Copertina
Autore Arturo Schwarz
Titolo Sono ebreo, anche
SottotitoloRiflessioni di un ateo anarchico
EdizioneGarzanti, Milano, 2007, Le forme , pag. 110, cop.ril.sov., dim. 13x20,2x1,5 cm , Isbn 978-88-11-60052-7
PrefazioneRav Giuseppe Laras
LettoreElisabetta Cavalli, 2007
Classe religione
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Indice


Prefazione di Rav Giuseppe Laras                     5

SONO EBREO, ANCHE
1. Il rifiuto del principio d'autorità 15 2. La brama di conoscenza 19 3. Il rispetto del diverso 23 4. L'anelito di giustizia 29 5. Il rispetto della natura 41 6. Il diritto alla felicità 49 7. La valenza salvifica e iniziatica della donna 57 8. A proposito di un'inesistente proibizione 69 9. Spinoza, filosofo della libertà e della felicità 73 Conclusione 85 Glossario 91 Opere citate o consultate 99  

 

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Può sembrare paradossale che una persona come me – che si professa anarchico e quindi ateo e, per giunta, surrealista – rivendichi la sua ebraicità e che proprio nell'ebraismo trovi i motivi che rafforzano le sue convinzioni. In realtà, tutto ciò sarebbe contraddittorio se nell'ebraismo non fossero enunciati le stesse aspirazioni e gli stessi principi fondamentali che hanno determinato la mia filosofia di vita. In sintesi: il rifiuto del principio d'autorità, la brama di conoscenza, il rispetto del diverso, l'anelito di giustizia, il rispetto della natura, il diritto alla felicità, il riconoscimento della valenza salvifica e iniziatica della donna.

In un mondo devastato dal prevalere dell'uomo sulla donna, della pornografia sull'amore, della competizione sulla collaborazione, dell'oscurantismo sulla razionalità, dell'egoismo sulla fratellanza, del fondamentalismo e dello sciovinismo sulla tolleranza e sull'universalismo, del selvaggio sfruttamento della terra sul godimento delle bellezze che ci offre, ritengo che sia più attuale che mai ricordare alcuni dei capisaldi del pensiero dell'ebraismo che esaltano proprio quei valori etici e umani oggi tanto pericolosamente ignorati; gli stessi valori che mi hanno fatto essere ciò che sempre desidero essere.

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1. IL RIFIUTO DEL PRINCIPIO D'AUTORITŔ



Non esiste malinteso più radicato a proposito dell'anarchia di quello che questa filosofia della vita sia sinonimo di disordine e violenza. Basta tornare all'etimologia della parola, an-àrchos, per capire che quello che l'anarchico rifiuta è il comandante, il capo (àrchos) e quindi il principio di un'autorità irrazionale, di natura statica, imposta, arbitraria, e generatrice di caos. L'anarchico, al contrario, aspira a un ordine razionale, di carattere dinamico, liberamente accettato, fondato sul sapere e quindi armonioso.

Nulla può meglio illustrare il rifiuto del principio d'autorità nell'ebraismo quanto la disputa tra Rav Eliezer e un'assemblea di saggi sulla kasherut e sul forno di Achnai.

Rabbi Eliezer, dopo avere prodotto una serie d'argomenti a difesa della propria tesi, senza riuscire a convincere l'assemblea, disse: «Se ho ragione, che questo carrubo si sposti» e il carrubo si sradicò e cadde cento braccia più in là. I rabbini dissero: «Un carrubo non può provare nulla». Rabbi Eliezer, allora, disse: «Se la sentenza è quella che sostengo, l'acqua di questo canale tornerà alla fonte» e l'acqua del canale cominciò a scorrere all'indietro. Gli altri rabbini dissero: «Un canale d'acqua non può servire come prova» e allora Rabbi Eliezer disse: «Se ho ragione i muri della scuola s'inclineranno» e i muri della scuola s'inclinarono. Rabbi Yehoshua, allora, inveì dicendo: «Cosa c'entrano i muri se i saggi disputano un punto di legge?». Rabbi Eliezer, prossimo alla disperazione, gridò: «Se la decisione deve essere come sostengo, lo dimostri D-o stesso!». Allora si sentì una voce celeste: «Ma cosa volete da Rabbi Eliezer? La decisione è come afferma lui». Allora Rabbi Yehoshua saltò su e citò il versetto dal Deuteronomio: «La Torà non è nel cielo» (30,12). In quel giorno Rabbi Nathan incontrò il profeta Elijah e gli chiese: «Cosa fece il Santo Benedetto in quel momento?». Elijah rispose: «D-o ha sorriso e ha detto: "I miei figli mi hanno superato! I miei figli mi hanno superato"».


