Copertina
Autore Alice Sebold
Titolo La quasi luna
Edizioneedizioni eo, Roma, 2007 , pag. 320, cop.fle., dim. 13,5x21x2,3 cm , Isbn 978-88-7641-798-6
OriginaleThe Almost Moon [2007]
TraduttoreClaudia Valeria Letizia
LettoreSara Allodi, 2007
Classe narrativa statunitense , thriller
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Pagina 7

Capitolo primo


Alla fin fine, ammazzare mia madre mi è venuto facile. La demenza, via via che scende, ha un modo tutto suo di rivelare la sostanza della persona che ne è affetta. La sostanza di mia madre era marcia come l'acqua stagnante in fondo a un vaso di fiori vecchi di settimane. Quando mio padre la conobbe era bellissima, e ancora capace d'amare quando divenni la loro figlia tardiva; ma al momento in cui quel giorno alzò gli occhi a guardarmi, questo non contava più niente.

Se non avessi risposto allo squillo del telefono, la signora Castle, sua sfortunata vicina di casa, sarebbe passata al numero seguente dell'elenco appeso per le emergenze sul frigo color crema. Invece, neanche un'ora dopo già mi stavo precipitando alla casa in cui ero nata.

Era una mattina fresca d'ottobre. Quando sono arrivata, mia madre sedeva diritta sulla sua poltrona di vellutino con i poggiatesta ai lati, avvolta in uno scialle di mohair, e borbottava. La Castle ha detto che quando quella mattina le aveva portato il giornale non l'aveva riconosciuta.

«Voleva sbattermi la porta in faccia» mi ha raccontato. «Strillava come se la stessi bruciando viva. È stata una scena penosissima».

Mia madre, presenza totemica, sedeva sulla poltrona bianca e rossa in cui aveva tassato gli oltre vent'anni trascorsi dalla morte di mio padre. Su quella poltrona era lentamente invecchiata, ritirandosi prima nella lettura di libri e nel ricamo e poi, quando la vista le si era indebolita, finendo per guardare la televisione dall'alba fino a dopo cena, quando si addormentava davanti allo schermo. Nell'ultimo paio d'anni restava seduta su quella poltrona senza nemmeno scomodarsi ad accendere la tivù. Spesso si metteva in grembo le matasse di lana che Emily, la mia figlia maggiore, le mandava ancora tutti gli anni a Natale e se le accarezzava come fanno certe vecchie con i gatti.

Ho ringraziato la Castle e l'ho tranquillizzata dicendo che me ne sarei occupata io.

«Lo sai che è ora» mi ha detto lei, voltandosi sulla porta. «Sta sola in questa casa da tanto di quel tempo».

«Lo so» ho risposto, e ho chiuso.

La Castle è scesa dal portico con tre piatti di varie misure che aveva trovato in cucina e che sosteneva fossero suoi. Non l'ho messo in dubbio. I vicini di mia madre erano una manna. Quando ero ragazza, mia madre inveiva contro la chiesa greco-ortodossa della nostra via definendo i parrocchiani, senza nessun motivo logico, "stupidi polacchi esaltati"; spesso però era stata proprio quella parrocchia a richiamare al dovere il suo gregge perché la vecchia bisbetica che abitava da sempre nella casa malconcia venisse sfamata e vestita. Se di tanto in tanto veniva anche derubata, che dire? Per una donna, vivere da sola è un rischio.

«Mi si è piazzata in casa della gente» mi aveva detto lei più di una volta. Ma è stato solo quando ho trovato un preservativo accanto al mio letto di bambina che ho fatto due più due. Manny, un ragazzo che ogni tanto andava lì per qualche riparazione, si portava le fidanzatine al piano di sopra. Ne ho parlato con la Castle, che si è rivolta a un fabbro. Non era colpa mia se mia madre si rifiutava di trasferirsi.

«Mamma» le ho detto chiamandola con quel nome che solo io, sua unica figlia, avevo il diritto di usare. Lei ha alzato lo sguardo con un sorriso.

«Stronza» ha risposto.

La demenza ha una particolarità: a volte ti dà l'impressione che per un corto circuito la persona che ne soffre arrivi dritta alla verità e riesca a vedere sotto la pelle dentro cui ti nascondi.

