Copertina
Autore Amartya Sen
Titolo Identità e violenza
EdizioneLaterza, Roma-Bari, 2006, i Robinson , pag. 222, cop.fle., dim. 140x210x18 mm , Isbn 978-88-420-8052-7
OriginaleIdentity and Violence. The Illusion of Destiny
EdizioneW.W. Norton, New York-London, 2006
TraduttoreFabio Galimberti
LettoreRiccardo Terzi, 2006
Classe politica , globalizzazione , storia contemporanea , sociologia , filosofia
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Indice

      Prologo                                   VII

      Prefazione                               XIII

I.    La violenza dell'illusione                  3

II.   Dare un senso all'identità                 20

III.  Prigionieri delle civiltà                  42

IV.   Affiliazioni religiose e storia islamica   60

V.    Occidente e Antioccidente                  85

VI.   Cultura e cattività                       104

VII.  Globalizzazione e voce dei cittadini      122

VIII. Multiculturalismo e libertà               151

IX.   Libertà di pensiero                       173


      Note                                      189

      Indice dei nomi                           203

      Indice analitico                          207

 

 

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Pagina XIII

Prefazione



Fu Oscar Wilde a pronunciare l'enigmatica affermazione: «La maggior parte della gente è altra gente». Sembra uno dei suoi rompicapo più stravaganti, ma in questo caso Wilde difese il suo punto di vista in maniera estremamente convincente: «I loro pensieri sono opinioni di qualcun altro, le loro vite uno scimmiottamento, le loro passioni una citazione». È straordinario fino a che punto ci facciamo influenzare dalle persone con cui ci identifichiamo. Odi settari attivamente incoraggiati possono diffondersi in un lampo, come abbiamo visto recentemente nel Kosovo, in Bosnia, in Ruanda, a Timor, in Israele, in Palestina, in Sudan e in molte altre parti del mondo. Con un'adeguata dose di istigazione, un sentimento di identità con un gruppo di persone può essere trasformato in un'arma potentissima per esercitare violenza su un altro gruppo.

Molti dei conflitti e delle atrocità del mondo sono tenuti in piedi dall'illusione di un'identità univoca e senza possibilità di scelta. L'arte di costruire l'odio assume la forma dell'invocazione del potere magico di una determinata identità, spacciata per dominante, che soffoca le altre affiliazioni e può arrivare anche, in una forma adeguatamente bellicosa, a sopraffare qualsiasi simpatia umana o naturale benevolenza di cui possiamo normalmente essere dotati. Il risultato può essere una violenza elementare, artigianale, oppure una violenza e un terrorismo globali, sofisticati.

L'idea che le persone possano essere classificate unicamente sulla base della religione o della cultura è un'importante fonte di conflitto potenziale nel mondo contemporaneo. La credenza implicita nel potere predominante di una classificazione unica può incendiare il mondo intero. Come ho già detto, una visione del mondo basata su un unico criterio di suddivisione non contrasta soltanto con la buona vecchia convinzione che noi esseri umani siamo più o meno uguali ma anche con l'idea, meno dibattuta ma molto più plausibile, che siamo diversamente differenti. Il mondo viene spesso visto come se fosse un insieme di religioni (o di «civiltà», o di «culture»), ignorando le altre identità che gli individui possiedono e giudicano importanti, legate alla classe sociale, al genere, alla professione, alla lingua, alla scienza, alla morale e alla politica. Questa tendenza a suddividere in base a un criterio unico provoca molti più conflitti di quanto non faccia l'universo di classificazioni plurali e distinte che dà forma al mondo in cui viviamo realmente. Il riduzionismo «alto» della teoria può dare un grande contributo, spesso senza rendersene conto, alla violenza «bassa» della politica.

