Copertina
Autore Asaf Schurr
Titolo Motti
EdizioneVoland, Roma, 2010, Intrecci 71 , pag. 182, cop.fle., dim. 14,5x20,5x1,4 cm , Isbn 978-88-6243-063-0
OriginaleMotti [2008]
TraduttoreAlessandra Shomroni
LettoreLuca Vita, 2011
Classe narrativa israeliana
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Pagina 11

Questo libro è strutturato in maniera rigorosa. Rigorosa e semplicissima. È una piramide simmetrica con una punta di nuvole e la base di una geometria euclidea. Però è un libro, non un concerto o un altro tipo di rappresentazione artistica, e io non posso starmene in platea a dare suggerimenti durante le prove. E non c'è nulla che si frapponga fra il pubblico e il palcoscenico. Voi siete al tempo stesso pubblico e attori e tutto questo è ormai al di là del mio controllo. Posso quindi solo chiedervi di leggere con attenzione, o per lo meno non con totale indifferenza (e perché no, anche con gioia) i paragrafi che lo meritano. Per quanto mi riguarda fa lo stesso. In ogni caso non conosco la maggior parte di voi, non vi conoscerò mai e nemmeno saprò se morirete a metà capitolo.

Sì, è così. Ai nostri occhi siamo molto importanti, ma per la maggior parte della gente la nostra morte non sarà neppure un trafiletto su un giornale locale. Ci sono individui che ci passano accanto almeno una volta alla settimana, qualcuno di loro magari è già morto e noi non ci abbiamo fatto nemmeno caso. E lo stesso accadrà a noi un giorno, e chi continuerà a passeggiare per strada col cane, la sera, o andrà a buttare l'immondizia, non si accorgerà della nostra assenza.

Per questo ci vuole semplicità. Proprio per questo. Perciò in questo libro non troverete trucchi, artifici, scaltrezze e manipolazioni (o quasi). È tutto molto semplice. È tutto in tavola. Le carte, la tovaglia, tutto. Aprite il frigorifero, non c'è rimasto niente, è tutto in tavola, tutto. Guardate sotto la tavola, nemmeno lì c'è niente, è tutto in tavola, e la tavola è sospesa in aria.

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Pagina 17

1

Motti vuole bene a Menachem come a un fratello. Ovverosia, suo malgrado.

Forse si sono incontrati durante il servizio militare. Non sarebbe insolito per degli israeliani. Oppure si sono conosciuti ancora prima, a scuola. O all'università. Fin dall'inizio, però, il loro rapporto è stato chiaro: fra i due, Menachem è il più forte, anche quando batte amichevolmente la mano sulla spalla di Motti.

È come per i cani, quando si dà loro un colpetto sul naso. Nel caso di due persone se quel colpetto è abbastanza deciso può forgiare il rapporto fin dall'inizio. Delineare uno schema, tracciare un solco come fa l'acqua nella roccia (lasciandovi cioè una traccia). È difficile poi mettere a punto una leva che sia abbastanza forte per alterare quell'equilibrio. Nei branchi di lupi la gerarchia è più flessibile, mentre per noi esseri umani non è raro che queste cose, una volta stabilite, rimangano irremovibili, per abitudine e per legge. Se Motti e Menachem si fossero davvero conosciuti durante il servizio militare è chiaro chi dei due sarebbe stato l'ufficiale. Infatti, nonostante gli anni passati, quella prima legge è rimasta impressa in Motti come un indelebile marchio di fuoco. Lui sa che un tempo era tutto una maschera - un tempo, solo per qualche settimana, Menachem aveva sbraitato, inflitto punizioni, detenuto il potere, e allora era stato più prudente essere dalla sua parte, altrimenti avrebbe potuto impartire un ordine inatteso o infliggere una punizione per qualunque cosa. Mentre ora è il suo caro amico Menachem. Eppure, malgrado gli anni passati (cento ore di amicizia per ogni ora di inflessibilità) Motti non è completamente convinto che quella di prima fosse una maschera e quello di adesso il suo vero volto. Teme che la faccia di Menachem possa cadere in qualsiasi istante come un abito sporco, e allora riaffiorerebbero i lineamenti che ricorda. In qualunque momento Menachem potrebbe ricominciare a maltrattarlo, e lui gli obbedirebbe.

