escogitato una formula remunerativa. È altrettanto chiaro che le corporation non soddisfano i bisogni dei bambini.

Costruire un'infanzia meno commerciale non sarà facile. I media, i produttori di cibi confezionati e bibite, le agenzie pubblicitarie e altre corporation che vendono prodotti ai bambini si sono ostinatamente opposti alle riforme. Hanno utilizzato campagne di donazione, lobbismo e pubbliche relazioni. Gli sforzi si sono indirizzati a sostenere la percezione che le questioni di consumo siano questioni private. Una maggioranza di genitori è favorevole ad appoggiare estese forme di protezione dei bambini, ma tradurre questo sostegno in azione richiederà un diffuso attivismo di base.

Sarà anche necessario uno sforzo per comprendere cosa sia meglio per i bambini. Molti adulti vorrebbero tornare a un'epoca più semplice in cui i bambini erano protetti e innocenti. È in corso un dibattito. Stephanie Coontz, analista sociale, definisce gli anni Cinquanta e Sessanta "il modo in cui non siamo mai stati". Ma è fuori di dubbio che l'era dell'infanzia idealizzata, o moderna, qualunque fossero le sue caratteristiche, è stata unica, addirittura improbabile. E ricostruirla è ancora meno probabile. Il mondo è troppo cambia- to.

Gli addetti al marketing e i difensori dell'infanzia postmoderna sono critici nei confronti di chi guarda al passato. Sostengono che l'enorme influenza dei media elettronici e della cultura delle corporation sia inamovibile, e adottano una presa di posizione principalmente acritica. Ma questa visione realista cade nella stessa trappola nella quale cadono i suoi oppositori. Così come l'infanzia moderna è scomparsa, anche la sua variante postmoderna verrà trasformata. La questione è: in quali modi e con quali effetti? Le grandi aziende internazionali potrebbero continuare a essere i principali architetti del futuro dei bambini. Ma è possibile anche un futuro diverso. Genitori e figli potrebbero unirsi per riconquistare l'infanzia dai giganti globali e dare vita a una cultura affascinante, sana e che responsabilizzi.

Nelle pagine che seguono descriverò alcuni approcci per decommercializzare e ricostruire l'infanzia. Alcuni dei cambiamenti che propongo riguardano i regolamenti governativi su pubblicità e marketing. Altri considerano ciò che le famiglie possono fare all'interno delle loro città e comunità. Immagino cambiamenti su ampia scala, il che significa che dobbiamo agire su molti livelli – all'interno delle famiglie, della comunità, delle scuole, dei media e del governo. Sono ottimista sulle possibilità di un cambiamento, ma sono anche cosciente del fatto che non esistono risposte semplici né indicazioni chiare di come arrivarci. La cultura dell'infanzia legata alle grandi aziende è profondamente intessuta nella struttura della vita quotidiana.


Il consumatore ne sa di più

Nell'approccio standard alla politica del consumo, il laissez-faire è una ricetta quasi universale. Secondo questa ideologia della non interferenza, una persona dovrebbe essere in grado di comperare ciò che le piace, dove e quando le piace, senza badare troppo agli altri. Il consumo è discutibilmente l'attività che il pensiero economico ritiene la più personale, al di fuori del legittimo controllo della società o del governo. Ironicamente, è considerata addirittura un'attività più personale del sesso. Questa classica opinione liberista poggia su una serie di convinzioni sui consumatori e sul mercato, tra cui l'idea che chi compra possieda l'assoluta informazione sui prodotti del mercato, sia razionale, abbia il controllo delle proprie azioni e sia in grado di agire nel proprio interesse. Il liberismo presuppone inoltre che i venditori siano generalmente onesti, che il mercato sia competitivo e che le scelte di consumo di una persona non influenzino nessun'altro. A partire da queste convinzioni, gli economisti hanno sviluppato un modello formale che mostra come la non interferenza sia la politica migliore, perché lascia ai consumatori la libertà di fare le proprie scelte, il che si traduce nel maggior livello possibile di benessere. Questo approccio è comune anche nella teoria politica e nel mondo degli affari, che mettono in campo argomentazioni analoghe contro i tentativi di regolamentare, strutturare o influenzare le conseguenze del consumo.

Naturalmente, a volte il laissez-faire viene violato. In risposta alla pressione dei gruppi di consumatori, i governi hanno affrontato problemi quali il pentimento dell'acquirente, i prodotti pericolosi o difettosi, la pubblicità ingannevole e scorretta. I prodotti che danno assuefazione, come droga e alcol, sono stati regolamentati o proibiti. Il governo ha inoltre una lunga storia di ingerenza nella regolamentazione della pubblicità di prodotti orientati al mercato del sesso, nel rispetto di una cultura puritana e in contrasto con i principi del liberismo. Un periodo di attivo intervento a metà del XX secolo ha condotto alla creazione di programmi federali volti a influenzare le preferenze dei consumatori in categorie quali la salute, l'alimentazione e l'efficienza fisica, nonostante ci sia stata un'evidente marcia indietro a partire dal 1980. Ma queste sono solo eccezioni.