I tentativi a livello globale di sconfiggere questa violenza, inoltre, risentono spesso di una confusione concettuale analoga, con l'accettazione – esplicita o implicita – di un'identità unica, preliminare a molte delle strade più ovvie per opporsi alla violenza. E la conseguenza può essere che la violenza religiosa non viene combattuta passando attraverso il rafforzamento della società civile (il che sarebbe ovvio), ma schierando una serie di leader religiosi di opinioni apparentemente «moderate», incaricati di sconfiggere gli estremisti in una battaglia intrareligiosa, ridefinendo in modo adeguato, nel caso, le prescrizioni della religione interessata. Come già accennato, considerare le relazioni interpersonali tra esseri umani unicamente in termini di rapporti tra gruppi, come «amicizia» o «dialogo» fra civiltà o comunità religiose, trascurando gli altri gruppi a cui quegli stessi individui appartengono (sulla base di legami economici, sociali, politici o altro genere di legami culturali), equivale a perdere per strada gran parte dell'importanza della vita umana, equivale a suddividere gli individui in tanti piccoli contenitori.

Gli effetti spiacevoli di questa miniaturizzazione degli individui sono l'argomento principale di questo libro. È necessario riesaminare, dare una nuova valutazione di argomenti consolidati come la globalizzazione economica, il multiculturalismo politico, il postcolonialismo storico, l'etnicità sociale, il fondamentalismo religioso e il terrorismo globale. Le prospettive di pace nel mondo contemporaneo possono nascere forse dal riconoscimento della natura plurale delle nostre affiliazioni, e nel ricorso alla discussione ragionata in quanto semplici abitanti di un vasto mondo, invece di fare di noi stessi tanti detenuti rigidamente imprigionati in angusti contenitori. Ciò di cui abbiamo bisogno sopra ogni altra cosa è una comprensione lucida dell'importanza della libertà di cui possiamo disporre nel determinare le nostre priorità. E a questo proposito è indispensabile dare il giusto riconoscimento al ruolo e all'efficacia di una voce pubblica ragionata, all'interno dei singoli paesi e nel mondo intero.

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Pagina 3

I
La violenza dell'illusione



Lo scrittore afroamericano Langston Hughes, nella sua autobiografia del 1940, intitolata Nel mare della vita, descrive l'esaltazione che provò mentre partiva da New York per andare in Africa. Gettò in mare i suoi libri americani: «Fu come togliermi dal cuore non uno, ma mille pesi». Stava andando nella sua «Africa, patria dei negri!». Presto avrebbe sperimentato «una cosa concreta, da toccarsi e vedere, non semplicemente da leggere in un libro». Un senso di identità può essere fonte non semplicemente di orgoglio e felicità, ma anche di forza e sicurezza nei propri mezzi. Non sorprende che il concetto di identità incontri tanta ammirazione, dal popolare invito ad amare il prossimo alle raffinate teorie del capitale sociale e dell'autodefinizione comunitaria.

Eppure l'identità può anche uccidere, uccidere con trasporto. Un sentimento forte – ed esclusivo – di appartenenza a un gruppo può in molti casi portare con sé la percezione di distanza e divergenza da altri gruppi. La solidarietà all'interno del gruppo può contribuire ad alimentare la discordia tra gruppi. Potremmo improvvisamente apprendere di non essere semplicemente ruandesi ma più specificamente degli hutu («odiamo i tutsi»), oppure venire a sapere che non siamo in realtà semplicemente jugoslavi ma serbi («i musulmani non ci piacciono per niente»). Degli scontri fra indù e musulmani degli anni Quaranta, legati alla politica della partition, ricordo, nella mia memoria di bambino, la velocità con cui gli esseri umani di gennaio si trasformarono repentinamente negli implacabili indù e negli spietati musulmani di luglio. Centinaia di migliaia perirono per mano di persone che – guidate dai comandanti della carneficina – uccidevano in nome della «propria gente» altre persone. La violenza è fomentata dall'imposizione di identità uniche e bellicose a individui abbindolabili, sostenute da esperti artigiani del terrore.

