Copertina
Autore Åsne Seierstad
Titolo Il libraio di Kabul
EdizioneSonzogno, Milano, 2003 , pag. 324, dim. 140x224x20 mm , Isbn 978-88-454-2405-2
OriginaleBokhandleren i Kabul [2002]
TraduttoreGiovanna Paternini
LettoreAngela Razzini, 2003
Classe narrativa norvegese , libri , costume , paesi: Afghanistan
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Pagina 7

Prefazione



Sultan Khan è stata una delle prime persone che ho incontrato arrivando a Kabul nel novembre del 2001. Avevo trascorso sei settimane con i comandanti dell'Alleanza del Nord, nel deserto ai confini con il Tagikistan, sui monti dell'Hindukush, nella vallata del Panshir, nelle steppe a nord di Kabul. Avevo seguito la loro offensiva contro i talebani, avevo vissuto su pavimenti di pietra, in capanne di terra, al fronte. Avevo viaggiato sui cassoni dei camion, su mezzi di trasporto militari, a cavallo e a piedi.

Quando il regime talebano cadde, mi diressi a Kabul con l'Alleanza del Nord. In una libreria mi imbattei in un elegante signore brizzolato. Dopo settimane in mezzo a polvere da sparo e macerie, settimane di conversazioni su tattiche di guerra e avanzate militari, fu per me un grande sollievo poter sfogliare un libro e parlare di letteratura e di storia. Gli scaffali di Sultan Khan erano stracolmi di volumi in diverse lingue, raccolte di poesie, leggende afgane, opere di storia, romanzi. Era un abile venditore: la prima volta me ne andai dalla sua bottega con sette volumi sotto il braccio. Quando avevo un po' di tempo libero, facevo volentieri un salto lì, per guardarmi intorno e intrattenermi ancora con quell'interessante libraio, un patriota afgano che così tante volte era rimasto deluso per la sua terra.

"Prima i comunisti hanno bruciato i miei libri, poi i mujahidin ne hanno fatto razzia, poi i talebani me li hanno bruciati un'altra volta", raccontò.

Un giorno mi invitò a cena a casa sua. Tutt'intorno a un sontuoso banchetto apparecchiato sul pavimento c'era la sua famiglia, una delle mogli, i figli, le sorelle, i fratelli, la madre, alcuni cugini.

Sultan raccontava aneddoti, i figli ridevano e scherzavano. Il tono era scanzonato e decisamente in contrasto con quello dei semplici pasti consumati con i comandanti sulle montagne. Non ci misi molto, però, ad accorgermi che le donne parlavano poco. La bella moglie adolescente di Sultan se ne stava seduta tranquilla, accanto alla porta, con la sua neonata in braccio, senza dire una parola. La prima moglie quella sera non era presente. Le altre donne rispondevano alle domande, raccoglievano le lodi per la cena, ma non davano mai inizio a una conversazione.

Quando me ne andai dissi a me stessa: questo è l'Afghanistan. Sarebbe interessante poter scrivere un libro su questa famiglia.

Il giorno dopo andai a trovare Sultan nella sua libreria e gli esposi il mio progetto.

"Grazie mille", disse lui, semplicemente.

"Questo però significa che dovrò vivere insieme a voi."

"Benvenuta."

"Dovrò andarmene in giro con voi, vivere come vivete voi. Con te, le tue mogli, le tue sorelle, i tuoi figli."

"Benvenuta", mi ripeté.

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Pagina 19

Proposta di matrimonio



Quando Sultan Khan ritenne che fosse arrivato il momento di trovare una nuova moglie, nessuno si mostrò disposto ad aiutarlo. Prima di tutto si rivolse a sua madre.

"Dovrai accontentarti di quella che hai", sentenziò lei.

Poi andò dalla maggiore delle sue sorelle. "Sono così affezionata alla tua prima moglie", gli disse. Stessa risposta ottenne dalle altre sorelle.

"Per Sharifa sarebbe un disonore", commentò sua zia.

Sultan aveva bisogno di aiuto. A un pretendente non è concesso poter chiedere di persona la mano di una fanciulla.

La tradizione afgana vuole che sia una delle donne della famiglia a presentare la richiesta di matrimonio e a esaminare più da vicino la ragazza per valutarne capacità, istruzione e attitudine a essere una buona moglie. Nessuna delle donne vicine a Sultan, però, voleva avere a che fare con la proposta di matrimonio.

L'uomo aveva individuato tre giovani adatte a ricoprire il ruolo di seconda moglie. Erano tutte sane e belle, e appartenevano al suo stesso clan.

