Copertina
Autore W. G. Sebald
Titolo Austerlitz
EdizioneAdelphi, Milano, 2002, Fabula 143 , pag. 320, dim. 140x220x25 mm , Isbn 978-88-459-1707-3
OriginaleAusterlitz [2001]
TraduttoreAda Vigliani
LettoreRenato di Stefano, 2002
Classe narrativa tedesca
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Pagina 9

Nella seconda metà degli anni Sessanta mi recavo di frequente, in parte per motivi di studio, in parte per altre ragioni a me stesso non ben chiare, dall'Inghilterra al Belgio, a volte solo per un giorno o due, a volte per parecchie settimane. Durante una di quelle puntate in Belgio che - questa era allora la mia impressione - mi portavano in terre sempre molto lontane, capitai anche, in una scintillante giornata di inizio estate, ad Anversa, città che fino a quel momento conoscevo soltanto di nome. Già all'arrivo, mentre sferragliando il treno avanzava lentamente sotto la volta buia della stazione, dopo aver attraversato un viadotto dalle strane torrette a guglia su entrambi i lati, fui subito colto da un senso di malessere che, per tutto il tempo trascorso quella volta in Belgio, non mi avrebbe più abbandonato. Ricordo ancora con quali passi incerti girovagavo in lungo e in largo nel centro della città, per la Jeruzalemstraat, la Nachtegaalstraat, la Pelikaanstraat, la Paradijsstraat, la Immerseelstraat e per molte altre vie e stradine, e come alla fine, tormentato dal mal di testa e dai cattivi pensieri, trovassi rifugio al giardino zoologico situato in Astridplein, nelle immediate vicinanze della stazione centrale. Rimasi lì seduto, finché non mi sentii un po' meglio, su una panchina in penombra accanto a una voliera in cui svolazzavano numerosi fringuelli e lucherini dal piumaggio variopinto. Verso il tardo pomeriggio feci una passeggiata nel parco e infine entrai a dare un'occhiata al Nocturama, che era stato aperto solo da qualche mese. Ci volle parecchio prima che i miei occhi si abituassero alla semioscurità artificiale e io riuscissi a distinguere i diversi animali che, dietro le vetrate, trascorrevano quella loro vita umbratile, illuminata da uno scialbo chiarore lunare. Non ricordo più con esattezza quali animali io abbia visto quella volta nel Nocturama di Anversa. Probabilmente erano pipistrelli e iaculini, originari dell'Egitto o del deserto dei Gobi, esemplari della fauna locale come istrici, gufi e civette, opossum australiani, martore, ghiri e lemuri, che balzavano da un ramo all'altro, passavano rapidi sul terreno di sabbia giallastra o erano sul punto di sparire in un intrico di bambù. Un ricordo nitido mi è rimasto in fondo solo dell'orsetto lavatore che osservai a lungo mentre, con espressione seria, se ne stava seduto ai bordi d'un rigagnolo, continuando a lavare sempre lo stesso pezzo di mela, quasi sperasse, mediante quell'operazione che andava ben al di là di ogni ragionevole scrupolo, di poter evadere dal mondo illusorio in cui era capitato senza, per così dire, il suo personale intervento. Per il resto, degli animali alloggiati nel Nocturama, ricordo soltanto che alcuni avevano occhi straordinariamente grandi e quello sguardo fisso e indagatore, riscontrabile anche in certi pittori e filosofi i quali, per mezzo della pura intuizione e del puro pensiero, cercano di penetrare l'oscurità in cui siamo immersi.

