Copertina
Autore Andrea Semplici
CoautoreGabriele Orlando [disegni]
Titolo Viaggiatori viaggianti
SottotitoloDa Bob Marley a Che Guevara
EdizioneTerre di mezzo, Milano, 2006 , pag. 216, ill., cop.ril.sov., dim. 15x20,7x1,7 cm , Isbn 978-88-89385-84-5
LettoreAngela Razzini, 2008
Classe narrativa italiana , viaggi
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Indice


  7 La Poderosa viaggia ancora

 19 Metti una notte da ubriachi a Santiago.
    La poesia è un istinto e Isla Negra non è un'isola

 29 La scia delle balene

 43 L'uomo dalle suole di vento

 61 Abu 'Abdallah Muhammad ibn 'Abdallah ibn
    Muhammad ibn Ibrahim al-Lawati ibn Battuta,
    Principe dei viaggiatori.

 77 Il senso della Groenlandia

 91 Ritorno a Mompracem

113 Per Virginia, l'ultima ona

123 Il ritorno di Bob Marley

139 Una Cappella Sistina nel Sahara

151 Una favola a Venezia

165 Se una notte d'estate una viaggiatrice

183 Chatwin Express

199 In taxi-brousse con Ryszard



 

 

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Pagina 30

La scia delle balene

Ho conosciuto Don Francisco, scrittore grandissimo. Sono andato a trovarlo nella sua casa di Santiago del Cile. È uno dei ricordi più emozionanti della mia vita. Don Francisco era un gigante, un uomo altissimo, imponente, timido. Dalla barba bianca e dai capelli lunghi e folti. Allora aveva quasi 90 anni. Sapevo che era stato lui a leggere, con coraggio, l'orazione funebre per Pablo Neruda, morto nelle ore del colpo di Stato di Pinochet contro il presidente Salvador Allende.

Sono stato a Quemchi, il suo villaggio natale (era nato nel 1910) a Chiloé, isola di pioggia e oceano, barriera frangionde che protegge le coste del Cile dalla furia del Pacifico.

A 15 anni, Francisco Coloane era già un mozzo sulle navi che percorrevano gli stretti canali che segnano la frontiera fra l'oceano e la cordillera andina. La sua vita diventò un'avventura: mandriano nelle haciendas della Patagonia, baleniere nei mari antartici, cercatore di petrolio nei fondali del Pacifico, gabbiere sulla corvetta Baquedano, la nave scuola della marina cilena, caposquadra nei grandi allevamenti ovini alla Fine del Mondo.

Nel 1941 quest'uomo, alto quasi due metri, entrò, "con il passo barcollante tipico dei marinai"; nella Casa della Letteratura di Santiago del Cile. Con lui fecero irruzione in quel ristretto circolo di intellettuali annoiati le tempeste e le onde del Pacifico. La leggenda dice che, senza una sola parola, lasciò su un tavolo due libri, L'ultimo mozzo del Baquedano e Capo Horn.

Coloane divenne, così, il cantore delle terre alla Fine del Mondo, il poeta dell'umanità profonda della Patagonia, lo scrittore dell'immensità del Pacifico. È morto in un giorno di agosto del 2002, inverno australe, e io spero che, dalle finestre della sua casa, in quelle ore, si riuscisse, in qualche modo, ad ascoltare il mare.

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Pagina 33

Bisogna vederle dal basso. Con la coda dell'occhio e la paura strozzata in gola. "Oggi è tranquillo", sussurra Fernando Avalos, palombaro dell'oceano, pescatore di molluschi sulla costa orientale dell'Isola Grande di Chiloé. Ma la sua faccia è bagnata, infreddolita, lo sguardo tradisce qualche ansietà. Noi, uomini di terra, dobbiamo proprio vederle dal basso le onde del Pacifico. Alte tre metri in un giorno di bonaccia, grandi come colline, irruenti come un'altalena impazzita. La barca di Fernando è solida, un legno robusto, una macchia gialla splendente in un mare cupo e ribelle: scala le onde come se volasse su un ottovolante, si arrampica e precipita, con il motore che rulla a vuoto, lungo dirupi d'acqua scura per avvicinarsi a scogli tormentati e lucenti.

