Copertina
Autore Salvatore Maria Sergio
Titolo Donne in toga
SottotitoloDal tempo di Roma antica al tempo nostro
EdizioneColonnese, Napoli, 2009, Lo specchio di Silvia 51 , pag. 64, cop.fle., dim. 9x14,5x0,7 cm , Isbn 978-88-87501-84-1
LettoreGiorgia Pezzali, 2009
Classe diritto , biografie , storia sociale
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Pagina 24

Come si vede, quello percorso dalle donne perché fosse loro riconosciuto il jus postulandi nei tribunali, è stato un itinerario tormentato, reso aspro da pregiudizi, da orgasmi moraleggianti, o, peggio, moralistici, da preclusioni egoistiche, da ossificazioni pseudoculturali, da sofistiche interpretazioni delle leggi, ma anche, talvolta, si deve riconoscere, dalla diffidenza provocata da risentiti, rumorosi atteggiamenti di talune femministe meno avvedute.

Nei primi anni del Novecento, il redattore d'una paludata rivista giudiziaria, «I Rostri», colto da furore maschilista, s'abbandonò ad un'amenissima prosa, di cui, per il divertimento dei lettori, propongo un brano: «... il tradizionale buon senso Italico (si noti la maiuscola!), che fu sempre la salvezza nostra e delle nostre naturali intemperanze, ci mantiene per fortuna e sempre ci manterrà forse sempre lontani dagli inutili e così stupidi rumori delle suffragettes inglesi che azzardano con il loro starnazzare la calma operosa di Lloyd George e di Lord Asquits. Da noi si è più modesti e tolte frettolose conclusioni di taluni ritardatari nel campo della Verginità (altra maiuscola!), che hanno quindi per tale condizione sventurata di noncuranza mascolina un legittimo risentimento...».


Erano, quelli, gli anni in cui, in Italia, i rigattieri di tradizioni eterne avrebbero messo la cintura di castità alle Veneri di Giorgione e di Vélazquez, imposto il cilicio a Paolina Borghese, che il gran Canova aveva fatto sdraiare su una chaise longue di marmo a seno nudo; mandato al confino di polizia Guido da Verona, che faceva balbettare con voce soffocata Yvelise, protagonista d'un suo romanzo: «Mettimi un cuscino sulla bocca, perché io non gridi»; mentre i benpensanti avrebbero lapidato Amalia Guglielminetti, bella e spregiudicata, perché, disegnando nei suoi romanzi i ritratti di donne anticonformiste, disincantate, libere, osava dare alle stampe romanzi pruriginosi e raccolte di poesie dai titoli indecenti: Le vergini folli, Le seduzioni, Quando avevo un amante...

E pare proprio che Donna Amalia, «Saffo dalle chiome di viola», fosse l'amante di Pitigrilli, dopo esserlo stata di Guido Gozzano – il tenero cantore della Signorina Felicita della Vill'Amarena –, sicché inevitabili si levarono alti i lai di Lina Furlan, Liù, penalista di grido e moglie del famoso autore de La vergine a 18 carati, Cocaina, Mammiferi di lusso, La cintura di castità, I vegetariani dell'amore, e d'altri romanzi proibiti, che, or è qualche anno, gli hanno fatto guadagnare la fama di «uomo che fece arrossire la mamma».

Scomparve quasi centenaria, otto o nove anni or sono, Lina Furlan, nata a Venezia ma trasferitasi giovanissima a Torino, fra le prime donne, in Italia, a indossare la toga di avvocato, la prima del Fτro Subalpino, la prima a discutere in Corte d'assise.

Era contenta d'indossarla, la toga, perché, diceva – ricorda Titta Madìa –, è un indumento non soggetto alla moda, dalla linea immutabile.

Al suo esordio nelle aule giudiziarie torinesi, nel febbraio del 1930, la rassegna di vita forense «I Rostri» – che, come ho accennato di sopra, quindici anni prima aveva scagliato frecce arroventate contro l'idea delle donne in toga –, con palese piacenteria, questa volta, riferì che l'avvocato Michele Nasi, «trovandosi ad essere avversario della signorina Furlan, salutò cavallerescamente la grazia e la gentilezza della giovane collega, compiacendosi che anche nell'aringo forense la donna porti il suo sorriso...».

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Pagina 29

Ripugnava al magistrato di Roma l'idea della donna-avvocato, e ripugnava, ancora dopo secoli, alla Corte di Cassazione di Torino (la Cassazione sarà unificata soltanto il 1923).

All'occaso dell'Ottocento, esattamente il 18 aprile 1884, infatti, a Lydia Poλt, originaria di Pinerolo e appartenente a una famiglia d'origine valdese, che aveva chiesto e ottenuto – prima donna in Italia – d'essere iscritta nell'albo forense come procuratore legale in forza dell'art. 24 dello Statuto, che a tutti riconosceva il godimento dei diritti civili e politici, la Corte, accogliendo il ricorso del pubblico ministero, oppose che l'uguaglianza giuridica... «non toglie le inegualità naturali», e che «giammai potranno scomparire le difficoltà psicologiche: virilibus officiis fungantur mulieres!»