La sua disponibilità a ubbidire, al pari della gentilezza, in certi casi è per lui una specie di recinto elettrico. Uno strumento fantastico che gli crea intorno uno spazio incontaminato dove l'aria è pura, respirabile. Nessuno lo può oltrepassare (si dice Motti, mentendo). E crede di aver bisogno di quello spazio per paura che gli altri gli facciano del male. Non ha mai ammesso, nemmeno con sé stesso ovviamente, che il motivo è un altro, completamente diverso. Che ha un'opinione tale di sé da temere che persino un suo minimo gesto possa ferire qualcuno in maniera irrimediabile.

Cosa fai stasera? gli domanda Menachem al telefono. Io pensavo di lasciare Edna con i bambini e di uscire a bere qualcosa con te, ti va? Ti passo a prendere alle otto e mezza.

Sì certo, risponde Motti. Alle otto e mezza.

Okay, ripete Menachem, allora alle otto e mezza. Vado matto per te, lo sai.

Anch'io ti voglio bene fratello, dice Motti.

Ehi, ma sei diventato una checca? ride Menachem.

Scherzavo, minimizza Motti, non parlavo sul serio. Volevo solo vedere come suona questa frase.

Ed ecco il problema. Tutto dipende da come suona una frase. E nonostante non tutti i veri problemi dipendano da ciò che si dice, molti derivano proprio da questo, dal desiderio di vedere come suona una frase, come si evolve. Perché nel momento in cui puoi dire qualcosa, anche di non vero, diventa imperativo farlo affinché questa cosa si evolva, si muova, si espanda, e allora provi a fermarla (è impossibile). E nel momento in cui dici qualcosa e quel qualcosa acquista forma, è un errore comune ritenere che sia verità. Si può dire ogni genere di cose, anche splendide. Questo non significa nulla. Ma la tentazione, oh, la tentazione di dirle (e il bisogno di credervi).

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Pagina 28

6

È così. Motti si sente a suo agio davanti alle porte. Sta seduto in sala d'aspetto, in attesa che chiamino il suo numero, o in un corridoio, e nessuno pretende niente da lui, nessuno lo guarda, nessuno lo apostrofa né lo elogia. La tensione che di solito prova senza rendersene conto, come se fosse un pesce nell'acqua o un uomo nello spazio, in quei momenti svanisce: le regole sono note e lui non deve fare assolutamente nulla.

Gli si sono accumulate dentro, non lo può negare. Gli si sono accumulate dentro come polvere di amianto nei polmoni di un operaio di fabbrica e prima o poi arriveranno a un livello critico. Quanta tristezza e inquietudine si possono sopportare? (La risposta naturalmente è: tanta, tantissima. Un'intera vita di tristezza e di inquietudine, e nessuna creatura avrà la possibilità di offrirgli un risarcimento quando quel sistema biologico pulsante che è il suo corpo vivo e attivo si spegnerà. La sua vita andrà sprecata. La sua vita e basta. E tutto questo a piccole dosi, regolari, alle quali ci si assuefà. Qua e là ci saranno piccoli segni e sospiri di insoddisfazione, a malapena un indizio che le cose possano essere diverse, che esiste una vita comoda e libera, nella quale ci si può abbandonare con agio). Lui non crede nelle grandi azioni. Non crede nella propria capacità di aprire una breccia nell'estenuante labirinto della vita, di spezzare una volta per tutte lo schema, le abitudini, il carattere (si può rafforzare e incoraggiare con piccoli incentivi crescenti qualunque comportamento, fino a che non diventa naturale. Ma si può presupporre di favorire allo stesso modo anche un non-comportamento?).