«Mamma, sono Helen».

«Lo so chi sei!» è sbottata lei.

Si è aggrappata con le mani alle estremità ricurve dei braccioli e le ha strette con forza, scatenando verso di me gli artigli involontari della sua collera rovente.

«Bene» ho detto.

Sono rimasta lì ancora un momento, finché non mi è parso assodato che lei era mia madre e io sua figlia. Stabilito questo, potevamo passare al nostro solito, spiacevole incontro.

Sono andata alle finestre e ho tirato su le veneziane di metallo; il nastro che le reggeva era sempre più logoro. Fuori, il giardino della mia infanzia era talmente incolto che stentavo a riconoscere le forme originarie di alberi e cespugli, di tutti quei luoghi in cui avevo giocato con altri bambini finché mia madre col suo comportamento non aveva cominciato a guadagnarsi una brutta fama.

«Quella ruba» ha detto mia madre.

Le davo le spalle; stavo guardando un rampicante che si era insinuato fra i rami dell'enorme abete a un angolo del giardino e aveva inghiottito il capanno in cui mio padre faceva i suoi lavori di falegnameria. Quello era lo spazio in cui mio padre era sempre stato più felice. Nei momenti più neri me lo immaginavo lì, mentre scartavetrava le sfere di legno che avevano preso il posto di tutti gli altri suoi progetti.

«Chi è che ruba?».

«Quella stronza».

Si riferiva alla Castle. Alla donna che quotidianamente si accertava che si fosse svegliata. Che le portava il Philadelphia Inquirer e non di rado tagliava qualche fiore del proprio giardino e lo metteva in una caraffa di plastica che non sarebbe andata in frantumi se lei l'avesse fatta cadere.

«Non è vero» le ho detto. «La Castle è una persona squisita che si occupa di te con gran premura».

«Che fine ha fatto la mia ciotola di ceramica azzurra?».

Sapevo di che ciotola parlava e mi sono resa conto che non la vedevo da molto. Quando ero ragazza, in quella ciotola c'erano sempre stati frutti che mi sembravano imprigionati: noci, nocciole, noci del Brasile che mio padre spaccava e poi tirava fuori con una forchettina minuscola.

«Gliel'ho regalata, mamma» ho mentito.

«Che hai fatto?».

«La Castle è sempre stata di una gentilezza rara, sapevo che le piaceva e così un giorno mentre stavi riposando gliel'ho regalata. Tutto qui».

L'aiuto si ricompensa, avevo voglia di dirle. Questa gente non ti deve nulla.

Mia madre mi ha guardata. Aveva uno sguardo orribile, senza fondo. Ha tatto il broncio e un labbro si è messo a tremare. Stava per piangere. Sono uscita dalla stanza per andare in cucina. Ogni volta riuscivo a trovare un buon motivo per passare in una stanza qualsiasi della casa, tranne quella in cui era lei, molte delle ore che in teoria avrei dovuto dedicarle. A quel punto ha attaccato il lamento sommesso che sentivo da una vita. Un lamento orchestrato per suscitare pietà. Era sempre stato mio padre ad accorrere; dopo la sua morte era toccato a me. Da oltre vent'anni accudivo mia madre più o meno diligentemente, precipitandomi da lei quando credeva che stesse per scoppiarle il cuore o portandola dal medico sempre più spesso via via che invecchiava.

Quel giorno, nel tardo pomeriggio, stavo spazzando lo stuoino della veranda; avevo lasciato la porta socchiusa per sentirla. A un tratto, nella nuvola di polvere che mi avvolgeva, mi è arrivato un inconfondibile odore di merda: mia madre aveva avuto urgenza di andare al bagno, ma non era riuscita ad alzarsi.

Ho lasciato la scopa e sono corsa da lei. Non era morta – come forse per un attimo avevo sperato – liberando l'intestino. Morta in casa sua come forse si augurava. No: si era sporcata restando seduta sulla sua poltrona.

«Popò!» ha esclamato. Stavolta il sorriso era diverso da quello di Stronza. Nel sorriso di Stronza c'era stato un guizzo di vita; questo, invece, non lo conoscevo. Non esprimeva né paura né malizia.