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Pagina 33

[...] Nessuno può spiegare esattamente che cosa succede in noi quando si spalanca la porta dietro cui sono celati i terrori dell'infanzia. Io però ricordo ancora che quella volta, nella casamatta di Breendonk, mi salì alle narici un disgustoso odore di sapone tenero, che quell'odore si associava, in un angolo confuso della mia mente, con una delle espressioni preferite di mio padre e a me sempre odiosa: «spazzola di saggina», che una serie di tratti neri cominciò a ballarmi davanti agli occhi e io fui costretto ad appoggiarmi con la fronte alla parete enfia di macchie bluastre, ammuffita e, così mi parve, ricoperta di fredde gocce di sudore. Non posso dire che insieme a quel senso montante di nausea fosse affiorata in me un'idea precisa dei cosiddetti interrogatori di rigore condotti in quel luogo proprio al tempo della mia nascita: fu solo qualche anno più tardi, infatti, che lessi in Jean Améry della spaventosa vicinanza fisica tra vittime e carnefici, della tortura cui egli era stato sottoposto a Breendonk; tortura consistita nel sollevarlo in aria per le mani legate dietro la schiena affinché i condili saltassero dai glenoidi nell'articolazione delle spalle con uno schianto e uno scheggiarsi che lui, ancora al momento di scriverne, non aveva dimenticato, e nel lasciarlo pendere nel vuoto con le braccia slogate, tirate in alto da dietro e chiuse sopra la testa in posizione rovesciata: la pendaison par les mains liées dans le dos jusqu'à évanouissement - così viene detto nel libro Le jardin des plantes, nel quale Claude Simon si cala nuovamente nel deposito dei suoi ricordi e dove, a pagina 235, incomincia a raccontare la frammentaria biografia di un certo Gastone Novelli che era stato sottoposto, come Améry, a questa particolare forma di tortura. Precede il resoconto un'annotazione del 26 ottobre 1943, tratta dal diario del generale Rommel il quale, vista la completa impotenza della polizia in Italia, ritiene che i Tedeschi debbano ora avocare a sé il comando. E in seguito alle misure prese da costoro, Novelli - così racconta Simon - fu arrestato e deportato a Dachau. Di quel che là gli era accaduto, con lui Novelli non aveva mai fatto parola - prosegue Simon - tranne un'unica volta in cui gli aveva detto che, dopo la liberazione dal lager, la sola vista di un Tedesco, anzi di una qualsiasi creatura appartenente al cosiddetto mondo civilizzato, non importa se uomo o donna, gli era divenuta così insopportabile che, non ancora del tutto ristabilito, si era imbarcato sulla prima nave diretta in Sudamerica per tentarvi la sorte del cercatore d'oro e di diamanti. Per un certo periodo Novelli era vissuto nella foresta vergine presso una tribù di indigeni piccoli e color del rame, che un giorno, senza tremar di foglia, erano sbucayi lì accanto a lui come dal nulla. Egli ne assunse le abitudini e compilò, alla bell'e meglio, un dizionario della loro lingua fatta quasi esclusivamente di vocali e, soprattutto, del suono A sottolineato e accentuato in infinite variazioni; una lingua, come scrive Simon, della quale all'Istituto di glottologia a San Paolo non è registrata una sola parola. Più tardi, tornato in patria, Novelli si mise a dipingere quadri. Il motivo principale, da lui utilizzato in sempre nuove versioni e combinazioni - filiforme, gras, soudain, plus épais ou plus grand, puis de nouveau mince, boiteux -, era la lettera A, che egli incideva sullo strato di colore appena steso, una volta con la matita, un'altra con il manico del pennello o con uno strumento ancora più grossolano, in serie cumulate le une accanto o sopra le altre, sempre uguali e però mai ripetitive, in onde ascendenti e discendenti come un grido prolungato.

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Pagina 76

[...] A più di un anno dalla visita al manicomio di Denbigh, all'inizio del trimestre estivo del 1949, giusto mentre stavamo preparando gli esami che avrebbero deciso del nostro futuro - così Austerlitz, dopo un po' di tempo, riprese il suo racconto -, il direttore Penrith-Smith mi fece chiamare una mattina nel suo ufficio. Me lo rivedo davanti in quella veste sfilacciata mentre, avvolto dal fumo azzurro della pipa, se ne stava lì in piedi nella luce del sole che filtrava obliqua dalla griglia dei vetri a piombo, e con quel suo tipico modo di fare confuso ripeteva più volte, da cima a fondo, che mi ero comportato in maniera esemplare, davvero esemplare, considerando gli avvenimenti degli ultimi due anni, e se nelle settimane successive io avessi soddisfatto le speranze legittimamente riposte in me dagli insegnanti, avrei potuto beneficiare di una borsa di studio offerta dagli Stower Grange Trustees per portare a termine il corso superiore. Al momento, in ogni caso, egli aveva l'obbligo di comunicarmi che sui documenti d'esame avrei dovuto scrivere non Dafydd Elias, bensì Jacques Austerlitz. It appears, disse Penrith-Smith, that this is your real name. I miei genitori affidatari, con i quali lui aveva parlato a lungo al momento dell'iscrizione in quella scuola, avrebbero voluto informarmi a tempo debito, prima che iniziassero gli esami, della mia origine, e se possibile adottarmi, ma da come si erano ormai messe le cose, aveva detto Penrith-Smith, tale eventualità era esclusa, purtroppo. Lui stesso sapeva soltanto che i coniugi Elias mi avevano accolto in casa loro all'inizio della guerra, quando io ero ancora un bambino piccolo, e perciò non poteva dirmi niente di più preciso. Appena le condizioni di Elias fossero migliorate, tutto si sarebbe sicuramente risolto. As far as the other boys are concerned, you remain Dafydd Elias for the time being. There's no need to let anyone know. It is just that you will have to put Jacques Austerlitz on your examination papers or else your work may be considered invalid. Penrith-Smith aveva scritto il nome su un foglietto e quando me lo porse, io non seppi dirgli altro che «Thank you, Sir», disse Austerlitz. A disorientarmi più di tutto, sulle prime, fu che alla parola Austerlitz io non associavo assolutamente nulla. Se il mio nuovo nome fosse stato Morgan oppure Jones, in tal caso avrei potuto riconnetterlo alla realtà. Perfino il nome Jacques mi era noto per via di una canzoncina francese. Ma Austerlitz non lo avevo mai sentito prima e perciò, fin dall'inizio, maturai la convinzione che, tranne me, nessuno si chiamasse così, né in Galles né nelle isole britanniche e nemmeno nel resto del mondo. E in effetti, da quando alcuni anni or sono ho cercato di ricostruire la mia storia, non mi sono mai imbattuto in un altro Austerlitz, né negli elenchi telefonici di Londra né in quelli di Parigi, Amsterdam o Anversa.

