Autore Luca Serianni
CoautoreLucilla Pizzoli
Titolo Storia illustrata della lingua italiana
EdizioneCarocci, Roma, 2018 [2017], Sfere 129 , pag. 160, ill., cop.fle., dim. 15x22x1,1 cm , Isbn 978-88-430-8935-2
LettoreGiangiacomo Pisa, 2018
Classe linguistica , paesi: Italia , storia sociale












 

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Indice


    INTRODUZIONE                              9


1.  DAL LATINO ALL'ITALIANO                  13

2.  L'ITALIANO TRA SCRITTO E PARLATO         57

3.  LE LINGUE STRANIERE NELL'ITALIANO        91

4.  L'ITALIANO NEL MONDO                    117


    OPERE CITATE                            151

    BIBLIOGRAFIA                            155

    REFERENZE ICONOGRAFICHE                 157


 

 

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LA NASCITA DELLA LINGUA ITALIANA


Come molte altre lingue di cultura europee, anche l'italiano deriva dal latino. A differenza delle altre lingue, però, l'italiano è stato per secoli, fino a tutto l'Ottocento, una lingua principalmente scritta, basata sul modello della letteratura fiorentina.

È stato infatti grazie ai grandissimi capolavori di Dante, Petrarca e Boccaccio che il fiorentino, fino ad allora soltanto una delle tante parlate della penisola, è riuscito ad ottenere, a partire dal Trecento, un enorme prestigio agli occhi di letterati, poeti, prosatori, scienziati e intellettuali del resto d'Italia.

Ed è proprio sulla base della lingua delle opere di quei tre grandi autori, nel frattempo divenuti noti come "Tre Corone", che due secoli più tardi, intorno al Cinquecento, vengono progettati e composti i primi vocabolari e le prime grammatiche dell'italiano, che sanciscono il definitivo primato del fiorentino e del toscano.

Si entra così nella modernità. L'italiano è e rimane, nella sua struttura grammaticale di fondo, il fiorentino letterario del Trecento e si fa poi lingua nazionale: una lingua sorta non grazie all'egemonia politica o militare di una città rispetto alle altre ma, cosa specialissima, per merito di un indiscusso primato letterario e artistico.

L'italiano appartiene alla famiglia delle lingue cosiddette "neolatine" o "romanze". Deriva, cioè, dal latino dell'uso familiare così com'era parlato dopo il IV secolo d.C. Un latino molto lontano da quello di grandi scrittori classici come Cesare o Virgilio, e abbastanza diverso da una regione all'altra del vastissimo Impero romano.

Durante il Medioevo, infatti, con un processo ininterrotto durato più di cinque secoli, il latino parlato in tutta questa grande area continuò a differenziarsi al suo interno sviluppandosi lentamente in una serie di parlate locali: i cosiddetti "volgari" medievali.

Quando, molto tempo dopo, in epoca moderna, si formarono gli Stati nazionali, accadde che uno di questi volgari si affermò sugli altri, ponendo le premesse per divenire "lingua" nazionale e relegare di conseguenza gli altri volgari al rango di "dialetti": così è successo per il volgare d' oïl di Parigi e dell'Île de France e per il castigliano di Toledo e di Madrid, diventati il francese e lo spagnolo di oggi.

In Italia, questa sorte è toccata al volgare di Firenze, che alla metà del Cinquecento si impose definitivamente, a livello sovraregionale, come incontrastato modello linguistico.

                                        RITRATTO DI SEI POETI TOSCANI
                                        Giorgio Vasari, Sei poeti toscani, 1544,
                                        Minneapolis Institute of Arts.
                                        Da destra: Cavalcanti, Dante, Boccaccio e Petrarca;
                                        in secondo piano: Cino da Pistoia e Guittone d'Arezzo

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IL LATINO IN MARCIA VERSO L'ITALIANO E LE ALTRE LINGUE ROMANZE MODERNE


L'Impero romano raggiunge la sua massima espansione nel II secolo d.C., ma già a partire dal secolo successivo è colpito da una grave crisi: l'anarchia militare, la perdita di potere degli aristocratici, le invasioni dei popoli germanici finiranno con l'indebolirne le fondamenta. La caduta dell'Impero romano d'Occidente (476 d.C.), insieme ai mutamenti epocali legati alla crescente diffusione del cristianesimo e all'arrivo di popolazioni straniere (goti, longobardi, franchi, bizantini e arabi), avvia definitivamente il processo che porterà i tanti latini parlati a diventare lingue neolatine.