Il senso di identità può dare un importante contributo alla forza e all'intensità delle nostre relazioni con il prossimo, che può essere rappresentato dai vicini, o dai membri della stessa comunità, o dai concittadini, o dai seguaci della stessa religione. Concentrarci su identità specifiche può servire ad arricchire i nostri legami, può spingerci a fare molto gli uni per gli altri, può aiutarci ad andare al di là delle nostre vite autoreferenziali. I recenti studi sul «capitale sociale», efficacemente analizzato da Robert Putnam e da altri, hanno evidenziato con sufficiente chiarezza che l'identificazione con altri membri della stessa comunità sociale è in grado di rendere la vita, all'interno di quella comunità, molto migliore; un senso di appartenenza a una comunità viene visto quindi come una risorsa, come un capitale. È un modo di vedere le cose importante, ma è necessario riconoscere anche un altro fattore, e cioè che, se è vero che un senso di identità può accogliere e unire le persone, è vero anche che può escluderne molte altre senza appello. La comunità ben integrata, i cui abitanti compiono istintivamente le azioni più belle nei confronti gli uni degli altri con la massima premura e solidarietà, può essere la stessa comunità in cui la gente scaglia mattoni contro le finestre degli immigrati trasferitisi in quella regione da altre zone. La calamità dell'esclusione può andare a braccetto con la benedizione dell'inclusione.

Il ricorso alla violenza associato a conflitti di identità sembra ripetersi in tutto il mondo con sempre maggiore persistenza. Gli equilibri di potere in Ruanda e in Congo saranno anche cambiati, ma la pratica di prendere di mira un gruppo da parte di un altro gruppo continua a essere vitale. Il dispiegamento di un'aggressiva identità islamica sudanese, unito allo sfruttamento delle divisioni razziali, ha condotto a stupri e uccisioni ai danni di vittime impotenti nella parte meridionale di quello Stato spaventosamente militarizzato. Israele e Palestina continuano a sperimentare i funesti effetti di identità dicotomizzate, pronte a infliggersi reciprocamente punizioni cariche di odio. La dottrina di al-Qa'ida consiste in gran parte nel coltivare e sfruttare un'identità islamica militante diretta specificamente contro gli occidentali.

E arrivano continuamente notizie, da Abu Ghraib e da altre parti, che le attività di certi soldati americani o britannici spediti a combattere per la causa della libertà e della democrazia comprendono anche le azioni di cosiddetto «ammorbidimento» dei prigionieri, condotte in modi assolutamente disumani. Possedere un potere illimitato sulla vita di sospetti combattenti nemici, o di presunti miscredenti, traccia una linea divisoria invalicabile fra prigionieri e carcerieri, depositari di identità distinte («loro sono di un'altra razza rispetto a noi»). E tutto ciò sembra estromettere, il più delle volte, qualsiasi considerazione dell'altro, eclissare gli aspetti meno conflittuali delle persone dall'altra parte della barricata: uno fra tutti, la comune appartenenza alla razza umana.

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Pagina 13

La tesi dello scontro di civiltà inizia a mostrare i suoi limiti ben prima di arrivare alla questione dell'inevitabile scontro: il problema è già nella presunzione della rilevanza univoca di un unico criterio di classificazione. La stessa domanda «Esiste uno scontro fra civiltà?» si fonda sul presupposto che l'umanità possa essere classificata in via preferenziale in civiltà distinte e separate, e che le relazioni tra esseri umani differenti possano essere in qualche modo considerate, senza nuocere più di tanto alla comprensione, in termini di rapporti tra civiltà differenti. Il difetto fondamentale di questa tesi sta molto più a monte dell'interrogativo sulla necessità di questo ccontro tra civiltà.

Questa visione riduzionista si combina tradizionalmente. ahimè, con una percezione piuttosto nebulosa della storia, che trascura innanzitutto la portata delle diversità interne nell'ambito di queste civiltà e, in secondo luogo, l'estensione e l'influenza delle interazioni – intellettuali così come materiali – che travalicano i confini regionali delle cosiddette civiltà (ne parleremo più approfonditamente nel terzo capitolo). E la sua capacità di confondere può finire con l'intrappolare non soltanto coloro che sono disposti a sostenere la tesi dello scontro (categoria che va dagli sciovinisti occidentali ai fondamentalisti islamici), ma anche coloro che vorrebbero contestarla ma che cercano di replicare a essa rimanendo negli angusti limiti dei suoi criteri prestabiliti di riferimento.