Il rifiuto dell'autoritarismo nell'animo ebraico si deduce anche dalle due versioni del Talmud che raccolgono opinioni e interpretazioni della Bibbia spesso in contrasto fra loro. Questa propensione alla dialettica è talmente radicata nella psiche ebraica che è lodata l'arte che, in italiano, si esprime con la locuzione «tagliare un capello in quattro» e che in ebraico è reso dalla parola pilpul. Il pilpul, infatti, oggi ha acquisito un significato negativo, ma in origine era lo studio sistematico degli scritti talmudici. Questo esercizio provocava discussioni creative interminabili e svisceramenti senza fine degli argomenti, al punto che nel XVI secolo il metodo del pilpul era utilizzato nelle accademie rabbiniche (yeshivot) per sviluppare le facoltà dialettiche e logiche degli studenti. Il pilpul era considerato una delle 48 virtù che permettevano d'imparare la Torà. Esemplare in questo senso il fatto che, nel Talmud, un argomento che minaccia di risolvere una controversia è ritenuto una difficoltà (kushia), mentre quello che la ristabilisce è stimato essere una soluzione (terutz).

Una delle prime testimonianze storiche del rifiuto dell'autorità non divina è data da Giuseppe Flavio che, nella sua Guerra giudaica, cita le parole di Eleazar, uno dei capi zeloti: «Abbiamo deciso da molto tempo di non essere sottomessi né ai Romani né a chiunque altro, ma a D-o soltanto, poiché Egli solo è il vero padrone dell'uomo». Erich Fromm commenta: «Il concetto della servitù a D-o fu, nella tradizione ebraica, trasformato in modo da costituire la base della libertà dell'uomo. L'autorità di D-o perciò garantisce l'indipendenza dell'uomo dall'autorità umana».

Già nella sua tesi di laurea del 1922 Fromm aveva rilevato il carattere antidogmatico della legge ebraica, osservando che il ricorso a professioni di fede dogmatiche vincolanti si ritrova soltanto nel Medioevo, dopo lo scontro con culture estranee e, in particolare, dopo i grandi dibattiti teologici con le autorità ecclesiastiche dell'epoca. La legislazione ebraica (halakà), chiarisce Fromm, «chiede l'azione e non la fede... intende creare le possibilità di raggiungere la meta, ma non è essa stessa la meta. E, come indica la parola halakà (da haloch: camminare), una strada. Questo significa che è possibile pervenire alla conoscenza di D-o anche senza essa». Tornerò su quest'ultimo punto nel capitolo che tratta del rispetto del diverso.

Pensare con la propria testa, non sottomettersi, senza giustificazioni, a un'autorità «superiore», in altre parole il voler «essere lampada a sé stessi» – come suggerisce anche Gautama Siddharta – implica un'esigenza cara al pensiero anarchico: l'opposizione alla delega del potere. Questo principio spiega perché non esiste nell'ebraismo la figura del sacerdote investito della mansione di intermediario tra la divinità e l'umano. Il voler essere la lampada di sé stessi e la brama di conoscenza – virtù fondamentale dell'animo umano – sono rafforzati nell'ebreo, come vedremo, anche da un'esigenza di carattere teologico.

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3. IL RISPETTO DEL DIVERSO



L'idea biblica che la vocazione e la missione d'Israele siano il portare la parola di D-o a tutta l'umanità richiama il dovere di fratellanza. Tale dovere deve essere privo d'ogni volontà di proselitismo e di ogni forma di dogmatismo, dato che esclude la discriminazione o la condanna di quanti hanno un diverso concetto del messaggio divino. Nella Bibbia non è predicata, infatti, alcuna esclusiva salvifica. L'idea che l'ebraismo sia una dottrina che ritiene di essere l'unica via di salvezza è sbagliata per la semplice ragione che l'ebraismo non è mai stato una chiesa, e dunque non ha mai avuto un clero che ritiene di avere il ruolo di unico intermediario tra D-o e gli uomini. Nel libro dell'Esodo, infatti, è precisato che l'intero popolo ebraico è un popolo di sacerdoti e che non esiste una casta separata dal popolo.