Sulle prime guardava film. Notte dopo notte, davanti al videoregistratore. Anche nei film il tempo è circoscritto, al di fuori del suo controllo: sul display buio le cifre scorrono in ordine decrescente. Nel frattempo lui non faceva niente e il suo pensiero divagava, o non divagava, veniva assorbito dalla trama e poi riemergeva libero, più volte, senza vincoli né obblighi, solo la calma del tempo. Così, all'inizio. Dopo poco la sua attenzione ha cominciato a spostarsi sugli attori non protagonisti. Non trovava pace. Di certo avevano studiato recitazione per anni, atteso l'occasione buona, si erano umiliati in spettacoli per bambini, ringraziando il cielo per ogni particina in qualche spot pubblicitario trasmesso da una televisione locale. E intanto Motti perdeva di vista il filo della trama e gli attori principali. Non riusciva più a sopportare quello stato di cose. Spesso gli attori secondari erano più bravi dei protagonisti. Però avevano il naso troppo grosso, oppure assomigliavano a qualche star famosa, e nessuno ha bisogno di due Harrison Ford o di due Brad Pitt. Una volta Motti notò un'attrice ormai anziana che finalmente aveva ottenuto una parte in un film, probabilmente dopo chissà quanti anni. Forse sognava di recitare fin da quando aveva sette anni e dopo decenni di frustrazione dietro al banco della reception di un albergo di second'ordine (o la scrivania di un ufficio delle imposte, dei trasporti, o di qualunque altro deprimente impiego, temporaneo solo in teoria) ecco che aveva ottenuto una parte davanti alla macchina da presa. Seduto al buio Motti aveva pianto amaramente e poi guardato i titoli di coda fino alla fine.

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Pagina 42

12

Quanto è grande il bisogno di credere, di avere la certezza che qualcuno più esperto di noi vigili, prenda decisioni, tenga gli occhi aperti su tutto ciò che facciamo. Quanto è grande il nostro bisogno di sapere che c'è un padre, anche cattivo, purché ci sia. Che ci guidi, ci indirizzi, ci frughi nelle viscere, e al quale presentare rapporto contro la nostra volontà. Perché il mondo galoppa veloce, in discesa, aiuto, tutto è irreversibile, mi sentite? Irreversibile. E com'è possibile che lungo la strada per arrivare in cima alla piramide ci siano individui come noi che arrancano a fatica, notte e giorno, imbastendo alla bell'e meglio le trame delle loro vite, e l'unico timore che tutti noi abbiamo, più grande di quello di essere ghermiti, sia quello di non essere ghermiti, di cadere senza essere salvati, sempre più giù, verso un punto senza fondo?

Per questo ci poniamo dei limiti. Per questo spingiamo i limiti augurandoci che una mano ferma tenga le briglie, e se qua e là ci sentiremo soffocare, o non sapremo come interpretare un ordine o un comando e verremo puniti per questo, qualcuno comunque terrà le briglie con mano ferma perché noi non corriamo sbadatamente in strada dove camion giganteschi, con diecimila ruote, sfrecciano ciechi.

Per questo ogni persona di buon senso deve dormire con una mappa sotto il guanciale, addirittura un raccoglitore pieno di mappe. E ogni notte, prima di addormentarsi, baciare questa mappa. Dire, grazie, grazie cara mappa. E non ringraziarla per le strade che vi sono tracciate. Ringraziarla perché quelle strade finiscono. Sarebbe infatti impossibile camminare all'infinito. Alla fine ci sarà il mare. Poi dei draghi. Ma non nella mappa dell'universo. Quella non finisce. Quella continua, avremo sempre dove andare, e allora dove appoggeremo la testa di notte?