[...] Quanto alla mia storia, io, come ho già detto, fino a quel giorno d'aprile del 1949 in cui Penrith-Smith mi porse il foglio da lui scritto, non avevo mai udito il nome Austerlitz. Né riuscivo a immaginarmi come andasse pronunciato e lessi tre o quattro volte sillabandola quella strana parola simile a una formula segreta, prima di alzare gli occhi e dire: Excuse me, Sir, but what does it mean?, domanda alla quale Penrith-Smith rispose: I think you will find it is a small place in Moravia, site of a famous battle, you know. Ed effettivamente, nel corso del successivo anno scolastico, avrei sentito parlare a lungo del villaggio moravo di Austerlitz. Nel programma della penultima classe era infatti prevista storia europea, che in genere veniva ritenuta un argomento complicato e non privo di rischi, ragion per cui non si andava di regola oltre il periodo compreso tra il 1789 e il 1814, periodo coronato da un grande successo dell'Inghilterra.

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Pagina 92

[...] il tratto esotico di Andromeda Lodge erano in primo luogo i cacatua dalle piume bianche, che volavano tutt'intorno alla casa per un raggio di due o tre miglia, si mandavano richiami dai cespugli e facevano il bagno divertendosi fino a tarda sera fra gli spruzzi del torrente. Il bisnonno di Gerald ne aveva portate a casa alcune coppie dalle Molucche, sistemandole nella orangerie, dove si erano presto moltiplicate sino a formare una numerosa colonia. Vivevano in piccole botti da sherry, accatastate a piramide contro una delle pareti laterali, che gli stessi cacatua, non rispettando su questo punto le loro abitudini originarie, disse Austerlitz, avevano provvisto di trucioli trovati in una segheria giù in riva al fiume. La maggior parte di loro era riuscita a superare persino il durissimo inverno tra il 1946 e il 1947, perché nei due mesi più gelidi, gennaio e febbraio, Adela aveva appositamente acceso la vecchia stufa dell'orangerie. Era uno spettacolo meraviglioso, disse Austerlitz, osservare con quanta agilità quegli uccelli si arrampicassero da una spalliera all'altra tenendosi con il becco e, al momento di scendere, eseguissero ogni sorta di evoluzioni acrobatiche come, con le finestre aperte, volassero dentro e fuori, oppure saltellassero e corressero sul pavimento, sempre indaffarati e - questa era l'impressione - sempre con uno scopo ben preciso. Del resto assomigliavano agli uomini da parecchi punti di vista. Li si udiva sospirare, ridere, starnutire e sbadigliare. Si raschiavano la gola prima di incominciare a parlare nella loro lingua di cacatua, si mostravano attenti, calcolatori, scaltri e astuti, falsi, maligni, vendicativi e litigiosi. A certe persone, più di tutte ad Adela e a Gerald, erano affezionati, mentre ne perseguitavano altre, come ad esempio la governante gallese che solo di rado si faceva vedere all'aperto, con un vero e proprio odio; anzi, sembrava sapessero esattamente a quali ore la donna, sempre con un cappello nero in testa e un parapioggia nero in mano, si recava alla casa di culto, e in attesa di queste occasioni che si ripetevano regolarmente le facevano ogni volta la posta per inseguirla con urli sguaiati. Anche il modo di raccogliersi in folti gruppi sempre diversi per tornare poi a starsene vicini a coppie, come se non conoscessero altro che la concordia e fossero inseparabili in eterno, era uno specchio della società umana. In una radura, circondata da piante di corbezzolo, avevano persino un cimitero, benché non fossero loro personalmente a occuparsene, con una lunga fila di fosse, e in una stanza al piano superiore di Andromeda Lodge c'era un armadio a muro, costruito evidentemente proprio al medesimo scopo, nel quale era stipato, dentro scatole di cartone verde scuro, un gran numero di consimili defunti dei cacatua, i loro fratelli dal ventre rosso e dal ciuffo giallo, are azzurre e macao, lorichetti e cocorite, parrocchetti terragnoli e con proboscide, che il bisnonno o trisnonno di Gerald aveva portato con sé dalla sua circumnavigazione del globo, oppure aveva commissionato per un paio di ghinee o di luigi a un mercante di Le Havre, un certo Théodore Grace, come risulta dai foglietti registranti la provenienza sul fondo delle scatole. Il più bello di tutti questi uccelli, tra i quali c'erano anche alcune specie locali come picchi, torcicolli, nibbi e rigogoli, era il cosiddetto pappagallo cenerino. Vedo ancora distintamente, disse Austerlitz, la scritta sul suo sarcofago di cartone verde: Jaco, Ps. Erithacus L. Era originario del Congo, e nel suo esilio gallese aveva raggiunto - come recitava l'epitaffio allegato - la veneranda età di sessantasei anni. Era stato oltremodo docile e mansueto, si leggeva sul foglietto, aveva appreso con facilità, parlato molto da solo e con gli altri, aveva