Tale circostanza non esclude che altre nazioni siano altrettanto sante: nel libro della Genesi è sancito che «saranno benedette tutte le famiglie della terra». Candidato alla salvezza è quindi chiunque crede in un D-o unico e giusto e agisce di conseguenza. Ne consegue che la perdita della salvezza è l'esito di un agire male, non di un pensare diversamente. Il pensare diversamente fa parte della personalità dell'ebreo come conferma il detto «Due ebrei, tre opinioni».

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5. IL RISPETTO DELLA NATURA



Vi è un termine in ebraico, makom (letteralmente: «luogo»), che, dal punto di vista della semantica, non mi pare abbia un equivalente in altre lingue. Questo termine riassume l'atteggiamento di profondo rispetto che, storicamente, gli ebrei nutrono per la madre terra. Makom può essere tradotto solo con una perifrasi: «luogo consacrato in terra o nei cieli». L'ebraico non ha un termine che corrisponda al greco kósmos, o al nostro «mondo»; esso è designato con la perifrasi «i cieli e la terra» (hashamayim vehaaretz) o anche con «il tutto» (kôl, hakôl). Quello che è consacrato, pertanto, non è un «luogo» geograficamente circoscritto ma il mondo intero, come risulta dalla lettura dei Salmi e dall'espressione ricorrente nella Bibbia che afferma la santità della terra (kedushat ha-aretz). Il capitolo della Genesi si apre, infatti, con parole solenni che santificano la terra che è creazione divina, affidando all'uomo il compito di curarla e custodirla.

[...]

Da quanto precede, si nota come nella letteratura antica dell'ebraismo i principali problemi di carattere ecologico siano affrontati in profondità. La preservazione e la protezione della natura è una preoccupazione costante che trova la conferma paradigmatica nell'instaurazione dell'anno sabbatico. Nell'Esodo, il riposo del settimo giorno è esteso anche al terreno che deve riposare il settimo anno (shemittà). Il fatto che anche gli animali siano coinvolti in questa ricerca della felicità è indice di uno spirito olistico e della presa di coscienza del fatto che l'essere è parte di un tutto indivisibile.

L'instaurazione dell'anno del Giubileo (lo Shabbat del Shabbat) dimostra che il legislatore antico aveva capito che i problemi ecologici non possono essere disgiunti da quelli sociali. La norma che prevedeva la ridistribuzione della terra ogni cinquant'anni, essendo questa di proprietà divina e non potendo essere venduta definitivamente, impediva la nascita di una classe di proprietari terrieri e la formazione di latifondi.

L'attenzione per l'habitat è confermata pure dal gran numero di leggi e regolamenti emanati per fronteggiare gli abusi ambientali. Č condannato, per esempio, l'eccesso dei diritti privati che potrebbero danneggiare quelli della collettività, così come l'esercizio dei diritti di proprietà che potrebbero alterare l'ambiente. Č proibita la distruzione immotivata di vita animale e vegetale. Č vietato anche lo sperpero d'oggetti quando l'esito di tali azioni può condurre alla produzione di rifiuti; è anche proibito distruggere alberi fruttiferi e questo persino in tempo di guerra.

Il problema dell'inquinamento ambientale è affrontato in dettaglio. Č prescritto, per esempio, come eliminare i rifiuti umani, quelli animali e quelli industriali. Sono stati emanati regolamenti rigorosi per evitare l'inquinamento dell'aria e dell'acqua. Persino l'inquinamento acustico è oggetto di norme per controllarne l'intensità. Quando le conseguenze di un'attività sono pericolose, questa deve essere vietata se esercitata nelle vicinanze di abitazioni.

La madre terra e la sua fauna devono essere protette non solamente per un senso di intima solidarietà o perché la nostra vita dipende dalla loro salute, ma anche perché sono fonte di preziosi insegnamenti. Per esempio, un bellissimo brano del Qohelet consiglia di osservare la natura e i suoi ritmi per trarne lumi; un passo dei Proverbi chiede al pigro di prendere esempio dall'attività della formica; in Giobbe si ammonisce: «anche le bestie, gli uccelli e i pesci possono illuminarci».