Con ridicolo senso del pudore, degno di moralisti pitocchi, l'eccellentissima Corte, muovendosi in un umbratile labirinto entro cui la modernità era come in un percorso cieco, non osò illustrare con parole chiare una delle ragioni poste a fondamento del suo dissenso; bensì scelse espressioni velate, ambigue, e il manzoniano latinorum: infermitas sexus. Una scelta perfetta: Don Lisander, quello scrittore innocente che non volle trascrivere la canzonaccia cantata dai bravi...

Il pensiero riposto, infatti, era che, a causa del ciclo mestruale, per una settimana circa ogni mese, le donne sarebbero prive dell'indispensabile serenità per giudicare nei casi loro presentati.

Un'idea, questa, che nel Seicento con grande zelo coltivava Don Bernardo de Sandoval y Rojas, non placato Inquisitore Generale a Zugarramurdi e Urdax, minuscoli villaggi ai piedi dei Pirenei, e cacciatore di streghe aduse a riunirsi nelle messe nere e negli aquelarres, i sabba, durante i quali il sangue del mestruo era raccolto per fabbricare unguenti velenosi e liquidi mortiferi.


In fondo, era l'ovvio corollario di quella concezione della società italiana che, soprattutto in ambito borghese, ancora resisteva arroccata nell'idea che il dimorfismo sessuale fosse l'invalicabile discrimine al riconoscimento dei diritti delle donne; e, questo, malgrado la diffusione del principio di eguaglianza affermato dalla Rivoluzione francese.

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Pagina 45

La storia delle donne in toga esige un apparato scenico: eccolo, ma bisogna tornare indietro nel tempo, risalire al 1906: sullo sfondo, dieci maestrine elementari di Senigallia (per la precisione, una, la piú anziana, era di Montemarciano, in provincia di Ancona) s'azzuffavano col grande Moloch, che le aveva escluse dall'elettorato attivo delle rappresentanze provinciali, perché fosse loro riconosciuto il diritto al voto: alla fine, un verdetto favorevole: la Commissione elettorale provinciale di Ancona, competente per la tenuta e la revisione delle liste, accolse la richiesta.

Ma, in un batter di ciglia, la decisio- ne fu impugnata dall'illustrissimo signor procuratore del Re presso il tribunale di Ancona, che addusse a motivo una pretesa inconciliabilità tra le qualità... specifiche delle donne e le difficoltà – ob infirmitatem sexus! – dell'impegno politico.

Il ricorso del signor Cav. Uff. Marracino venne respinto a maggioranza dalla Corte d'appello di Ancona, presieduta da Ludovico Mortara, grande giurista e acutissimo teorico, il 25-28 luglio 1906.

Θ una breccia nel muro dei pregiudizi sessuali — imbecillitas sexus! - e un altro passo avanti della lunga marcia delle donne; soprattutto, il fondamentale antecendente politico-culturale della vicenda esistenziale e della storia professionale della Comani.

Ma... maledizione! sono trascorsi appena sei mesi, e la Cassazione, conservatrice miope, e animata — diremmo oggi — da un pensiero debole, si dispone alla controriforma: fa dieci, cento, mille passi indietro, e, accogliendo il ricorso del riguardatissimo signor Procuratore generale presso la Regia Corte d'appello di Ancona, il 4 dicembre 1906, infiocchettando la motivazione di «tostoché non», «imperocché», «non puranche», «eziandio» &.c., annulla la sentenza Mortara, e rinvia per un nuovo giudizio alla Regia Corte d'appello di Roma.

E la Corte romana, presieduta dal senatore Michele Cardona, e composta da Grand'Ufficiali, Cavalieri Ufficiali e Cavalieri, l'8 maggio 1907, non sa far di meglio che accodarsi alla Cassazione!

Non è superfluo, qui, annotare una riflessione che si coglie in Souvenirs du Monde de 1890 à 1940 di Elisabeth de Gramont, duchessa di Clermont-Tonnerre (il modello a cui s'ispirò Marcel Proust per la duchessa Oriane de Guermantes nei primi due volumi della Recherche) : una riflessione di particolare interesse perché svolta da una personalità di prima grandezza di quell'aristocrazia ch'era abituata a trattare familiarmente con il faubourg Saint-Germain, a vivere tra Parigi, Deauville, Biarritz, Cap Martin, Cannes, Antibes, ricevimenti, corse di cavalli, concerti, e che il «petit Marcel» descrive «dall'interno»: «Ha inizio un'importante evoluzione sociale. Le donne si rivelano. «Il femminismo verrà dal basso», afferma Anatole de Monzie, e i fatti gli dànno ragione; ci sono donne che lavorano nelle fabbriche, altre rimpiazzano vantaggiosamente i loro mariti nella fattoria, al banco, nel negozio, in casa; si dimostrano capaci di dirigere, di amministrare, di lavorare. E la prova che forniscono della loro capacità, concede loro una potenza che, una volta finita la guerra, non abbandoneranno. Ma l'emancipazione delle donne porta fatalmente con sé un rilassamento dei costumi. La sottomissione è abolita, presto la donna, sull'esempio dell'uomo, tratterà la questione sessuale con molta disinvoltura».

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