fischiettato e in parte anche composto intere canzoni, ma soprattutto aveva imitato le voci dei bambini lasciandosi addestrare da loro. Quando però non gli davano abbastanza noccioli di albicocca e noci da sgranocchiare, che sapeva aprire con somma destrezza, si faceva di cattivo umore e - in ciò soltanto mancando di creanza - se ne andava in giro dappertutto a rosicchiare i mobili. Gerald aveva spesso tratto fuori dalla sua scatola questo singolare pappagallo. Misurava circa nove pollici e, come denunciava il suo nome, possedeva un piumaggio grigio cenere, tranne la coda rosso carminio, un becco nero e una faccia biancastra, segnata - come ben si poteva immaginare - da profonda mestizia. Del resto, proseguì Austerlitz, ad Andromeda Lodge quasi non c'era stanza che non ospitasse una specie di gabinetto di storia naturale, con armadi provvisti di innumerevoli cassetti, in parte muniti di vetri, nei quali erano sistemate a centinaia le uova quasi sferiche dei pappagalli e, accanto, collezioni di conchiglie, minerali, coleotteri e farfalle, nonché, immersi nella formaldeide, orbettini, vipere e lucertole, e poi ancora gusci di chiocciola e stelle marine, gamberi e granchi e grandi erbari con foglie di alberi, fiori ed erbe. Adela gli aveva raccontato una volta, disse Austerlitz, che la trasformazione di Andromeda Lodge in una specie di museo di storia naturale aveva avuto inizio nel 1869, quando l'antenato di Gerald amante dei pappagalli aveva conosciuto Charles Darwin, il quale stava lavorando allora al suo studio sull'origine dell'uomo in una casa presa in affitto non lontano da Dolgellau. A quell'epoca Darwin era stato spesso ospite dei Fitzpatrick ad Andromeda Lodge e, secondo quanto si tramandava in famiglia, aveva ripetutamente elogiato la vista paradisiaca che si godeva di lassù.

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Pagina 106

[...] Talvolta, alla vista di una tignola morta così nel mio appartamento, mi domando che genere di angoscia e dolore esse provino quando capiscono di essersi smarrite. Come lui aveva appreso da Alphonso, disse Austerlitz, non c'è in fondo alcun motivo per negare una psiche alle creature più umili. A sognare di notte non siamo, a suo giudizio, soltanto noi e i cani o gli altri animali domestici, legati da millenni alle nostre emozioni; anche i mammiferi più piccoli, i topi e le talpe, indugiano dormendo, come si può dedurre dai movimenti degli occhi, in un mondo esistente soltanto dentro di loro, e chissà, disse Austerlitz, forse anche le tignole sognano, forse sogna anche la lattuga in giardino, quando di notte leva lo sguardo alla luna. Io stesso, nelle settimane e nei mesi che mi era dato trascorrere in casa dei Fitzpatrick, avevo non di rado l'impressione - e questo persino durante il giorno - di essere immerso in un sogno, disse Austerlitz. La vista dalla camera con il soffitto azzurro, che Adela ha sempre chiamato la mia camera, confinava davvero con l'irreale. Vedevo dall'alto, simili a un verde paesaggio collinare, le chiome degli alberi, in prevalenza cedri e pini a ombrello che, dalla strada sotto casa, scendevano verso la riva del fiume, vedevo i corrugamenti scuri nelle masse montuose sul lato opposto e guardavo a lungo in direzione del mare d'Irlanda che, a seconda delle ore e delle condizioni atmosferiche, cambiava di continuo. Quante volte sono rimasto davanti alla finestra aperta senza riuscire a fissare un solo pensiero di fronte a quello spettacolo sempre diverso! Di mattina là fuori c'era la metà in ombra del mondo, il grigio dell'aria stratificato sull'acqua. Di pomeriggio si levavano spesso sull'orizzonte sud-occidentale nubi cumuliformi: erano declivi e pareti ripide che, d'un bianco abbagliante, si intrecciavano fra loro e crescevano gli uni sulle altre arrivando sempre più in su, così in alto - mi aveva detto una volta Gerald, disse Austerlitz - come le vette delle Ande o del Karakorum. Poi di nuovo incombevano in lontananza i piovaschi e venivano trascinati dal mare verso terra, come a teatro le pesanti cortine del sipario, e nelle sere d'autunno la nebbia rotolava verso la spiaggia, si accumulava contro i fianchi delle montagne e si spingeva su per la valle. Ma era soprattutto nelle chiare giornate estive che sull'intera baia di Barmouth era sospeso uno scintillio talmente uniforme da rendere indistinguibili le superfici della sabbia e dell'acqua, della terraferma e del mare, del cielo e della terra. In una caligine perlacea le forme e i colori si dileguavano; non c'erano più né contrasti né gradazioni, solo passaggi fluidi, animati dalla luce, un unico insieme indistinto dal quale affioravano soltanto i fenomeni più fugaci, e stranamente - me ne ricordo assai bene - era stata proprio la fugacità di quei fenomeni a darmi allora come il senso dell'eterno.