Questo processo è stato naturalmente molto lento e graduale. Anche dopo il crollo dell'Impero romano, le forme linguistiche e grammaticali nuove rispetto a quelle correnti nel latino classico dei grandi scrittori vennero a lungo avvertite nelle scuole come errori e non come elementi propri di una nuova lingua che si stava formando: ne è prova lampante la lunga lista di parole "giuste" e "sbagliate" nota come Appendix Probi.

Di questi cambiamenti erano ben consapevoli i predicatori dell'epoca, che preferivano adattarsi alle novità linguistiche piuttosto che rischiare di non essere compresi dal popolo: nell'omelia sul salmo 138, contenente la parola os ('osso'), sant'Agostino osservò che alla parola del latino classico ne era ormai subentrata popolarmente un'altra, ossum, e concludeva: «Sic enim potius loquamur: melius est reprehendant nos grammatici, quam non intelligant populi» ("Diciamo allora così. È meglio che i grammatici ci redarguiscano piuttosto che le persone non capiscano").

                                        LE CORREZIONI DI UN MAESTRO DI SCUOLA
                                        Appendix Probi, ms. Vind. Lat. 1, c. 50v e 51r,
                                        Napoli, Biblioteca Nazionale "Vittorio Emanuele III"

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DALLA CRUSCA AI DIZIONARI INTERATTIVI


Accanto ai testi letterari e alle grammatiche, anche i dizionari sono stati uno strumento indispensabile per la formazione dell'italiano. Il primo vocabolario dell'italiano concepito secondo criteri lessicografici moderni, nonché il primo vocabolario di una lingua europea, è il Vocabolario della Crusca. Pubblicato nel 1612 dall'Accademia della Crusca, la più importante accademia letteraria italiana, il vocabolario ha una struttura assai diversa rispetto alle precedenti raccolte lessicografiche: mentre queste non sono molto più che glossari assemblati in modo parziale e occasionale, la compilazione del Vocabolario avviene attraverso un'ampia selezione di opere scritte da autori di "buona lingua", da cui vengono estratti e ordinati vocaboli e significati. A differenza dei vocabolari moderni, che si limitano a registrare la lingua d'uso, il Vocabolario propone dunque un'idea di lingua ben precisa.

In una situazione come quella dell'Italia di allora, priva di un centro unificatore della vita politica, sociale e culturale, non era possibile cercare i modelli di lingua nell'uso di una classe colta geograficamente e storicamente ben definita, come avveniva in altri paesi. Gli Accademici della Crusca si richiamano dunque al modello fiorentino del Trecento, secondo le indicazioni fornite da Pietro Bembo quasi un secolo prima, ma accolgono anche testi non letterari di quel secolo e alcune opere moderne, così da evidenziare la continuità tra la lingua toscana antica e quella contemporanea.

Questa scelta fu molto criticata, già all'epoca: Paolo Beni si lamenta che i cruscanti «intanto che lo stile e de' Cari e de' Tassi lor pute [puzza, dispiace]» (nella prima edizione della Crusca le opere di Annibal Caro e di Torquato Tasso erano state infatti ignorate) non si fanno però troppi scrupoli ad accogliere invece opere di bassa letteratura o nient'affatto letterarie, ma toscane e antiche. Il ruolo svolto dal Vocabolario nel diffondere un certo modello linguistico è tuttavia assolutamente decisivo, al punto che tutti gli scrittori dovranno confrontarsi con la Crusca, riedita più volte nel corso dei secoli successivi e divenuta un modello anche all'estero. Tra Sette e Ottocento, la lessicografia italiana diventa articolata e varia: sugli scaffali delle biblioteche erudite si allineano dizionari settoriali, dialettali, puristici e più moderni vocabolari generali. Oltre ad ampliare la porzione di lingua registrata (non più solo letteraria), i vocabolari italiani hanno via via raffinato anche la loro impostazione. Tra tutti spicca il ponderoso Dizionario della lingua italiana (1861-79) di Tommaseo e Bellini, dove si distingue tra documentazione storica e uso quotidiano, anche se talvolta la definizione non è ancora scientifica (il cane è definito ad esempio come «Quadrupede noto, il più familiare e il più intelligente degli animali domestici») e a tratti incline ad accogliere commenti personali del principale compilatore, impensabili in un dizionario moderno (alla voce procombere Tommaseo non perde l'occasione di lanciare uno strale contro Giacomo Leopardi: «Cadere dinnanzi o Cadere per, dal lat. pretto, l'adopra un verseggiatore moderno, che per la patria diceva di voler incontrare la morte: Procomberò. Non avend'egli dato saggio di saper neanco sostenere virilmente i dolori, la bravata appare non essere che rettorica pedanteria»).