Tante volte, quando le raccontavo gli avvenimenti della giornata, Sarah, la mia figlia minore, mi diceva che nonostante tutto il bene che mi voleva, da vecchia non mi avrebbe mai spogliata per cambiarmi il pannolone. «Ti prendo un aiuto» diceva. «Non esiste incentivo più convincente per mettere da parte qualche soldo».

Nel giro di pochi secondi l'odore aveva riempito la stanza. Sono tornata fuori due volte a inghiottire enormi boccate d'aria polverosa e l'unica cosa che riuscivo a pensare era che dovevo presentare mia madre nel modo in cui lei avrebbe voluto essere vista. Mi rendevo conto che sarei stata costretta a chiamare un'ambulanza. Già da un po' ero consapevole che mia madre stava abbandonando questa vita; ma non volevo che arrivasse in ospedale incrostata di merda. O per meglio dire, sapevo che lei non l'avrebbe voluto. E così quel che per lei aveva sempre contato di più nella vita, le apparenze, è diventato quello che contava di più anche per me.

Sulla veranda ho preso un'ultima boccata e sono tornata da lei. Non sorrideva più ed era agitatissima.

«Mamma» ho detto, sicura nel momento stesso in cui la chiamavo che non avrebbe riconosciuto né quel nome né quella figlia «Ti aiuto a pulirti e poi facciamo qualche telefonata». Ma tu ormai a chi telefoni? ho pensato. Non volevo essere crudele. Spesso, però, un atteggiamento pragmatico viene interpretato in questo modo. Ma perché? La merda è merda e la realtà è realtà. Punto.

Mi sono inginocchiata davanti a lei e l'ho guardata negli occhi. Non avevo mai odiato nessuno così tanto. Eppure ho teso la mano come se finalmente mi fosse stato concesso di toccare un oggetto prezioso e ho sfiorato la sua lunga treccia d'argento. «Mamma» ho detto sottovoce. Sapevo che sarebbe rimasto sospeso nell'aria. Nessun riverbero, nessuna risposta.

La sensazione di bagnato, tuttavia, la stava mettendo a disagio, quasi fosse una lumaca intrappolata sotto il sole, ansiosa di sfuggire a un elemento che le causava sofferenza. Da che ero inginocchiata, mi sono tirata su, china in avanti. Ho appoggiato le mie spalle contro le sue, attenta a non caricarle addosso alcun peso. E curva come un giocatore di football quando placca l'avversario, l'ho sollevata. Era più leggera e nello stesso tempo più pesante di quanto mi aspettassi.

Metterla in piedi è stato facile; ma una volta in posizione verticale, mi è crollata fra le braccia. Per non lasciarla cadere, l'unica è stata finire a terra con lei. Mentre cercavo di adattarmi al suo peso per sostenerla, non ho potuto fare a meno di pensare a mio padre, che anno dopo anno si era caricato di quel fardello scusandosi con i vicini, asciugando le sue lacrime copiose. Quel corpo si era legato al suo come una pastella tante di quelle volte che alla fine erano diventati una cosa sola.

Allora è venuto da piangere anche a me. Eravamo arrivate al fondo di noi due e dei segreti di quella casa; io avevo quarantanove anni e mia madre ottantotto. Mio padre era morto da un periodo di tempo più o meno equivalente all'arco di vita della mia secondogenita. Sarah, che allora aveva quattro anni e qualche mese, non aveva avuto modo di conoscerlo in tutta la sua dolcezza, o di giocare nel laboratorio fra i legni spalmati con tre strati di colla. Ho pensato ai cavalli a dondolo che marcivano nel capanno e mentre tenevo mia madre, le braccia mi si sono pericolosamente indebolite. Com'erano cambiate, la casa e la mia vita, dopo la sua morte.

Ho trascinato mia madre ai piedi delle scale che salivano al suo bagno, sentendo che cercava di assecondarmi. Ma forse non ero del tutto in me. Come potevo pensare che un'impresa del genere fosse fattibile? Mia madre pesava almeno una cinquantina di chili e io, nonostante il regime ginnico a cui mi sottoponevo, non ne avevo mai sollevati più di trenta. Non ci sarei mai riuscita. Sono crollata sulle scale con sopra mia madre sporca e bagnata.