Un simile modo di pensare ha dei limiti che costituiscono un'insidia anche per i progetti di «dialogo tra civiltà» (che di questi tempi sembra molto ricercato), oltre che per le teorie di uno scontro fra civiltà. L'obiettivo nobile ed elevato di perseguire l'amicizia tra le persone, nel momento in cui viene visto in un'ottica di amicizia tra civiltà, riduce repentinamente le molte sfaccettature degli esseri umani a una dimensione soltanto, mettendo la museruola a quella varietà di legami che, per molti secoli, hanno fornito terreno fertile e variegato a interazioni transnazionali, in campi come le arti, la letteratura, la scienza, la matematica, i giochi, la politica e altre sfere di comune interesse per gli esseri umani. Tentativi benintenzionati di perseguire la pace nel mondo possono avere conseguenze estremamente controproducenti quando sono basati su una visione fortemente illusoria dell'umanità.

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Pagina 48

L'India è una civiltà induista?


Per illustrare l'argomento, prenderò in esame il trattamento riservato al mio paese, l'India, in questo sistema di classificazione. Descrivendo l'India come una «civiltà induista», nell'esposizione della sua teoria sullo «scontro di civiltà», Huntington minimizza il fatto che l'India ha più musulmani di qualsiasi altro paese al mondo con l'eccezione dell'Indonesia e, di stretta misura, del Pakistan. Non rientrerà nell'arbitraria definizione di «mondo islamico», ma fatto sta che l'India (con i suoi 145 milioni di musulmani, più dell'intera popolazione britannica e francese messe insieme) ha molti più musulmani di quasi qualsiasi altro paese del «mondo islamico» di Huntington. Ed è impossibile, tra l'altro, pensare alla civiltà dell'India contemporanea senza tener conto dell'importante ruolo avuto dai musulmani nella storia del paese.

Sarebbe anzi abbastanza futile cercare di comprendere la natura e la vastità dell'arte, della letteratura, della musica, del cinema o della cucina indiane senza prendere in considerazione la vasta gamma di apporti provenienti, in modo assolutamente inestricabile, sia dagli induisti che dai musulmani. Le interazioni nella vita di tutti i giorni, o nelle attività culturali, non seguono confini comunitari. Possiamo comparare lo stile di Ravi Shankar, lo straordinario sitarista, con quello di Ali Akbar Khan, il grande suonatore di sarod, in base alla loro particolare padronanza di forme diverse della musica classica indiana, ma non possiamo considerarli rispettivamente un «musicista indù» e un «musicista musulmano» (anche se Shankar è un indù e Khan è un musulmano). Lo stesso vale per altri settori della creatività culturale, inclusa Bollywood, la grande arena della cultura di massa indiana, dove molti degli attori e delle attrici più famosi, e anche dei registi, sono di famiglia musulmana (insieme ad altri non musulmani), e sono adorati da una popolazione che all'80 per cento è di religione induista.

Senza contare che i musulmani non sono l'unico gruppo non induista della popolazione indiana. È forte anche la presenza dei sikh e dei giainisti. Il buddismo, che in India ha avuto origine, è stato la religione dominante per oltre un millennio, e i cinesi spesso definiscono l'India «il regno buddista». Scuole di pensiero agnostiche e atee – i Carvaka e i Lokayata – sono fiorite in India dal VI secolo a.C. ai nostri giorni. Grosse comunità cristiane sono presenti in India fin dal IV secolo, duecento anni prima che cominciassero a formarsi consistenti comunità cristiane in Gran Bretagna. Gli ebrei arrivarono in India poco dopo la caduta di Gerusalemme; i parsi a partire dall'VIII secolo.

È evidente che la classificazione dell'India come «civiltà induista» operata da Huntington presenta molti limiti descrittivi. Senza contare il fatto che è politicamente incendiaria, perché tende ad attribuire una qualche credibilità, quanto mai infondata, alla fenomenale distorsione storica e alla manipolazione della realtà corrente di cui i politici induisti settari hanno cercato di farsi promotori tentando di promuovere una visione dell'India come civiltà induista. Huntington, infatti, è frequentemente citato da molti leader del movimento politico Hindutva, e non c'è da stupirsi, considerando le similitudini fra la sua visione dell'India come civiltà induista, e la promozione di una «visione induista» dell'India, tanto cara ai guru politici dell'Hindutva.