A Punihil, grandiosa scogliera di Chiloé verso l'oceano aperto, sono tornati, dopo anni di assenza, i leoni marini, i pinguini affollano isolotti squassati dal vento, i cormorani, accanto ai loro nidi, appaiono indifferenti agli scrosci di pioggia. Il manto lucido e bagnato dei leoni di mare saetta oltre i confini fra cielo e oceano, la barca di Fernando annaspa per un attimo che non dimenticheremo: gli animali si gettano in acqua, lanciano strepiti in aria, scompaiono sotto onde nere. La terra e il mare, qui in un Cile che lascia senza fiato, sono creature vive, palpitanti, potenti. "È pericoloso, andiamocene", Fernando grida allarmato mentre ingoia gli spruzzi di un'onda che ci lancia verso gli scogli. Ruota, con abilità, il timone e la barca afferra il dosso di un'altra montagna d'acqua per farsi condurre, in una corsa folle, al riparo della baia di Punihil dribblando ostacoli sommersi contro i quali il Pacifico scatena la sua furia. I leoni di mare giocano tranquilli con questa violenza e sembrano farsi beffe di noi, uomini intrusi nel loro regno di tempeste.


I PALOMBARI DI CHILOÉ

Fernando, il pescatore di molluschi, nei brevi mesi dell'estate australe, cambia mestiere: rinnega la maschera e il boccaglio e accompagna i visitatori agli scogli dei pinguini e dei leoni marini sfidando l'ira dell'oceano. L'Isola Grande di Chiloé, scoperta dal turismo, sta cambiando in fretta, ma continua a riflettere, come un'impronta fedele, il suo passato e le pagine emozionanti del suo figlio-scrittore, Francisco Coloane. "Le isole si sgranano come collane di perle - dice e scrive Coloane - da Vancouver all'estremo Sud del Pacifico non esiste altro mare più bello e mite dell'arcipelago di Chiloé."

L'Isola Grande "è un lungo e alto bastione che protegge le sorelle minori dalla furia dell'oceano. È un formidabile frammento di cordigliera costiera disposto come un gigantesco frangiflutti in mezzo al Pacifico".

Chiloé è lo scheletro superstite di montagne andine perdute: qui la geografia del Cile va in pezzi, la morfologia è priva di senso. Catastrofi geologiche e i giochi arroganti e superbi dei ghiacciai hanno modellato golfi, insenature, stretti canali contorti, labirinti inestricabili di isole, fiordi che si annodano come serpenti. Oceano e Ande qui si sono sfidati per milioni di anni e si stanno sfidando ancora oggi.

Chiloé è l'ostaggio di queste forze immani e i suoi uomini sono modellati da questa potenza. Ed Erwin Saldivia ne è la prova, la testimonianza perfetta.

Erwin è un colosso dai grandi baffi. Sul suo petto è tatuato un serpente attorcigliato: l'animale sembra distendersi a ogni respiro dell'uomo. Anche Erwin è un palombaro, cacciatore di molluschi e crostacei, frutti di mare e mitili grandi come una ciabatta. La sua vita è appesa al tubo giallo che collega il boccaglio al compressore dell'aria. La sua vita è nelle mani e nei riflessi del suo assistente, Mario, uomo magro e senza denti, ribattezzato il Chimango, "l'uccello giallo": La tuta subacquea è gomma ritagliata da qualche copertone. Erwin affonda, con la sua spatola di ferro e il suo arpioncino, a venti, trenta metri di profondità. Raspa rocce sommerse, agguanta il prelibato loco dalla polpa bianca e dalla conchiglia a forma di cappello di gnomo, raccoglie le pregiate huepo con le valve a forma di coltello, afferra i succulenti ricci di mare dagli aculei lunghissimi: riempie il chinguillo, il pesante canestro di ferro e dà due strattoni alla corda. Mario, con gesti esperti, tira a bordo il bottino di molluschi. Erwin riemerge dai fondali dell'oceano soffiando come un dinosauro di mare.