Ero lì che ansimavo; ma non avevo intenzione di arrendermi. Prima di chiamare l'ambulanza volevo lavarla e metterle dei vestiti puliti. Mentre prendevo confidenza col suo peso, pervasa dalla strana sensazione di essere immobilizzata sotto un amante assopito, ho valutato le alternative. Potevo portarla al bagno di servizio e provare a lavarla lì con l'acqua del lavandino. C'era anche la cucina. Ma come avrei fatto a tenerla diritta? Come avrei fatto a reggerla e lavarla contemporaneamente? Per non parlare del pavimento allagato e del rischio di scivolare e romperci la testa tutte e due.

Mia madre ha cominciato a russare. La testa ciondolante si è piegata all'indietro, sulla mia spalla, e le ho visto il collo e il viso decrepiti, pieni di macchie. Ho visto gli zigomi, appuntiti come sempre, ma ormai penosi sotto la carnagione cadaverica. E mi sono chiesta: Chi vorrà bene a me? Ho allontanato la domanda guardando le foglie della betulla in giardino sotto la luce morente. Ero stata lì tutta la giornata. Non avevo neppure chiamato al Westmore per annullare: mi vedevo davanti lo spazio vuoto sulla pedana dell'aula di disegno dal vero e gli studenti del primo anno ai cavalletti che fissavano la mia assenza con un inutile carboncino in mano.

Se non mi fossi mossa, mia madre avrebbe dormito forse per ore e sarebbe sceso il buio. Ho immaginato la mia amica Natalie che mi cercava nei corridoi dell'istituto, interpellando invano gli studenti in aula. Avrebbe telefonato a casa; forse sarebbe passata, da sola o col figlio Hamish. Il campanello avrebbe continuato a suonare nella casa vuota e alla fine Natalie avrebbe pensato che era successo qualcosa: a me, oppure a Sarah, o a Emily.

Tirando su le braccia, ho sollevato leggermente quelle di mia madre: prima una, poi l'altra, come se manovrassi una bambola a grandezza naturale. Dominarla con quella facilità sarebbe stato impensabile. Dovevo cavarmela senza chiamare le mie figlie; dovevo fare le cose da sola. Mentre mi divincolavo da sotto il suo corpo, le è sfuggito un gemito, come fosse un sacco d'aria che si stesse sgonfiando. Sono rimasta seduta sulle scale accanto a lei. La casa aveva un peso e una forza che sapevo capaci di schiacciarmi. Dovevo uscire da lì. E all'improvviso mi è venuto in mente il capanno, e la vasca in mezzo ai cavalli a dondolo.

Ho lasciato mia madre appisolata e sono corsa su a prendere delle coperte dalla sua camera ingombra di roba, più degli asciugamani dal bagno rosa. Qui, nello specchio sopra il lavandino, mi sono guardata: i miei occhi sembravano più piccoli e perfino più azzurri, come se l'intensità della situazione si riflettesse nel loro colore e nella percezione che ne avevo. Da anni portavo i capelli talmente corti che quasi si vedeva il cuoio capelluto. Quando mi ero presentata a casa sua, mia madre mi aveva lanciato un'occhiata e aveva commentato: «Non dirmi che hai il cancro anche tu. Ormai ce l'hanno tutti». Le avevo spiegato che quel taglio mi facilitava la vita, sia quando lavoravo che quando facevo giardinaggio o ginnastica. Ma ero rimasta colpita dall'ambiguità del suo tono: se mi fossi davvero ammalata di cancro si sarebbe preoccupata, o la malattia sarebbe stata solo un motivo di rivalità? Quel tono faceva propendere per la seconda ipotesi, anche se era difficile accettare una cosa del genere dalla propria madre.