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Pagina 85

28

È difficile seguire le storie fino alla fine. Di certo quando non procedono come dovrebbero. È come se qualcuno picchiasse su un vetro con un piccolo martello: il punto colpito è sotto gli occhi di tutti e da esso si diramano a raggiera incrinature che a loro volta si ramificano divenendo più sottili (per quanto non meno tortuose) a ogni intersezione (e il numero delle intersezioni non diminuisce). È difficile seguirle. E chi sarebbe poi quel deficiente che picchia così su un vetro? Ecco, per esempio, la storia in cui Motti e Ariella staranno insieme a partire dal 14 maggio di un anno futuro. Si incontreranno casualmente in un negozio di alimentari, la sera andranno in un ristorante cinese o italiano o francese o a un chiosco di felafel, ordineranno il dessert o non lo ordineranno, il dessert ricorderà qualcosa ad Ariella, la renderà felice oppure le rovinerà la dieta, e dopo cena torneranno all'appartamento di lui (poniamo) e faranno l'amore, o solo sesso, Motti verrà troppo in fretta, oppure no, e al mattino Ariella, sempre che rimanga fino al mattino, indosserà una camicetta bianca, o rosa, o a righe con i bottoni, o senza bottoni, rimarrà incinta o non rimarrà incinta, e lei e Motti staranno insieme per l'eternità, oppure no, lei diventerà veterinario o bibliotecaria o designer d'interni disoccupata o estetista o geometra e ogni giorno lei e Motti faranno questo o quest'altro.

Ecco, ho scritto tutto in 150 parole o forse meno, ma dov'è l'amore in questo racconto schematico? Dove si manifesta la grande passione di Motti, il suo sentimento infuocato, il desiderio di immaginare, la voglia di realizzare, la paura, la dolcezza?

Tutto sommato era meglio non scrivere questo capitolo, eppure l'ho fatto.

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Pagina 87

29

Edna ne ha fin qui (dice alzando la mano al di sopra degli occhi). Deve stargli dietro come se fosse un bambino. Se non avessero dei figli se ne andrebbe davvero (lo dice perché è furibonda. In realtà la maggior parte del tempo sta bene con lui. Lo ama).

Passi per i debiti in drogheria (ma cosa ti costa prendere il portafoglio quando esci di casa? gli domanda talvolta per scherzo, talaltra con rabbia vera, perché ormai si sente a disagio con quel "tipo lì" - in ebraico corrente è sinonimo di arabo - che quasi la scongiura di parlare a Menachem, di dirgli che così non si può andare avanti, da anni nessuno più segna la spesa nei negozi, e la cosa gli scombina i registri dei conti, per non parlare poi dei guai con i fornitori e col fisco). Passi per quello. E passi anche per la mancanza di responsabilità. Menachem è come un bambino, promette di fare una cosa e poi se ne dimentica. E passi pure per le capatine in città, già quando l'aveva sposato sapeva che lui non ci avrebbe rinunciato, chiedergli di farlo avrebbe solo suscitato rancore in lui, e allora perché no? Che vada pure con i suoi amici, si diverta, in fondo è un buon padre e un buon marito e anche se fuori casa fa il gradasso lei sa dove torna a dormire la notte (e pure i rapporti sessuali, grazie a Dio...)

Ti ha quasi ammazzato questo tuo amico (strilla lei). Ti ha quasi ammazzato, ha messo sotto quella poveraccia e adesso tu mi porti a casa la sua cagna?! Ma cosa ti passa per il cervello, di' un po'?

Cosa vuoi che faccia con lei? si difende Menachem. Motti è mio amico. Glielo devo.

Non so cosa puoi fare con lei, inventati qualcosa. Edna è ancora furiosa. Portala in qualche canile, che ne so io?

Non posso, insiste Menachem. Dài, guarda i bambini...

I bambini, i bambini, Edna alza la voce. E chi la porterà fuori? Tu? Loro? Chi scoperà i peli, dimmelo, chi? Ancora una volta io, Menachem. E ne ho fin qui. Mi senti, fin qui!