Il padrone della barca tratterrà per sé i due quinti della pesca di ogni giorno. Camion frigoriferi trascineranno i frutti di mare dell'oceano di Chiloé verso gli aeroporti internazionali. Erwin non emigrerà a cercare fortuna in altre terre, come per un secolo hanno fatto i chilotes, gli abitanti dell'isola, ma il suo lavoro è sfiancante, rischioso, sfibrante.

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Pagina 78

Il senso della Groenlandia

Quando qualcuno ti dice che sua madre è nata a Thule, i tuoi occhi occidentali si fanno sorpresi e curiosi. Thule è il grande ghiaccio, è la terra che i groenlandesi chiamano Qaanaaq, "il punto più a nord".

Gli Stati Uniti nel 1953 sfrattarono i suoi abitanti (e li deportarono 200 chilometri più a settentrione) per costruire Pituffik, la base di Thule. Nel 1968, qui precipitò un B-52 con a bordo quattro bombe all'idrogeno. Oggi Qaanaaq ha 400 abitanti.

Smilla sa tutto questo. Smilla proviene dall'isola più grande del mondo, una terra, la Groenlandia, dove esistono più di dieci modi per dire "neve":

Smilla Qaavigaag Jaspersen è nata il 16 giugno del 1956. Figlia di un celebre anestesiologo danese (fece parte della delegazione di medici americani che rallentò la morte di Breznev) e di Ane Qaavigaag, donna inuit, cacciatrice di foche. La madre di Smilla morì quando lei aveva sette anni: è probabile che un tricheco abbia rovesciato il suo kayak e "chi cade in mare in Groenlandia non torna più a galla". Suo fratello si uccise nel 1981.

Smilla non sa come avvenne che suo padre e sua madre si fossero conosciuti. Il medico arrivò in Gronelandia a trent'anni per compiere ricerche sulla neuralgia del trigemino. Doveva rimanere fra quei ghiacci per un mese: dopo aver incontrato Ane, visse a Thule per più di tre anni. Smilla, dopo la morte della madre, studia in Danimarca. Diventa un'esperta in morfologia glaciale e matematica. "Se si vuole sapere qualcosa sul ghiaccio ci si può rivolgere con profitto a Smilla", dice, con tono di minaccia, un poliziotto che la interroga.

Smilla è stata espulsa da ogni scuola che abbia frequentato e società o istituzione della quale abbia fatto parte. È stata fra le fondatrici di un piccolo gruppo comunista. È una donna dal pessimo carattere. È una donna giusta. È una donna inuit. Per quasi cinquecento pagine (Il senso di Smilla per la neve, è un superbo thriller artico di Peter Hoeg che racconta di una Smilla trentaseienne) cerca, con testardaggine, di rendere dignità a un bambino ucciso alla vigilia di Natale. Sarà un lungo viaggio quello di Smilla, donna che ha "un debole per i perdenti". Un viaggio verso quel mondo di ghiaccio che nasconde la verità, ma non una conclusione. Perché "solo ciò che non capiamo può avere una conclusione".

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Pagina 81

La casa è vecchia, sbilenca, inclinata dalla furia del piteraq, il vento della calotta polare, il terribile "vento degli uomini": La vernice color porpora è corrosa da troppi inverni artici. L'ingresso è come un tunnel, lungo e stretto, ingombro di corde, latte vuote, matasse di reti da pesca: il gelo, il freddo impossibile deve rimanere lontano dalla stanza della stufa di ghisa e dei materassi stesi per terra. Una doppia porta sigilla il basso corridoio. Trent'anni fa, qui a Tineteqilaaq, insediamento sperduto sulle sponde ghiacciate del fiordo di Sermilik, nella Groenlandia orientale, costruirono così le prime case di legno: numero 527 di una via che non c'è, là sotto la collina del cimitero, l'abitazione di Tarqisimat, vecchio cacciatore, ha davvero una singolare numerazione civica. Tarqisimat ha settantun anni, sorride come un bambino agitando le braccia simile a un mimo dei mari artici. Non va più a caccia, i suoi occhi non vedono più: il ghiaccio è troppo pericoloso e lui non potrebbe più colpire la foca che scivola ai confini della banchisa. Vive di sussidi e dell'aiuto di parenti.