In cima alle scale, carica di coperte e asciugamani, ho cercato di tenere a bada la consapevolezza che mia madre non avrebbe mai più rivisto quelle stanze, che di conseguenza, per me, sarebbero diventate gusci vuoti, disseminati di oggetti. Ho notato il silenzio del corridoio e ho guardato i quadri alle pareti; presto sarebbero spariti. Già immaginavo le impronte scure che avrebbero lasciato lì dove il sole non batteva da anni e gli echi riverberati dalle finestre senza tende e dai grossi muri di mattoni intonacati. Allora mi sono messa a cantare. Cantavo scemenze: pubblicità di mangimi per gatti e canzoncine per bambini, un'abitudine quest'ultima che avevo ereditato da lei; un modo per allontanare il nervosismo. Il mio bisogno di sentire dei rumori era immenso, ma scendendo le scale sono di nuovo ammutolita. Mia madre era scivolata giù e giaceva in terra, sul vecchio tappeto persiano rosso vino.

«No, mamma, no» ho detto; ma nello stesso tempo mi rendevo conto che era più inutile che parlare a un cane. Un cane piegava la testa, un cane ti guardava con occhi languidi. Mia madre era un sacco d'ossa senza vita che puzzava di merda.

«Perché così?». Con le braccia cariche di coperte e asciugamani sono scoppiata a piangere accanto a quel corpo e ho pregato sottovoce che nessuno bussasse alla porta, che alla Castle non venisse l'idea di fare un salto a controllare, anche se in quel frangente Manny, il ragazzo tuttofare, avrebbe potuto aiutarmi a portare qualche peso.

Ho appoggiato gli asciugamani sull'ultimo gradino e ho steso sul pavimento vicino a lei la coperta rossa e nera del nonno; arrivava fino alla camera da pranzo. Poi, affinché la lana ruvida non le pizzicasse, ci ho steso sopra una coperta nuziale messicana bianca. Non ero del tutto in me: mi sembrava di incartare un pesce o di preparare gli involtini primavera; pensavo: Super burrito gigante di mamma.

Mi sono chinata prendendo un respiro per dare sollievo alla colonna vertebrale — grazie, Stella della World Gym! — e ho infilato le braccia sotto le sue ascelle per tirarla su.

I suoi occhi si sono aperti di scatto.

«Che caspita stai facendo?».

L'ho guardata sorpresa. Stando così, con la faccia capovolta sopra la sua, ho avuto la sensazione che potesse risucchiarmi gli occhi. Tutto il resto di me sarebbe sparito dentro in pochi secondi, come la coda di una lucertola o l'ultimo pezzo di uno spaghetto. Ho mantenuto tese le braccia. Avrebbe mai perso potere?

«Daniel!» ha berciato lei. «Daniel!».

«Papà non c'è».

Ha alzato gli occhi, il viso le si è come appannato, poi si è riacceso come un fiammifero al buio.

«Rivoglio quella ciotola» ha detto. «Subito!».

Esserle così vicina. Tenerla fra le braccia e vedere il suo cervello che si schiudeva in quel modo, vederne l'interno sconquassato: per portare a termine il mio compito non potevo fare altro. Mentre lei parlava di varie cose — di quella "bella bimba" di Emily (che aveva appena compiuto trent'anni e aveva a sua volta dei bambini), della pueraria accanto alla casetta di suo padre che andava tagliata con la falce (la casetta sorgeva su un terreno ai piedi delle Smoky Mountains ed era da tempo uscita dalle nostre vite), dei vicini di casa ladri e conniventi di cui non ci si doveva fidare — ho adagiato il suo corpo sulle coperte e ho fatto un pacco, dal quale spuntava fuori il suo mezzobusto cicalante. Le ho messo gli asciugamani sul petto e respirando adagio ho contato fino a dieci; poi ho parlato.

«Adesso andiamo sulla slitta». Con le due cocche della coperta strette nei pugni l'ho sollevata da terra. E ho cominciato a trascinarla: sulla moquette della camera da pranzo, in cucina, fuori dalla porta di servizio.

«Pe-pè!» diceva lei. «Pe-pè!». All'improvviso si è zittita e ha fissato quello che c'era fuori come una bambina davanti allo scintillio delle luci di Natale. Avrei voluto chiederle: Quand'è stata l'ultima volta che sei uscita in giardino? Quando l'ultima volta che hai annusato un fiore o potato un cespuglio, o che semplicemente ti sei seduta su quella sedia bianca di ferro arrugginito?