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Pagina 112

[...] Il tempo - così disse Austerlitz nell'Osservatorio di Greenwich - è, fra tutte le nostre invenzioni, senz'altro la più artificiosa e, nel suo essere vincolata ai pianeti che ruotano intorno al proprio asse, non meno arbitraria di quanto lo sarebbe ad esempio un calcolo basato sulla crescita degli alberi o sul periodo impiegato da una pietra calcarea per disgregarsi, a prescindere poi dal fatto che il giorno solare, in base al quale ci regoliamo, non fornisce una misura esatta, sicché noi, anche al fine di calcolare il tempo, siamo stati costretti a escogitare un immaginario sole medio, la cui velocità di rotazione non cambia e che, nella sua orbita, non è inclinato verso l'equatore. Se Newton riteneva, disse Austerlitz - e intanto indicava attraverso la finestra l'ansa del fiume che, luccicante nell'ultimo riverbero del giorno, abbracciava la cosiddetta Isola dei cani -, se davvero Newton riteneva che il tempo fosse un fiume come il Tamigi, dov'è allora la sorgente del tempo e in quale mare esso sfocia alla fine? Un fiume, come ben sappiamo, ha sempre e necessariamente un limite su entrambi i lati. Ma quali sarebbero in questa prospettiva le sponde del tempo? Quali sarebbero le sue proprietà specifiche, tali da corrispondere più o meno a quelle dell'acqua, che è liquida, piuttosto pesante e trasparente? Come si distinguono gli oggetti immersi nel tempo da quelli che non ne sono mai stati toccati? Che cosa significa che le ore di luce e quelle di oscurità sono segnate nella medesima circonferenza? Perché in un certo luogo il tempo è eternamente immobile e in un altro scorre veloce e incalzante? Non si potrebbe sostenere, disse Austerlitz, che il tempo stesso, per i secoli e i millenni, è rimasto asincronico? In definitiva non è poi da molto che si sta espandendo dappertutto. E d'altronde, in parecchie regioni della terra, la vita degli uomini non viene forse regolata ancor oggi, più che dal tempo, dai fenomeni atmosferici e quindi da una grandezza non quantificabile, che non conosce la regolarità lineare, non avanza costantemente, ma si muove a spirale, determinata da ristagni e irruzioni, che si ripresenta di continuo in forma mutata e nel suo sviluppo nessuno sa dove si diriga? L'essere-fuori-dal-tempo - disse Austerlitz -, che sino a pochi anni fa valeva per le zone arretrate e dimenticate nel proprio paese più o meno come in passato era valso per i continenti transoceanici non ancora scoperti, è tuttora valido persino in una metropoli fondata sul tempo come Londra. I morti, d'altronde, sono fuori dal tempo, al pari dei morenti e di tutti i malati costretti a letto in casa o negli ospedali, e non soltanto loro, basta già un certo grado di infelicità personale per tagliarci fuori da qualsiasi passato e da qualsiasi futuro. Io in effetti, disse Austerlitz, non ho mai posseduto alcun tipo di orologio, né una pendola né una sveglia né un orologio da tasca e nemmeno uno da polso. Un orologio mi è sempre sembrato qualcosa di ridicolo, qualcosa di mendace per antonomasia, forse perché, per un impulso interiore a me stesso incomprensibile, mi sono sempre ribellato al potere del tempo escludendomi dai cosiddetti eventi temporali, nella speranza - come penso oggi, disse Austerlitz - che il tempo non passasse, non fosse passato, che mi si concedesse di risalirne in fretta il corso alle sue spalle, che là tutto fosse come prima o, per meglio dire, che tutti i punti temporali potessero esistere simultaneamente gli uni accanto agli altri, cioè che nulla di quanto racconta la storia sia vero, che quanto è avvenuto non sia ancora avvenuto, ma stia appunto accadendo nell'istante in cui noi ci pensiamo, il che naturalmente dischiude peraltro la desolante prospettiva di una miseria imperitura e di una sofferenza senza fine.