È solo nel Novecento che il vocabolario diventa un oggetto di largo consumo, redatto secondo criteri oggettivi e scientifici e attento a registrare la lingua in tutti i suoi aspetti, trasformandosi via via col passare degli anni e con l'avanzamento tecnologico e la sua dematerializzazione in uno strumento dalla consultazione sempre più rapida, agevole e duttile.

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L'ITALIANO E I DIALETTI


Una delle caratteristiche più tipiche della realtà linguistica italiana è la grande varietà dei dialetti.

Naturalmente, tra un dialetto e l'altro non c'è un confine netto, ed è solo osservando somiglianze e differenze che riusciamo a riconoscere un certo dialetto o a raggruppare più dialetti in una famiglia.

Anche Dante Alighieri, finissimo osservatore della realtà, si era accorto di questa grande frammentazione e della parentela di molte parlate: «La sola Italia appare dunque differenziata in almeno quattordici volgari. Ora, anche questi volgari variano a loro volta (come, per esempio, i Senesi e gli Aretini in Toscana, i Ferraresi e i Piacentini in Lombardia); abbiamo inoltre notato che nella stessa città esiste un certo mutamento».

Per poter però distinguere con criteri scientifici i dialetti l'uno dall'altro e dividerli quindi in famiglie e sottofamiglie bisogna confrontare un dialetto a un altro e verificare innanzitutto la diversa evoluzione dei suoni derivati dalla comune radice linguistica, il latino. Esistono però anche differenze di vocabolario: tant'è che molto spesso, per indicare la stessa cosa, due dialetti anche molto vicini geograficamente usano parole diverse.

A causa di queste differenze ogni dialetto può risultare poco comprensibile per chi viene da un'area dialettale diversa; e naturalmente le difficoltà aumentano, di solito, se aumenta anche la distanza geografica (molti si ricorderanno della celebre scenetta di Totò e Peppino turisti a Milano).

Ogni parlata ha poi una tipica intonazione, che dal dialetto si trasmette in parte alla pronuncia dell'italiano. Così, anche chi non è uno specialista sa spesso riconoscere approssimativamente l'area di provenienza della persona con cui sta parlando.

Possiamo raccogliere i dialetti italiani in tre grandi famiglie: dialetti dell'area settentrionale; dialetti dell'area toscana e mediana; dialetti dell'area meridionale. I limiti di queste tre grandi aree spesso non coincidono con i confini politico-amministrativi o geografici (catene montuose, laghi, fiumi). I confini linguistici sono spesso zone scarsamente definite, che si estendono da pochi chilometri a qualche decina di chilometri. Un importante gruppo di confini linguistici si trova lungo la linea che congiunge idealmente le due città di mare La Spezia (a Nord-Ovest) e Rimini (a Est), che distingue i dialetti dell'area settentrionale da quelli dell'area mediana (cioè centrale, tenendo da parte la Toscana) e meridionale.

Un altro importante confine linguistico è quello che attraverso l'Italia collega Roma ad Ancona e separa i dialetti dell'area mediana da quelli dell'area meridionale.

All'interno dei confini geografici e politici italiani si trovano anche il ladino dolomitico, il friulano e il sardo che, per la loro indipendenza e autonomia storica, non possono essere considerati dialetti ma lingue vere e proprie, come l'italiano.

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MA CHE COS'È UNA LINGUA? E CHE COS'È UN DIALETTO?


La distinzione tra "dialetto" e "lingua" si basa su pochi elementi: rispetto alla "lingua", il "dialetto" ha una diffusione geografica più limitata, è escluso dagli usi istituzionali e intellettuali, ha un'importanza politica relativa e soprattutto un minore prestigio sociale.

In Italia, i dialetti cominciano a differenziarsi nel Cinquecento, quando il fiorentino si afferma come lingua letteraria comune. Da quel momento il fiorentino, che già dal Trecento era una parlata di prestigio grazie alle opere di Dante, Petrarca e Boccaccio, diventa definitivamente "lingua".

Tuttavia, i dialetti sono rimasti molto vitali e il loro rapporto con l'italiano è sempre stato particolarmente intenso. Ogni regione ha contribuito infatti in modo originale ad arricchire il vocabolario dell'italiano, soprattutto con parole riguardanti le sue attività sociali, culturali e commerciali più tipiche: ad esempio le arti, i mestieri e l'abbigliamento per l'area lombardo-veneta e l'attività marinaresca per Genova, per non parlare naturalmente dell'enogastronomia, che coinvolge tutta la penisola. In questo modo usi, costumi e prodotti locali sono stati conosciuti nel resto d'Italia e molto spesso anche all'estero, dimostrando la ricchezza culturale delle diverse tradizioni regionali.