Tarqisimat è una leggenda nella Groenlandia orientale. Andava a caccia da solo, ostinato, testardo, orgoglioso: con una slitta e un cane, un arpione e un fucile da antiquariato. Lo ricordano ancora negli anni della sua gloria: immobile per ore, come una statua scolpita sull'orizzonte delle zolle di ghiaccio, in attesa della sua preda. Con l'arpione in mano, a tredici gradi sotto zero: non muoveva un muscolo, ma il suo braccio era pronto a scattare. Era abile e scaltro come un orso bianco. Credeva ai demoni e agli spiriti della natura. Parlava con loro. Ne invocava l'aiuto e ne temeva la potenza.

Tarqisimat lasciò con dolore la sua "casa di torba"; la sua "casa da inverno"; caverna sotterranea in cui rinchiudersi, nei mesi delle infinite notti invernali, assieme ad altre quattro famiglie, caverna costruita con pietre e terra, con le finestre modellate con le budella di foca, dove ci si scaldava solo stando gli uni accanto agli altri. Odori, sudori e fiato per sfidare il freddo. Il governo danese decise, trent'anni fa, di raggruppare la gente dei fiordi più isolati, di cancellare gli insediamenti più lontani, di riunire gli ivi (così si chiamano gli Inuit della costa orientale della più grande isola del mondo) in villaggi, in centri più grandi. Trent'anni fa finirono i tempi nomadi della gente della Groenlandia, finì la solitudine del cacciatore, finì "l'età della pietra". Doveva cominciare l'epoca della modernità. Anche sul fiordo di ghiaccio di Sermilik, anche per la vita di Tarqisimat.

Oggi il vecchio si siede davanti alla finestra della sua casa protetta da autentici vetri, il tetto è coperto da fogli di catrame, una stufa a olio scalda la stanza. Gli occhi di Tarqisimat sono fessure: fuori, nel tepore sorprendente di una primavera boreale, gli iceberg, figli dei ghiacciai, oscillano, come elefanti bianchi, sulle prime crepe della banchisa. Sono impazienti di cominciare il loro viaggio verso Sud, seguendo la scia della corrente polare.


IL CACCIATORE CON IL GPS

Tobias Ignatiussen è giovane, ha trentaquattro anni, è grande e forte. I capelli ispidi, la pelle scura. Si protegge gli occhi con lenti buie da ghiacciaio. I suoi cani mangiano carne di foca e hanno il pelo splendente. Tobias è nato in una "casa di torba" a Umiivik, un insediamento di due, tre case, non di più, perso nel Nord inabitabile della Groenlandia. Non è andato a scuola, ha vissuto di caccia e solitudine fino a diciannove anni. Poi è arrivato in "città", ad Angmagssalik, vecchia stazione commerciale dei danesi, e ha scoperto la televisione, ha imparato l'inglese guardando, con testardaggine, film americani. Tobias, uomo dei ghiacci, è un ivi in bilico: "Io sono un cacciatore, mi sento cacciatore, ma so che non riuscirò a sopravvivere solo di caccia. Adesso ho troppe esigenze, troppi bisogni. Cerco di lavorare anche con i turisti. Per i soldi, per vivere, per un futuro". Tobias sa che non può permettersi di perdere l'istinto della caccia, sa che non può dimenticare gli appostamenti alla foca. Tobias sa bene che la sua vita dipende anche dalla caccia. Tobias saetta con la sua slitta e urla a singulti dietro ai cani, afferra le tirelle in nylon (non più in pelle di foca) ed incita, con il fiato che si congela nell'aria, la muta degli animali dalla lingua penzolante e i muscoli tesi in uno sforzo poderoso.

La slitta di Tobias arranca su valichi di nevischio senza peso, precipita da discese di neve fresca e polverizzata, scansa con movimenti bruschi le rocce affioranti, segue le piste dei pattini lasciate da altri viaggiatori sulle lastre del ghiaccio vecchio e scuro dei laghi d'acqua dolce, scivola sulla patina gelata, color turchese, di un braccio di mare immobilizzato da temperature da mesi bloccate a dieci gradi sotto zero: bisogna avere occhi groenlandesi per capire il ghiaccio. Ma, alla fine della corsa inebriante, Tobias è uomo di silenzi improvvisi: lascia i suoi compagni di viaggio, turisti occasionali, e lo vedi che annusa l'aria, osserva la distesa del ghiaccio e il maremoto dei banchi che si sono schiantati l'uno contro l'altro.