Si dà il caso che, nelle elezioni politiche tenutesi in India nella primavera del 2004, la coalizione guidata dal partito nazionalista indù abbia subìto una severa sconfitta un po' dappertutto. Oltre a essere guidata da un presidente musulmano, la laica repubblica dell'India adesso ha un primo ministro sikh e un cristiano come presidente del partito di governo (non male per l'elettorato più numeroso del mondo, costituito all'80 per cento e oltre da indù). Ma la minaccia di un ritorno sulla scena della concezione settaria induista del paese è sempre presente. Anche se i partiti politici fautori di una visione induista dell'India hanno ricevuto molto meno di un quarto dei suffragi (una piccola frazione della popolazione indù), i tentativi politici di considerare l'India una civiltà induista non scompariranno facilmente. Caratterizzare l'India unicamente in base alla religione, ridotta artificiosamente a una soltanto, continua a essere, oltre che inesatto, politicamente esplosivo.

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Pagina 59

Astrazioni sommarie e confusione storica


Affidarsi a una ripartizione della popolazione mondiale in civiltà è assolutamente sbagliato, almeno per due diversi motivi. Il primo è che esiste un problema metodologico di base nella presunzione implicita che una suddivisione per civiltà sia l'unico criterio di classificazione rilevante, e che esso debba soffocare – o spazzare via – gli altri metodi. È già abbastanza negativo, anche se certo non sorprendente, che coloro che fomentano scontri a livello mondiale o violenza settaria a livello locale cerchino di imporre un'identità unica, conflittuale e predefinita, a quei soggetti da reclutare come «fanteria» della brutalità politica; ma è veramente triste vedere come questa ottusa visione venga significativamente rafforzata dal sostegno implicito che i guerrieri del fondamentalismo antioccidentale ricevono dalle teorie della classificazione unica degli abitanti del pianeta nate nei paesi occidentali.

Il secondo punto debole della suddivisione per civiltà, tipico di questo approccio, è che essa è basata su una rozzezza descrittiva e un'ingenuità storica straordinarie. Ignora di fatto molti dei maggiori elementi di diversità presenti all'interno di ogni civiltà, e trascura in gran parte le interazioni fra civiltà.

Questi due difetti gemelli producono una visione fortemente impoverita delle diverse civiltà e delle loro similitudini, delle loro connessioni, della loro interdipendenza nel campo della scienza, della tecnologia, della matematica, della letteratura, degli scambi, del commercio e del pensiero politico, economico e sociale. La percezione confusa della storia mondiale determina una visione eccezionalmente limitata di ciascuna cultura, che comprende una lettura singolarmente provinciale della civiltà occidentale.

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Pagina 138

La possibilità di una maggiore giustizia
[...]

La pratica dell'economia di mercato è coerente con molti diversi modelli di proprietà, disponibilità di risorse, strutture sociali e normative (come la legislazione sui brevetti, i regolamenti antitrust, le prestazioni sanitarie e di supporto al reddito ecc.). E a seconda di queste condizioni, l'economia di mercato genera differenti modelli di prezzi, condizioni di scambio, distribuzione del reddito, producendo, più in generale, effetti complessivi diversissimi tra loro. Ad esempio, ogni volta che vengono creati ospedali, scuole o università, oppure ogni volta che c'è un trasferimento di risorse da un gruppo a un altro, invariabilmente i prezzi e le quantità subiscono delle alterazioni. I mercati non agiscono – non possono agire – in solitudine. Non esistono «gli effetti del mercato», sempre uguali a prescindere dalle condizioni che governano i mercati stessi, fra le quali la distribuzione delle risorse economiche e della proprietà. Anche l'introduzione o il potenziamento di sistemi istituzionali di previdenza sociale e altri interventi pubblici assistenziali possono produrre differenze importanti negli esiti finali.