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Pagina 182

[...] Mille, diecimila, ventimila, mille volte mille e migliaia di migliaia era dunque il ritornello abbaiato con voce roca e fatto entrare nella testa dei Tedeschi non solo in nome della loro grandezza, ma anche della fine già incombente. Tuttavia, diceva Véra, proseguì Austerlitz, Maximilian non aveva mai creduto che il popolo tedesco fosse stato trascinato nella disgrazia: secondo lui, piuttosto, esso si era pienamente rifuso in quella forma perversa, muovendo dai sogni di ogni singolo individuo e dai sentimenti coltivati nelle famiglie, e aveva quindi prodotto, come rappresentanti simbolici del suo stato d'animo, gli alti papaveri nazisti che Maximilian riteneva tutti, senza eccezione alcuna, arruffoni e lavativi. Ogni tanto Maximilian raccontava, così ricordò Vèra, disse Austerlitz, di quella volta all'inizio dell'estate del 1933 quando, dopo una riunione sindacale a Teplice, si era spinto per un buon tratto fin nella zona dei Monti Metalliferi e lì, nel giardino di una trattoria, si era imbattuto in alcuni gitanti che in un villaggio sul versante tedesco avevano fatto ogni sorta di acquisti, fra l'altro un nuovo tipo di caramelle con una svastica color lampone incorporata nella massa zuccherina e tale dunque da sciogliersi di fatto sulla lingua. Nel vedere quella ghiottoneria nazista, Maximilian aveva detto di essersi improvvisamente reso conto che i Tedeschi stavano riorganizzando ex novo l'intero sistema produttivo, dall'industria pesante giù giù fino alla creazione di simili scempiaggini, e non perché glielo avessero ordinato, no: ciascuno nel proprio settore, mosso dall'entusiasmo per il riscatto nazionale. Véra raccontò ancora, disse Austerlitz, che nel corso degli anni Trenta Maximilian aveva fatto parecchi viaggi in Austria e Germania per poter meglio valutare come stessero evolvendo le cose, ed ella ricordava perfettamente il resoconto che lui fece, subito dopo il suo ritorno da Norimberga, della strepitosa accoglienza riservata al Führer, lì convenuto in occasione del congresso del partito. Già diverse ore prima del suo arrivo l'intera popolazione di Norimberga, insieme con la gente arrivata da fuori, non solo dalla Franconia e da altre località della Baviera, ma anche dalle regioni più lontane del paese, dallo Holstein e dalla Pomerania così come dalla Slesia e dalla Foresta Nera, si accalcava impaziente ed eccitata lungo il percorso previsto, finché, in mezzo al fragore delle ovazioni, non apparve il corteo motorizzato delle pesanti Mercedes e avanzò a passo d'uomo per la stretta via, la quale separava la marea dei volti che si spargevano raggianti e delle braccia che si tendevano bramose. Maximilian aveva raccontato, disse Véra, che in quella folla, concresciuta al punto da diventare un'unica creatura e percorsa da strani fremiti e contrazioni, egli si era in effetti sentito un corpo estraneo, pronto a essere triturato ed espulso.