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7. LA VALENZA SALVIFICA E INIZIATICA DELLA DONNA



L'importanza attribuita alla donna nella letteratura biblica, talmudica e cabbalista è chiara sin dalle prime pagine del Tanakh. Nella Genesi è segnalata, in termini che non lasciano dubbi, la natura androgina della divinità che implica pari dignità per la donna e l'uomo: «D-o creò l'essere a Sua immagine; lo creò a immagine di D-o; creò maschio e femmina». Giova ricordare che il culto dell'entità divina denominata Yahvè (per rispetto, detto anche Adonai: «mio Signore») ed Elohim, fu preceduto, anche presso gli ebrei biblici, dalla venerazione per la divinità dell'amore adorata dalle popolazioni dell'antico Medio Oriente e conosciuta sotto nomi che variavano secondo l'origine geografica del culto. Ci furono Astarte o Anat (in ebraico Ashtoreth), in Fenicia; Asherah e Qadesh a Canaan; Inanna a Sumer e Ishtar ad Akkad.

Il fatto che la divinità non possa essere solo maschile o solo femminile, perché in tal caso non sarebbe più perfetta e assumerebbe solo la metà della condizione divina, implica il valore paritario del maschile e del femminile. Lo conferma la letteratura sacra ed esoterica dell'ebraismo. All'aspetto femminile di D-o è dato il nome di Shekinà, indicando che le due identità sono in un rapporto complementare, non conflittuale e, quindi, non gerarchico.

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Pagina 85

CONCLUSIONE



Ho cercato di tratteggiare i principi della mia filosofia di vita, ma il titolo di questo scritto – Sono ebreo, anche dove anche allude a uno stato d'animo plurale – impone alcune considerazioni di carattere più esistenziale. La condizione dell'ebreo – e quindi mia – nella società moderna è quella di vivere alienato nel significato che il termine ha assunto – dopo Hegel e Marx – con Erich Fromm e Herbert Marcuse, tra gli altri.

Alienato per sempre? Sì! Almeno sin quando i popoli della terra non avranno imparato a convivere tra loro e con il pianeta Terra che li ospita; sin quando l'uomo non sarà più un lupo per l'uomo; sin quando non sarà restituito alla donna il posto che le spetta, il primo.

Riusciremo a realizzare una tale civiltà? Come ogni rivoluzionario sono obbligato a essere ottimista, ad avere fiducia nella forza del desiderio dell'individuo di aspirare a un mondo migliore. Sin quando non avremo raggiunto questa meta, saremo tutti alienati – ricchi e poveri, bianchi e neri, atei e credenti. Per un ebreo di sinistra, questa alienazione è doppia e ancora più dolorosa da vivere nel constatare che persino larga parte della sinistra è contagiata - oggi come ieri - dal virus dell'antisemitismo che ora si veste, per l'occasione, con i panni dell'anti-sionismo.

L'antisemitismo, per un marxiano come me, non è visto come un fenomeno che colpirebbe l'ebreo in quanto tale. Penso che il rifiuto dell'ebreo sia motivato dalla sua appartenenza a una minoranza. La discriminazione per altre minoranze non è diversa: basti pensare alla condizione dei non-comunitari in Europa, dei cattolici nell'Irlanda del Nord e dei protestanti in quella del Sud, dei bianchi tra i neri e dei neri tra i bianchi. Gli esempi potrebbero essere moltiplicati all'infinito. Si rifiuta il diverso proprio perché è diverso, così come il corpo umano rigetta qualsiasi elemento estraneo. Il diverso disturba e inquieta, lo si vuole omologare, renderlo conforme al modello dominante. Anche se l'antisemitismo non è un fenomeno sui generis, chi ne è colpito non ne è meno trafitto, né meno umiliato.

Per un ebreo vi è poi un'altra circostanza che determina un conflitto interiore — e che giustifica l' anche del titolo: è quello della doppia identità. Doppia identità che si riassume nell'interrogativo: assimilarsi, omologarsi al proprio ambiente, oppure mantenere la propria identità? Condizione che, per un ebreo non osservante oppure ateo, diventa difficile da definire, ma che si manifesta principalmente con la consapevolezza dell'appartenere a una determinata tradizione storica e culturale, con la preoccupazione per la sorte degli ebrei che vivono in paesi a rischio e con l'attaccamento allo Stato d'Israele.

Per Gustav Landauer – filosofo anarchico tedesco, tra i promotori della Repubblica dei Consigli bavarese, assassinato nel 1919 con la repressione del movimento rivoluzionario — non vi era nessuna contraddizione tra le due identità: «Sono ebreo e tedesco, non un ebreo tedesco o un tedesco ebreo», rispose a chi gli chiedeva conto della doppia appartenenza. Risponderei con lo stesso criterio, memore della risposta data duemila anni fa da Filone d'Alessandria. Quando gli chiesero come facesse a essere leale verso Egitto e Israele, rispose: «Perché, non si può forse amare nello stesso modo il padre e la madre?».

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