L'interrogativo centrale non è – anzi, non può essere – se ricorrere o no all'economia di mercato. È un quesito superficiale, a cui è facile dare una risposta. Nessuna economia, nella storia del mondo, è mai riuscita a raggiungere una prosperità diffusa, al di là dell'opulenza dell'élite, senza fare un massiccio ricorso al mercato e alle condizioni di produzione che dal mercato dipendono. Non è difficile arrivare alla conclusione che è impossibile raggiungere una prosperità economica generale senza fare largo uso delle opportunità di scambio e specializzazione offerte dai rapporti di mercato. Con questo non intendo negare affatto la realtà fondamentale che l'azione dell'economia di mercato può essere alquanto deficitaria in molte circostanze, a causa della necessità di gestire merci destinate a un consumo collettivo (come le strutture sanitarie pubbliche), e anche a causa (se ne è molto discusso recentemente) dell'asimmetria – e più in generale dell'imperfezione – delle informazioni a disposizione dei diversi attori del mercato. Ad esempio, l'acquirente di un'auto usata possiede molte meno informazioni sulla macchina rispetto al proprietario che la vende, e questo significa che la gente deve prendere decisioni di scambio in condizioni di parziale ignoranza, e, nello specifico, di conoscenza disuguale. Questi problemi, che sono gravi e importanti, possono però venire affrontati tramite politiche pubbliche appropriate, che vadano a integrare il funzionamento dell'economia di mercato. Sarebbe difficile, tuttavia, fare interamente a meno del mercato, senza minare completamente le prospettive di progresso economico.

Vivere in un'economia di mercato non è molto diverso dal parlare in prosa. Non è facile farne a meno, ma molto dipende da quale prosa scegliamo di usare. L'economia di mercato non è l'unico attore in campo nei rapporti globalizzati, anzi, non è l'unico attore nemmeno all'interno di un determinato paese. Un sistema che include il mercato può produrre risultati molto diversi a seconda delle condizioni abilitanti presenti (ad esempio, la distribuzione delle risorse fisiche, il modo in cui sono sviluppate le risorse umane, quali regole prevalgono nei rapporti d'affari, quali sistemi di garanzie sociali esistono, quanto è condivisa la conoscenza tecnica e così via), ma va aggiunto che queste stesse condizioni dipendono in larga misura dalle istituzioni economiche, sociali e politiche che operano a livello nazionale e globale.

Come è stato ampiamente dimostrato da studi empirici, la natura degli effetti del mercato è fortemente influenzata dalle politiche pubbliche in materia di istruzione, epidemiologia, riforma agraria, strutture per il microcredito, adeguate protezioni legali ecc., e in ognuno di questi settori è possibile, attraverso l'azione pubblica, fare cose che incidono enormemente sugli esiti dei rapporti economici locali e globali. Dobbiamo comprendere e utilizzare questo tipo di interdipendenze se vogliamo incidere sulle disuguaglianze e le asimmetrie che caratterizzano l'economia mondiale. La semplice globalizzazione dei rapporti di mercato, da sola, rischia di essere un approccio altamente inadeguato alla questione della prosperità mondiale.

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Pagina 160

Nascere in un particolare background sociale non è di per sé un esercizio di libertà culturale (come abbiamo detto in precedenza), non essendo frutto di una scelta. Al contrario, sarebbe un esercizio di libertà la decisione di restare saldamente all'interno del sistema tradizionale, se la scelta venisse compiuta dopo aver preso in considerazione altre alternative. Rientrerebbe fra gli esercizi di libertà anche la decisione di discostarsi – tanto o poco – dal modello comportamentale standard, se assunta dopo averci ragionato e riflettuto. La libertà culturale spesso può entrare in conflitto con il conservatorismo culturale, e se si vuole difendere il multiculturalismo in nome della libertà culturale risulta difficile pensare che la condizione irrinunciabile possa essere un sostegno inamovibile e incondizionato al rigido mantenimento della tradizione culturale ereditata.