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Pagina 186

[...] Agáta, per parte sua, non era disposta a recarsi in Francia prima di Maximilian, benché lui glielo avesse consigliato più volte, e fu così che tuo padre, ormai in grave pericolo, mi raccontò Véra, disse Austerlitz, decollò da Ruzyné per Parigi soltanto il pomeriggio del 14 marzo, quando ormai era già quasi troppo tardi. Ricordo ancora - disse Véra - che, al momento di congedarsi, indossava un meraviglioso doppiopetto color prugna e un cappello di feltro nero a tesa larga con un nastro verde. In effetti la mattina dopo - s'era appena fatto giorno - i Tedeschi entrarono a Praga mentre infuriava una tempesta di neve che pareva farli spuntare per così dire dal nulla, e quando attraversarono il ponte e i carri armati arrivarono sulla Narodní un profondo silenzio calò sull'intera città. A partire da quel giorno la gente prese a far vita ritirata, a camminare con passo più lento, come nel sonno, quasi non sapesse più in quale direzione volgersi. Motivo di particolare disorientamento fu per noi, notò Véra, disse Austerlitz, doverci di colpo adattare alla circolazione a destra. Ho sentito spesso un tuffo al cuore, ella disse, vedendo una macchina sfrecciare sulla strada nella corsia di destra, perché mi assaliva irrimediabile il pensiero che da quel momento in poi avremmo dovuto vivere in un mondo sbagliato. Naturalmente, proseguì Vèra, per Agáta era ancora più difficile che per me riuscire a cavarsela sotto il nuovo regime. Da quando i Tedeschi avevano emanato le loro disposizioni relative alla popolazione ebraica, lei poteva fare i suoi acquisti solo a determinate ore; non le era consentito salire su un taxi, in tram doveva viaggiare nell'ultima carrozza, caffè, cinema, concerti, e in generale qualsiasi raduno le erano preclusi. Non poteva nemmeno più calcare le scene, e le rive della Moldava, i giardini e i parchi, che tanto aveva amato, ora le erano interdetti. Non c'è luogo in mezzo al verde, disse una volta, dove io possa ancora andare, e solo adesso capisco veramente, aggiunse, com'è bello starsene appoggiati senza pensieri al parapetto di un battello che va solcando il fiume. La lista dei divieti, che si faceva ogni giorno più lunga - sento ancora Véra raccontare, disse Austerlitz, che presto fu proibito l'accesso ai marciapiedi intorno ai parchi, alle lavanderie o alle tintorie, oppure l'uso di un telefono pubblico -, condusse in poco tempo Agáta sull'orlo della disperazione. La rivedo andare avanti e indietro in questa stanza, disse Véra, battersi la fronte con la mano a ventaglio e, scandendo le sillabe a una a una, esclamare: Non ca pi sco! Non ca pi sco! Non lo ca pi rò mai!! Ciò nonostante quando le era possibile andava in centro, e lì è passata per non so quali e quanti uffici, ha atteso ore e ore per spedire un telegramma nell'unica posta cui potevano accedere i quarantamila ebrei di Praga; ha raccolto notizie, ha stretto relazioni, depositato denaro, esibito certificali e garanzie, e una volta rincasata si torturava la mente sino a notte fonda. Ma quanto più a lungo e in modo intenso si dava da fare, tanto più si affievoliva in lei la speranza di ottenere un permesso per l'espatrio, e così, durante l'estate, quando già si sentivano voci sull'imminente guerra e sulle restrizioni che di certo si sarebbero inasprite al suo scoppio, ella si risolse infine - come mi raccontò Véra, disse Austerlitz - a mandare almeno me in Inghilterra, dopo che, grazie all'interessamento di uno dei suoi amici del teatro, era riuscita a far inserire il mio nome nelle liste di uno dei pochi convogli di bambini che in quei mesi partivano da Praga alla volta di Londra.