Il dolore adesso arrivava con forza. Era il fatto di essere fuori, all'aria fresca, lontano dal fetore acre di lei e dall'odore di naftalina della sua casa chiusa. Mia madre era distesa nel suo bozzolo di coperte sulla veranda; per fortuna, un graticcio coperto di rampicanti nascondeva almeno in parte quella zona alla vista dei vicini.

Sono scesa dalla scaletta e seguendo le mattonelle di cemento del sentiero sono andata in fondo alla veranda, dove da bambina mi mettevo seduta sul bordo a sgambettare. Mia madre era distesa lì come su un banco di consegna e ritiro merci. Sudavo, ma a giudicare dall'inclinazione del sole che mi batteva sulla schiena, entro meno di un'ora la luce sarebbe scivolata dietro le case circostanti e ci avrebbe lasciate sole, nell'ultima lunga sera che avremmo trascorso insieme.

Le ho sfiorato di nuovo la treccia a cui teneva tanto. Qualche anno prima la fase ispida era finita e i suoi capelli erano ridiventati morbidi. Quei capelli erano sempre stati il suo vanto. Durante l'adolescenza, le avevo invidiato la breve vita da modella di biancheria intima che aveva intrapreso prima di conoscere mio padre. A prescindere da qualsiasi altra considerazione, era stata la mamma più bella del quartiere e tutto ciò che sapevo della bellezza fisica lo avevo imparato guardando lei. L'amara verità, come avevo scoperto, era che una figlia non nasceva solo dallo stampo dei geni materni; qualche imprevisto casuale nell'ascendenza poteva accorciare un naso o abbassare una fronte, ed era lì che il delicato ricamo della bellezza cedeva il posto a una comunissima Jane.

Fuori, il soffio dell'aria aveva dissipato l'odore fecale ed ero di nuovo in grado di ragionare in termini realistici. Non ce l'avrei mai fatta a raggiungere il capanno. Come avevo potuto pensarlo? Sai il danno, a trascinarla giù per la scaletta, per tentare di portarla via dalla veranda. E con cosa avrei riempito la vecchia vasca? Con l'acqua fredda della pompa? La vasca era sicuramente sporca, piena di antichi rimasugli e scarti di legno che avrei dovuto eliminare. L'ultima volta che ero stata lì dentro avevo notato che la rastrelliera degli attrezzi di mio padre, con tutte le loro sagome fantasma, si era staccata dalla parete e pendeva addosso alla vasca. Cosa mi ero messa in testa?

«Fine della corsa, mamma» ho detto. «Ci fermiamo qui».

Lei non ha sorriso né ha detto stronza e tanto meno ha dato voce a un lamento finale. Quando ci rifletto, mi piace pensare che a quel punto stesse inspirando il profumo del suo giardino, che si stesse godendo la sensazione del sole pomeridiano sul viso, e che nei momenti trascorsi dall'ultima volta che aveva parlato si fosse dimenticata in qualche modo di aver avuto una figlia e di aver dovuto fingere, per tanti anni, di volerle bene.

Vorrei poter dire che mentre era lì, stesa sulla veranda, e il vento cominciava ad alzarsi facendo volare via le cornacchie aggrappate alle cime degli alberi, vorrei poter dire che mia madre mi abbia reso le cose facili. Che abbia elencato con precisione tutti i peccati commessi durante la sua lunga vita.

Aveva ottantotto anni. Le rughe che le segnavano il viso erano ormai il reticolo di crepe di una fine porcellana antica. Respirava a rantoli, con gli occhi chiusi. Ho guardato le cime spopolate degli alberi. Non c'è scusa che tenga, lo so, ma questo è quel che ho fatto: ho preso gli asciugamani con cui avevo pensato di farle il bagno e senza pensare che dietro al graticcio o allo steccato poteva esserci un testimone, glieli ho sbattuti in faccia. Una volta partita, non mi sono più fermata. Lei si è dibattuta, le sue mani venate d'azzurro con gli anelli che non voleva togliere per paura che glieli rubassero mi hanno afferrato le braccia. Prima i brillanti, poi i rubini hanno scintillato un istante al sole. Ho premuto più forte. Gli asciugamani si sono spostati e ho visto i suoi occhi. Ho schiacciato a lungo, fissandola, finché la punta del naso non le si è spezzata, i muscoli di colpo si sono rilassati, e ho capito che era morta.

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