Tobias sparisce all'orizzonte, verso i confini della banchisa: tornerà a sera, con la sua foca. Farà bollire la carne in una pentola e getterà gli intestini ai cani.

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Pagina 152

Una favola a Venezia

Si racconta che il padre fosse un marinaio di Tintagel, il villaggio della Cornovaglia celebre per le avventure di re Artù. La madre era una splendida gitana di Siviglia, bellissima ballerina di flamenco. Corto Maltese (Corto sta per "svelto di mano" e di coltello) nacque a Malta, il 10 luglio del 1887. A dieci anni scoprì che la sua mano era priva della linea della fortuna: il ragazzino tornò, allora, a casa e con un colpo di rasoio si incise, con una linea dritta e profonda, il palmo della mano sinistra. Il giovane Corto, a La Valletta, si immerse negli studi della cabala ebraica e si perse nei sogni celtici del padre.

Ma Malta era troppo piccola per le sue inquietudini. Non aveva compiuto diciassette anni, quando si imbarcò sulla Vanità Dorada, una goletta diretta oltre la rocca di Gibilterra, luogo dell'incontro fra suo padre e sua madre. Da allora, in un incastro di giochi del destino, Corto Maltese diventò un nomade del mare e dell'avventura. Vita straordinaria, la sua: incrocia la nave Mongolia a bordo della quale dovrebbe trovarsi Phileas Fogg impegnato nel suo giro del mondo in ottanta giorni, conosce Jack London, si perde fra la Siberia e la Dancalia, fra la Mongolia e le più remote coste africane. Cerca le miniere di re Salomone e si ritrova a cavalcare al fianco di Butch Cassidy.

Diventa pirata nei mari orientali, naviga per le solitudini del Pacifico. Nella Guyana Olandese fa amicizia con Jeremiah Steiner, professore di Fraz Kafka e amico di Sigmund Freud. La prima guerra mondiale lo sorprende a Venezia mentre cerca la mappa della città perduta di El Dorado. Non riesco a seguire, dalle coste africane alla Manciuria, tutte le avventure di Corto: so che cercò anche il tesoro di Alessandro Magno e degli zar russi, che si ritrovò nel bel mezzo della guerra civile irlandese e provo invidia per i suoi balli di tango nei bordelli di Buenos Aires.

Dove morì Corto Maltese? Non lo so. I suoi biografi annebbiano la storia. So, invece, che Hugo Pratt è morto a Losanna nel 1995. Corto Maltese apparve per la prima volta sul mensile Sgt. Kirk nel 1967: era la prima puntata della saga de La ballata del mare salato. Pratt non ha mai fatto mistero di essersi ispirato, per ricostruire la vita di quell'avventuriero romantico, alle ombre di un film scombiccherato: La strega rossa, fantastica storia di pirati e navi-fantasma, girato da John Wayne nel 1948.

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Pagina 155

Ho le mani incrociate dietro la schiena. La luna è una perfetta falce turca sopra le mura merlate. Il silenzio è assoluto. Ti guardo dritto nei tuoi occhi di pietra. Non sei un leone di San Marco, ma sei altrettanto fiero e possente, guardiano delle porte dell'Arsenale. Sei un trofeo di guerra, un "leone greco" accucciato davanti ai cancelli del cantiere navale più celebre del mondo: Francesco Morosini, il Peleponnesiaco, ammiraglio della flotta veneziana, nel 1692, ti strappò dal tuo piedistallo che troneggiava nel Pireo per trascinarti fra i canali di una Venezia allora potente e altera, dominatrice del Mediterraneo. Chissà se si accorse degli strani simboli tatuati sulla tua spalla? Chissà se Morosini decifrò quei segni misteriosi intarsiati nella tua pelle di marmo? Chissà se è stato capace di sciogliere, per primo, il mistero di quei graffiti runici che si attorcigliano, come un serpente, attorno alla tua criniera?