Con i prodotti rivolti ai bambini, il laissez-faire regna sovrano. Nel liberismo classico, i bambini non sono ritenuti in grado di formulare riflessioni razionali. (Questa caratterizzazione in passato è stata attribuita anche alle donne, agli afroamericani, alle persone senza proprietà, nonché ad altri gruppi che non fossero gli uomini bianchi istruiti e ricchi di origine europea che hanno formulato questa teoria e che rimangono i suoi principali sostenitori.) I bambini sono rappresentati dai loro genitori, che si suppone siano consumatori ben informati e disciplinati. I genitori ne sanno di più. Se non approvano ciò che viene offerto, possono spegnere la tivù, semplicemente dire di no oppure mettere al bando le magliette, le canzoni, i siti Web offensivi e le bibite contenenti caffeina. La cultura del consumo non è un imperativo, ma una scelta.


Il dilemma del prigioniero: il punto debole nell'argomentazione liberista

L'approccio standard alza di molto la soglia della regolamentazione politica. Così facendo, rispetta la capacità degli individui di agire per se stessi e giocare d'anticipo nei confronti di interventi elitari. Ma le conclusioni che si ricavano da un modello sono robuste solo quanto le ipotesi di fondo sulle quali si basa. Nel caso della politica del consumo, le ipotesi non sempre reggono a un attento esame. I consumatori possono essere male informati, impulsivi, incoerenti e miopi. Ma anche se non lo fossero, la convinzione che ogni consumatore sia isolato da chiunque altro non è plausibile. L'ho sempre ritenuta uno degli assunti più errati dell'economia.

In realtà, il consumo è un'attività del tutto sociale e ciò che una persona acquista, indossa, guida o mangia influenza i desideri e i comportamenti di coloro che la circondano. Senza un'analisi sociale, è semplicemente impossibile comprendere il fascino del simbolo Nike, il desiderio di un anello di diamanti, la moda delle Harley. E non si potrebbe neppure comprendere la rapida diffusione e la scomparsa dei Pokémon, il tramonto di Britney o l'onnipresenza dei pantaloni a vita bassa e dei grossi braccialetti d'argento di Tiffany. I bambini hanno antenne sensibili per tutto ciò che è in e out, o per ciò che è cool e moderno. Si preoccupano, spesso disperatamente, di come le loro scelte di consumo vengono recepite dai loro coetanei.

Una volta che abbiamo accettato che il consumo è un'attività sociale, l'argomentazione contro l'intervento diventa molto più debole. Una ragione è un insieme di situazioni che sono state denominate il "dilemma del prigioniero", dalla formulazione originaria del problema riferita a due prigionieri. Il dilemma riguarda casi in cui la cooperazione e la regolamentazione portano a un migliore risultato per tutti, ma in cui gli individui hanno un forte incentivo ad agire per conto loro. Consideriamo l'esempio di far perdere ai figli un anno per favorirli nello sport o nell'atletica. Quando lo fanno pochi genitori, probabilmente questi riescono a raggiungere il loro scopo. Ma appena si accende la dinamica competitiva e tutti i genitori iniziano a farlo, il benificio scompare. I singoli non possono organizzare un ritorno alla situazione originaria, nonostante il fatto che tutti ne trarrebbero beneficio. Solo un intervento di regolamentazione, come una politica scolastica o un approccio collettivo, possono consentirlo. Le situazioni competitive, in cui ciò che conta è la posizione relativa di ognuno, sono frequentemente caratterizzate da questi tipi di "insuccessi di mercato", come vengono definiti. La disponibilità ad assumere comportamenti rischiosi è un esempio correlato. La pressione dei coetanei spesso porta i bambini a fare cose che da soli non farebbero. Gli adulti riconoscono che l'intervento da parte dei genitori o del personale scolastico è nell'interesse dei bambini.

La competizione al consumo spesso rientra in questa categoria. Quando il fascino di un prodotto è dovuto al suo prestigio o alla legittimazione sociale molto più che ai benefici intrinseci per il consumatore, le persone possono essere incentivate alla riduzione del loro comportamento dall'introduzione di misure di moderazione al consumo. Le mode che cambiano rapidamente, la chirurgia estetica tra gli adolescenti, la creazione di videogiochi sempre più elaborati e la rincorsa a marchi sempre più esclusivi rientrano in questa categoria, perché l'impulso alla partecipazione è spesso determinato dall'emulazione. Se tutti indossassero scarpe da ginnastica più economiche e anonime, si risparmierebbe denaro e tutti starebbero meglio. Questo è ciò che i teorici della struttura del gioco definiscono "esito cooperativo", nel quale la rincorsa all'esclusività o il comportamento rischioso vengono moderati o prevenuti. Un esito cooperativo può rendere i bambini più sani e più soddisfatti di ciò che già possiedono, nonché permettere alle famiglie di risparmiare denaro. Gli ultimi due decenni di commercializzazione hanno intensificato competizioni al consumo, hanno spinto i bambini verso comportamenti e stili più rischiosi e più estremi e hanno indebolito le limitazioni culturali. Questi cambiamenti forniscono un fondamento logico per agire sia attraverso una regolamentazione governativa sia attraverso la cooperazione sociale.

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