La seconda questione attiene al fatto, diffusamente trattato in questo libro, che anche se la religione e l'etnia possono rappresentare un'identità importante per gli individui (specialmente se questi hanno la libertà di scegliere se accogliere o rifiutare le tradizioni ereditate o assegnate), esistono altre affiliazioni e associazioni importanti. Il multiculturalismo non può, se non in un'accezione assai peculiare, sovrastare il diritto di un individuo a partecipare alla società civile, a prendere parte alla politica nazionale o a condurre una vita socialmente anticonformista. E ancor di più, il multiculturalismo, per quanto importante, non può portare automaticamente a dare priorità assoluta ai dettami della cultura tradizionale.

Come detto in precedenza, la popolazione mondiale non può essere vista esclusivamente in funzione delle affiliazioni religiose, come una federazione di religioni. Per gli stessi motivi, più o meno, una Gran Bretagna multietnica non può essere considerata un insieme di comunità etniche. La visione «federativa», però, ha avuto un grande successo nella Gran Bretagna contemporanea. Nonostante le implicazioni tiranniche insite nel collocare gli individui in rigidi compartimenti ognuno corrispondente a una data «comunità», questa impostazione viene spesso considerata, in maniera piuttosto sconcertante, come alleata della libertà individuale. Esiste perfino una «visione», molto propagandata, del «futuro della Gran Bretagna multietnica» che vede il paese come «una federazione elastica di culture tenute insieme da vincoli comuni di interessi e di affetti e da un senso collettivo dell'essere».

Ma è indispensabile che il rapporto di un individuo con la Gran Bretagna venga mediato attraverso la cultura in cui questo individuo è nato? Una persona può decidere di accostarsi a più di una di queste culture predefinite, o, altrettanto plausibilmente, a nessuna. Un individuo può anche decidere che la sua identità etnica o culturale è meno importante, per fare un esempio, delle sue convinzioni politiche, o dei suoi impegni professionali o dei suoi convincimenti letterari. È una scelta che dev'essere fatta da quell'individuo, a prescindere dalla casella che occupa in questa bizzarra «federazione di culture».

[...]

Presenterebbe seri problemi, sotto il profilo delle rivendicazioni morali e sociali, un multiculturalismo che insistesse sul fatto che l'identità di una persona debba essere definita dalla sua comunità o dalla sua religione, trascurando tutte le altre affiliazioni che un individuo possiede, (dalla lingua, dalla classe sociale e dalle relazioni sociali alle opinioni politiche e ai ruoli civici), e dando automaticamente la priorità alla religione o alla tradizione ereditata rispetto alla riflessione e alla scelta. Eppure, questa visione ristretta del multiculturalismo ha assunto un ruolo preminente in alcune delle politiche ufficiali britanniche degli ultimi anni.

La politica ufficiale di promuovere attivamente le nuove «scuole religiose» appena istituite per i bambini musulmani, induisti e sikh (in aggiunta alle preesistenti scuole cristiane), che è la dimostrazione di questo approccio, non solo è discutibile sotto il profilo educativo, ma incoraggia anche una percezione frammentaria di ciò che è necessario per vivere in una Gran Bretagna «desegregata». Molti di questi nuovi istituti stanno nascendo proprio in un momento in cui il fatto di dare la priorità alla religione rappresenta una delle maggiori fonti di violenza a livello mondiale (per non parlare degli esempi analoghi nella stessa Gran Bretagna, con le divisioni tra cattolici e protestanti in Irlanda del Nord, esse stesse non disgiunte dalla segmentazione scolastica). Il primo ministro Tony Blair ha certamente ragione quando fa notare che «quelle scuole garantiscono un forte senso dell'etica e dei valori». Ma istruzione non vuol dire solamente immergere i bambini, anche quelli giovanissimi, nell'ethos dei padri. Vuol dire anche aiutare i bambini a sviluppare la capacità di ragionare sulle decisioni nuove che qualsiasi persona adulta sarà chiamata a prendere. L'obiettivo importante non è garantire una formula di «parità» rispetto ai vecchi britannici con le loro vecchie scuole religiose, ma trovare il modo migliore per mettere in grado gli scolari che crescono in un paese integrato di vivere una «vita analizzata».

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