Corto Maltese, nelle sue passeggiate notturne fra calli e campielli, non vi riuscì. Guardò a lungo quei caratteri e, alla fine, si arrese. Si limitò ad annotare: "Leoni greci con delle rune scolpite. Questa città è ogni volta più strana".

Osservo quelle stesse incisioni sulla schiena del più grande dei leoni che sorvegliano l'ingresso dell'Arsenale: il tempo e la salsedine hanno ancor più corroso questi geroglifici graffiati nel marmo da antichi marinai vichinghi e l'arcano di queste scritte è sempre più illeggibile. E allora, come fece Corto Maltese nella primavera del 1921, anche oggi non rimane che andarsene, che perdersi fra il Ghetto Vecchio e le solitudini di San Pietro di Castello per cercare, assieme a vecchi eruditi e antichi saggi veneziani, gli indizi che conducono agli scrigni segreti dove è nascosto uno smeraldo magico, "purissimo e bellissimo".

Non tutto sarà chiaro in questo viaggio: ma questa è una Favola di Venezia, qui il mistero fa da guida, queste sono le corti e le fondamenta percorse da Corto Maltese e qui vive ancora Esmeralda (esiste, esiste, io l'ho incontrata in un'osteria dalle parti di Rialto: bellissima prostituta di Buenos Aires, ha riccioli neri e occhi profondi come il mare e amò con passione il Maltese). È lei che mi sussurra: "A Venezia non devi andare a fondo nelle cose. Non devi mai dare troppe spiegazioni".

Seguirò questo consiglio prezioso: ma adesso è tempo di cercare una gondola per il Ghetto Vecchio.


UNA GONDOLA PER IL GHETTO VECCHIO.

Occhi di Fata, spavaldo e sbruffone, sosteneva di essere il più bravo gondoliere di Venezia mentre conduceva Corto verso la casa del rabbino Melchisedec. "È vero - dice oggi Stefano Gritti, giovane motoscafista in Piazza San Marco -. Era uno dei vecchi gondolieri e non ce ne sono più come lui: ti raccontava le storie autentiche della città. Si perdeva con la sua gondola fra i canali e parlava per ore. Era un bevitore formidabile, un personaggio straordinario."

Occhi di Fata era guercio: quando incontrava Corto Maltese aveva sempre gli occhiali scuri. Li portava anche di notte. Accompagnò il marinaio non solo nel Ghetto Vecchio, gli capitò anche di attraversare tutta la laguna per condurre Corto a San Francesco del Deserto. Non fece nessun commento, disse solo: "Una bella vogata": Ancor oggi, al mattino, Occhi di Fata si aggira per le banchine di San Marco. Anche lui continua ad aspettare il ritorno del Maltese?

Quella notte, nella Favola veneziana, il gondoliere vogò fino al rifugio del dotto Melchisedec. Grande vecchio dalla barba bianca e dal kippà, lo zuccotto tradizionale, oramai consunto e grande rabbino, custode fedele della memoria di Venezia: Melchisedec si identifica con Sem, il figlio di Noé. Troppi crocevia in questa città, troppi destini incrociati per non smarrirsi. Ma sarà proprio il rabbino, alla luce delle fiammelle della menorah, il candelabro a sette braccia, a svelare a Corto Maltese gli enigmi delle iscrizioni runiche e i segreti dello smeraldo magico. Questa pietra, trafugata nell'829, assieme alle spoglie di San Marco, ad Alessandria d'Egitto da due mercanti veneziani, Buono da Malamocco e Rustico da Tortello, era conosciuta come la "clavicola di Salomone". Era la chiave alchemica indispensabile per ritrovare i tesori perduti della regina di Saba e del grande re di Israele: dopo un tentativo di furto, le tracce del gioiello svanirono nel 904. Il ladro, scoperto, annegò nel rio di Madonna dell'Orto.

Melchisedec non si limiterà a raccontare a Corto Maltese intricati misteri da alchimista, ma, in altre storie, narrerà al marinaio anche la verità su San Reys, El Dorado perduto, settima e ultima città d'oro dell'Amazzonia. Insomma: chi cerca tesori deve sempre partire da Venezia.

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