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Pagina 62

Sultan è poco interessato al tipo di sangue che scorre nelle sue vene o in quelle altrui. Come molti afgani anche lui è di razza mista: pashtun da parte di madre e tagiko da parte di padre. La sua prima moglie è pashtun, la seconda tagika. Lui è ufficialmente tagiko perché l'appartenenza etnica si eredita dal padre. Conosce la lingua di entrambi i gruppi: il pashto e il dari, dialetto persiano parlato dai tagiki. Sultan ritiene che sia arrivato il momento che gli afgani si lascino le guerre alle spalle e si mettano d'accordo su come ricostruire il Paese. Il sogno è quello di potersi un giorno riprendere ciò che, rispetto agli stati confinanti, hanno perduto. Ma il futuro non si prospetta roseo. Il libraio è deluso dai suoi connazionali. Lui che ha sempre lavorato sodo per ampliare gli affari, si cruccia per quelli che utilizzano i propri risparmi per andare in pellegrinaggio alla Mecca. Subito prima di partire per il Pakistan ha avuto una discussione con suo cugino Wahid, proprietario di un negozietto di auto ricambi che a malapena riesce a mandare avanti. Quando era passato a salutare Sultan in libreria pochi giorni prima, gli aveva raccontato di essere finalmente riuscito a risparmiare abbastanza da potersi comprare il biglietto aereo per andare alla Mecca.

"Credi che pregare ti aiuterà?" gli aveva domandato Sultan con scherno. "Nel Corano sta scritto che dobbiamo lavorare, dobbiamo risolvere da noi i nostri problemi, dobbiamo sudare, dobbiamo penare. Ma noi afgani, noi siamo pigri, piuttosto chiediamo aiuto, o all'Occidente o ad Allah."

"Ma il Corano dice anche che dobbiamo glorificare Dio", aveva ribattuto Wahid.

"Il Profeta Maometto avrebbe pianto se avesse sentito tutti i richiami, le grida e le preghiere nel suo nome", aveva proseguito Sultano "Per rimettere in piedi il Paese non serve a nulla prostrarsi fino a toccare terra col capo. Tutto quello che sappiamo fare è gridare, pregare e combattere. Ma le preghiere non valgono niente se la gente non lavora. Non possiamo starcene qui ad aspettare la misericordia divina!" aveva urlato, infervorato dalle sue stesse parole. "Cerchiamo alla cieca un sant'uomo quando invece è il mantice a poterci aiutare!"

Sapeva di essere stato provocatorio nei confronti del cugino, ma per Sultan il lavoro è la cosa più importante nella vita. È questo che cerca di insegnare ai figli, attorno a questo ruota la sua esistenza. Per questo ha tolto i figli da scuola e li ha messi a lavorare nei negozi, perché lo aiutino a costruire un impero editoriale.

"Ma andare alla Mecca è una delle cinque colonne portanti dell'Islam", aveva obiettato il cugino. Per essere dei bravi musulmani si deve credere in Dio, pregare cinque volte al giorno e, il venerdì, nella moschea, rispettare il digiuno, fare l'elemosina e andare alla Mecca.

"Può anche darsi che ce ne andremo tutti alla Mecca", aveva detto Sultan alla fine, "ma allora ce lo saremo meritato, ci andremo per ringraziare, non per invocare."

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Pagina 75

Dopo aver adempiuto ai doveri familiari, Sultan è finalmente libero di fare quello per cui è venuto in Pakistan: stampare libri. La seconda tappa del viaggio ha inizio un mattino di buon'ora: Lahore, la città delle stamperie, delle legatorie e degli editori.

Si prepara una piccola valigia in cui ripone sei libri, un calendario e un cambio d'abiti. I soldi se li è fatti cucire nelle maniche della camicia, come sempre quand'è in viaggio. Ha tutta l'aria di essere una giornata calda. La stazione degli autobus di Peshawar è un formicolare di gente che va e viene. Le compagnie degli autobus fanno a gàra nel gridare più forte: "Islamabad! Karachi! Lahore!" C'è un uomo che urla accanto a ogni pullman: gli orari di partenza non sono prestabiliti, il viaggio avrà inizio quando il mezzo di trasporto sarà al completo. Nell'attesa salgono i venditori di noci, semi di girasole, biscotti e patatine, giornali e riviste. I mendicanti si accontentano di allungare le mani attraverso i finestrini aperti.

Sultan fa finta di non vederli. Rispetta l'insegnamento del Profeta Maometto riguardo alla carità, ma lo interpreta in questo modo: ci si deve prendere cura per prima cosa di se stessi, poi dei membri della propria famiglia, poi dei parenti, poi dei vicini e infine dei bisognosi che ci sono estranei. A volte gli capita di dare qualche afghano a un mendicante di Kabul per toglierselo di torno, ma gli accattoni pachistani sono davvero troppo in fondo alla lista. Che ci pensi il Pakistan a prendersi cura dei suoi poveri.

Siede pigiato tra gli altri viaggiatori in ultima fila. Sotto il sedile ha messo la valigia, dentro la quale tiene un foglio che rappresenta il più grande progetto della sua vita: vuolé stampare i nuovi libri per le scuole afgane. Quando le scuole sono state riaperte in primavera, il materiale didattico a disposizione era quasi inesistente. Utilizzare i testi che il regime dei mujahidin e i talebani hanno fatto stampare è impensabile. I bambini delle prime classi l'alfabeto lo imparavano così: "J di Jihad - il nostro scopo sulla terra, I di Israele - il nostro nemico, K di Kalasnikov - noi vinceremo, M di Mujahidin - i nostri eroi, S di..."