Laika, impaurita alle spalle di Menachem, si contrae nel sentire le urla.

Non ce l'ho con te, brava cagnolona, dice Edna ancora strillando, ma solo per inerzia. Su, forza, entrate tutti e due.

Come potevo non prenderla con me? (si giustifica Menachem entrando in corridoio e trascinandosi dietro Laika). Guarda che occhi. Sono belli come i tuoi il giorno in cui ci siamo incontrati (dice a Edna dandole una pacca sul sedere).

Tu, tu... uffa, ride lei inginocchiandosi accanto a Laika per accarezzarla.

Be; dice Menachem, te l'ho detto che si sarebbe risolto tutto. Vado matto per te.

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Pagina 89

30

La casa di Sarah Rosenthal è immersa nel buio. Su un mobile del salotto è posata una fotografia di quando era ancora viva, con quel suo sorriso particolare, quei suoi denti particolari, quei suoi capelli particolari, quelle sue orecchie particolari, quel suo mento particolare.

Scende la sera ma nessuno dei presenti si alza ad accendere la luce.


E va bene, non rimangono al buio. Quando il sole tramonta qualcuno si alza ad accendere la luce (nonostante sia imbarazzante perché Sarah è morta e a casa sua la gente si siede, si alza, parla, mangia, sfrutta l'energia elettrica). Col passare del tempo però accenderanno la luce anche senza provare imbarazzo, senza avere la sensazione che qualcosa non vada (a parte l'assenza di Sarah), senza che nessuno si guardi intorno pensando che in caso di morte si debba seguire un copione, uno schema luttuoso, che ci sia una forza cosmica alla quale importa davvero che la gente accenda o non accenda la luce, rida o non rida, si addormenti la notte o si rigiri nel letto, pianga, sospiri o si soffi forte il naso.

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Pagina 90

31

Motti è in cella. Alla sua destra ha una parete, davanti una parete (con la porta) e dietro una parete. Sopra e sotto ha solo il tempo. Appoggia l'orecchio contro il muro (dall'altro lato non proviene alcun suono) e lascia correre la fantasia. È vero, si potrebbe dire che è improduttivo, persino patetico, lui e quella sua vita chiusa. Ma si sente talmente libero così, persino nella cella di una prigione, talmente libero che possiamo solo provare invidia per lui. E malgrado abbia accantonato la sua vita attiva, le storie che inventa e ricorda sono numerosissime, più numerose del solito, e anche in questo c'è libertà, e col passare degli anni, quando il tempo si estenderà principalmente alle nostre spalle, che importa cosa abbiamo vissuto veramente e cosa ricordiamo soltanto di avere vissuto?

Nel corridoio risuona il tintinnio di un mazzo di chiavi. Due secondini camminano. "Sai," dice uno (che chiameremo secondino A) al compagno, "io non capisco tutto questo frignare dei ragazzi di oggi. Mi hanno mandato a casa un'assistente sociale, te ne rendi conto? Un'assistente sociale. E per cosa? Per cosa, domando io? A quale padre non scappa ogni tanto uno scappellotto? 'Figlio troppo accarezzato non fu mai bene allevato', questo è certo. E io? Non me lo sono mai beccato un ceffone? Eccome se me lo sono beccato. E mi ha fatto diventare un uomo migliore, credimi. Non posso certo dire di ricordare per cosa mi sono preso ogni sberla. Questo non me lo ricordo, però in fondo i miei genitori sono delle brave persone, davvero. Delle brave persone. E anch'io, grazie a Dio, sono venuto su niente male. E poi perché dovrei ricordarmi per cosa mi sono beccato ogni scapaccione? Non me lo ricordo, e allora? Fa lo stesso, te lo dico io, e poi quei ceffoni mi hanno fatto bene, mi hanno dato una spinta nella vita."

"Oh, se è per questo una spinta te l'hanno data di certo," concorda il secondino B.

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