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Pagina 190

[...] Quando ripenso ai due anni che seguirono al cosiddetto scoppio della guerra, disse Véra, ho come la sensazione che tutto allora venisse risucchiato sempre più rapidamente in un gorgo. Alla radio incalzavano le notizie, trasmesse dagli annunciatori nel caratteristico tono aspro e gutturale, circa gli inarrestabili successi della Wehrmacht che stava per impadronirsi dell'intero continente europeo e le cui campagne, colpo dopo colpo, aprivano ai Tedeschi, con logica a quanto pare ineluttabile, la prospettiva di un impero universale, dove tutti loro, in virtù dell'appartenenza a questo popolo eletto, avrebbero avuto accesso alle più brillanti carriere. Credo - sono parole di Vèra, disse Austerlitz - che in quegli anni di travolgenti vittorie perfino i più scettici fra i Tedeschi siano stati colti da una sorta di ebbrezza da altitudine, mentre noi, i soggiogati, vivevamo per così dire sotto il livello del mare e dovevamo assistere al progressivo inserirsi delle SS nell'economia dell'intero paese; e intanto le imprese commerciali venivano intestate l'una dopo l'altra a fiduciari tedeschi. Persino la fabbrica di fez e pantofole fu arianizzata. Ciò di cui Agáta ancora disponeva bastava appena per far fronte alle necessità più urgenti. I suoi depositi bancari erano bloccati da quando aveva dovuto presentare una dichiarazione patrimoniale di otto pagine con dozzine di sezioni. Le era anche severamente proibito alienare oggetti di valore come quadri o pezzi di antiquariato, e ricordo, disse Véra, che una volta aveva richiamato la mia attenzione su un paragrafo, in una di queste ordinanze degli occupanti, nel quale si diceva che, in caso di mancato rispetto del divieto, il giudeo in questione e l'acquirente sarebbero andati incontro alle più severe misure di polizia. Il giudeo in questione! esclamò Agáta, e poi disse: Ma come scrive questa gente! C'è da restare annichiliti! Fu nel tardo autunno del 1941, credo, disse Véra, che Agáta dovette portare al cosiddetto Posto di consegna obbligatorio la radio, il grammofono insieme con i dischi che lei tanto amava, il cannocchiale e il binocolo da teatro, gli strumenti musicali, i gioielli, le pellicce e i vestiti lasciati lì da Maximilian. In seguito a un errore che aveva commesso in tale occasione, la mandarono, in una giornata gelida - l'inverno, disse Véra, era giunto presto quell'anno -, a spalar neve fuori città nell'aerodromo di Ruzyné, e l'indomani alle tre, nel cuore della notte, arrivarono i due messi della comunità israelitica, che già da tempo Agáta aspettava, per comunicarle che doveva prepararsi a partire entro sei giorni. Questi messi, così me li dipinse Véra, disse Austerlitz, si somigliavano in maniera sorprendente e avevano volti in qualche modo non ben delineati, dai contorni incerti; indossavano giacche provviste di svariate pieghe, tasche, abbottonature e di una cintura; giacche che, pur non risultando perspicuo a che cosa mai servissero, parevano straordinariamente funzionali. Parlarono per un po' con Agáta a bassa voce e le consegnarono un fascio di stampati nei quali, come si vide, era scritto tutto con precisione e fin nei minimi dettagli: dove e quando la persona convocata doveva presentarsi; quali capi di vestiario - giacca, impermeabile, copricapo caldo, paraorecchi, muffole, camicia da notte, biancheria personale ecc. - doveva portare con sé; quali altri articoli, come ad esempio l'occorrente per il cucito, del grasso per il cuoio, un fornelletto a spirito e delle candele, erano consigliabili; si diceva inoltre che il peso complessivo del bagaglio non doveva superare i cinquanta chili; che cosa si poteva portare in fatto di bagaglio spicciolo e viveri, che le valigie dovevano essere contrassegnate dal nome, dalla destinazione e dal numero comunicato; che tutti i moduli acclusi dovevano essere compilati per intero e sottoscritti, che non era consentito portare con sé cuscini dei divani e altre suppellettili e nemmeno confezionare zaini e borse da viaggio utilizzando tappeti persiani, cappotti o comunque scampoli di stoffe pregiate; che i fiammiferi e gli accendini, così come il fumare, erano vietati nel punto di raccolta e, in assoluto, da quel momento in poi, e che bisognava comunque seguire alla lettera ogni disposizione degli organi ufficiali. Agáta non era in grado di attenersi a queste norme che, come adesso ben vedo anch'io, disse Véra, erano scritte in un linguaggio davvero nauseante; tutt'al più avrebbe buttato a caso in una borsa alcuni oggetti senz'altro poco pratici, come uno che intenda fare una gita di qualche giorno: fu così che alla fine, per quanto mi ripugnasse e avessi l'impressione di rendermi corresponsabile, mi incaricai io stessa di preparare i bagagli, mentre lei, apatica, restava tutto il tempo appoggiata alla finestra e guardava giù nella strada deserta. Il giorno stabilito, di primo mattino, quando fuori era ancora buio, ci mettemmo in marcia, il bagaglio fissato alla slitta, e, senza scambiarci una parola, percorremmo verso valle, in mezzo alla neve che scendeva giù a vortici intorno a noi, la lunga via che costeggia la riva sinistra della Moldava, passando davanti al parco, fino al palazzo della fiera a Holesovice. Quanto più ci avvicinavamo a questo luogo, tanto più spesso affioravano dall'oscurità piccoli gruppi di persone cariche di pesanti bagagli che, nella tormenta divenuta ora più fitta, si muovevano tutte a fatica verso la stessa meta, sicché a poco a poco venne a formarsi una lunga carovana in mezzo alla quale, intorno alle sette, raggiungemmo l'ingresso debolmente illuminato da un'unica lampadina. Lì aspettammo nella schiera delle persone convocate, percorsa solo di quando in quando da un mormorio di paura; persone tra le quali c'erano vecchi e bambini, gente semplice e gente distinta, e che portavano tutte, come prescritto, il loro numero di trasporto legato intorno al collo con lo spago. Dopo poco Agáta mi pregò di lasciarla. Al momento dell'addio mi abbracciò e mi disse: Laggiù c'è il parco Stromovka. Andresti qualche volta a fare una passeggiata per me? Un luogo così bello, che mi è sempre stato tanto caro. Magari, se guardi nell'acqua scura degli stagni, chissà che in una bella giornata tu non veda il mio volto. Ecco, e poi, disse Véra, ho ripreso la via di casa.

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