Anche nei libri di matematica era la guerra a dominare. I ragazzi che andavano a scuola - perché i talebani avevano fatto stampare testi scolastici solo per maschi - non imparavano a far di conto con mele e dolci, ma con pallottole e kalasnikov. "Il piccolo Omar ha un kalasnikov con tre caricatori. In ogni caricatore ci sono venti pallottole. Usa due terzi delle sue pallottole per uccidere sessanta infedeli. Quante pallottole gli servono per uccidere un infedele?"

Nemmeno i testi in adozione durante il periodo comunista sono utilizzabili. Lì i calcoli si fanno in base alla spartizione della terra e agli ideali di uguaglianza. Bandiere rosse e felici contadini delle cooperative avrebbero dovuto indirizzare i bambini al comunismo.

Sultan vuole che si ritorni ai libri del tempo di Zahir Shah, il re che per quarant'anni relativamente pacifici aveva guidato il Paese, fino a che non era stato destituito nel 1973. Ha ritrovato alcuni vecchi testi scolastici che può far ristampare: racconti e favole dell'epoca persiana, manuali di matematica in cui uno più uno fa due e volumi di storia poveri di riferimenti ideologici, fatta eccezione per un minimo di innocente nazionalismo.

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Pagina 176

Nel frattempo, i poliziotti continuano a tenere a bada gli spettatori a suon di frustate, ma sono sempre più numerosi quelli che riescono a superare gli sbarramenti e avvicinarsi al sacro centro. Urla e grida che si levano dal pubblico rendono assai difficoltoso ascoltare i discorsi. Si ha l'impressione che si tratti di un happening e non di una cerimonia religiosa. Sulle scale e sui tetti lì attorno sono schierati soldati armati. Una decina di militari delle forze speciali americane, dotati di mitra e occhiali da sole, hanno preso posizione sul tetto piatto della moschea per proteggere il loro ambasciatore dalla carnagione rosa pallido. Altri lo circondano. Per molti afgani è un sacrilegio che degli infedeli calpestino il tetto della moschea in cui a nessun non-musulmano è concesso entrare. Ci sono guardiani il cui compito è proprio quello di impedire l'ingresso agli infedeli. Non sono comunque molti quelli a cui devono prestare attenzione: non è che i turisti occidentali scelgano l'Afghanistan come meta di pellegrinaggio in questa primavera immediatamente successiva alla caduta del regime talebano. C'è solo qualche manovale ignorante che si è smarrito nei festeggiamenti per l'anno nuovo.

Anche i locali signori della guerra, tra loro antagonisti, sono stati invitati sul podio: sono Muhammad Atta e il generale Abdur Rashid Dostum. Il tagiko Muhammad Atta è quello che governa la città, l'uzbeko Dostum è quello che ritiene di doverla governare. I due nemici giurati ascoltano fianco a fianco gli altri oratori. Muhammad Atta ha la barba come la portano i talebani, Dostum la stessa autorevolezza di un pugile prepensionato. Hanno collaborato a malincuore nell'ultima offensiva contro i talebani, adesso tra i due è sceso di nuovo un muro di ghiaccio. Dostum è il membro più scalcinato del nuovo governo e hanno fatto in modo che vi prendesse parte per il semplice motivo che volevano evitare di indurlo in tentazione con l'idea dei sabotaggi. Quel signore che ora socchiude gli occhi alla luce del sole, che tiene le braccia pacificamente conserte appoggiandole al corpo massiccio, è uno di quelli su cui in Afghanistan si raccontano le storie più terribili. Per punire i suoi soldati rei di aver commesso qualche sbaglio, pare fosse capace di legarli a un carro armato e farlo avanzare fino a che di loro non rimanevano che brandelli sanguinolenti. Si dice anche che una volta abbia fatto trasportare migliaia di soldati talebani nel deserto, li abbia rinchiusi dentro dei container e poi abbandonati. Quando i container vennero aperti, parecchi giorni dopo, i prigionieri erano morti e avevano la pelle ustionata dal sole cocente. Dostum è anche noto per essere il re dei traditori, per aver servito molti diversi padroni e averli lasciati tutti uno dopo l'altro. All'epoca in cui combatteva a fianco dei russi, dopo l'invasione sovietica dell'Afghanistan, era un ateo e un incallito bevitore di vodka. Adesso ha un contegno reverente, loda Allah e predica il pacifismo: "Nel 1381 nessuno ha il diritto di distribuire armi perché porterebbero a guerre e a ulteriori conflitti. Questo è l'anno in cui le armi vanno raccolte, non l'anno in cui ne vanno distribuite di nuove!"

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