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IL PNIMO FUMETTO DELLA STORIA DELL'ITALIANO

In una cappella sotterranea della basilica inferiore di San Clemente a Roma, a due passi dal Colosseo, è possibile ammirare un affresco della fine dell'XI secolo che raffigura la leggenda relativa alla cattura di san Clemente.

Si narra che un ricco pagano, Sisinnio, convinto che san Clemente avesse tentato di convertire la moglie al cristianesimo attraverso arti magiche, ordinò ai suoi servi Gosmari, Albertello e Carboncello di rapire il santo e di portarlo al martirio.

Durante il rapimento, però, avviene il miracolo: san Clemente si libera dalle corde e i servi si ritrovano a trascinare al suo posto una pesante colonna.

L'affresco rappresenta la storia proprio come in un moderno fumetto, con didascalie che animano la scena collocate vicino ai diversi personaggi: mentre le parole del santo sono in un latino approssimativo, disposte sotto gli archi centrali («Duritiam cordis vestris saxa traete meruistis» – "Per la durezza del vostro cuore, avete meritato di trascinare delle pietre" –, ammonisce il santo), quelle dei quattro personaggi pagani sono incitamenti in volgare, in un romanesco decisamente popolare: «Falite dereto colo palo Carvoncelle» ("Fagliti dietro con il palo, Carboncello"), «Albertel Gosmari tràite» ("Albertello, Gosmari, tirate"), e infine un'esortazione spazientita: «Fili dele pute tràite» ("Figli di puttana, tirate").

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DALLA VIVA VOCE DEL POPOLO


Strade, piazze, giardini, viali: gli spazi pubblici dei centri urbani sono da sempre destinati a essere occupati da cartelloni pubblicitari, manifesti propagandistici, locandine, avvisi, targhe. A queste scritture "ufficiali" fanno da controcanto quelle improvvisate, sorte in modo spontaneo per mano di persone desiderose di esprimersi pubblicamente, spesso con voce critica: è una scrittura "illegale"; tracciata con strumenti propri e impropri (inchiostro, carbone, lapis, gesso, ferri) su supporti altrettanto inadeguati: mura, pilastri, porte, finestre, pavimenti, libri...

Non si tratta certo di scritture nobili ed edificanti: proprio per questo, però, sono per noi interessanti. È il caso di un cartello diffamatorio scritto da uno sconosciuto e trovato il 28 luglio 1666 dal barbiere romano Giovanni Battista Fabrino sulla porta della sua bottega.

L'incertezza nella grafia dimostra la scarsa confidenza con la scrittura e la spontaneità del messaggio, decisamente colorito e vivace, che comincia così: «Martino beco saco de corne lasseme sta percè io te volio manà in galera» ("Martino becco, sacco di corna, lasciami stare, perché io ti voglio mandare in galera").

La protesta pubblica, veemente e improvvisata, tipica delle città moderne dal Cinquecento in avanti, si è acuita negli anni Sessanta e Settanta del Novecento, in concomitanza con l'attività dei movimenti di contestazione politica. Molte delle numerose scritte di quegli anni portano i segni di una lingua parlata ed espressiva, ricca di tratti regionali e soluzioni icastiche. Come nella scritta realizzata nel 1977 con una bomboletta spray a Bologna «Berlinguer scialodato» (cioè "sia lodato"), che riproducendo la pronuncia emiliano-romagnola usa il dialetto come lingua autentica della gente in opposizione all'italiano, lingua delle istituzioni e del potere.

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DALL'INVASIONE DELL'INGLESE AL VILLAGGIO GLObALE


Mentre fino a quel momento la lingua straniera dominante in Italia (e in Europa) era il francese, dal secondo dopoguerra in poi — in uno scenario internazionale profondamente mutato — saranno le parole inglesi a dilagare in italiano. Comincia allora un processo culturale per cui l' American way of life (con il suo portato di nomi, parole ed espressioni) invade un po' tutti i settori della vita quotidiana: dallo sport allo spettacolo e ai mezzi di comunicazione di massa, dalla moda alla pubblicità, dalle scienze alla tecnologia.

Ma la contemporaneità preme oltre i limiti fino a travalicarli: la globalizzazione porta con sé un'imponente circolazione di lingue e linguaggi, diffusa nel mondo quasi istantaneamente da mezzi di comunicazione di massa sempre più potenti. Al centro del "villaggio globale" rimangono gli Stati Uniti, e per questo le parole che hanno maggiore fortuna in Italia e altrove sono quelle di origine angloamericana; in molti casi parole-simbolo del tempo in cui viviamo (new economy, e-business, wireless, reality show).

Agli anglicismi si aggiungono però molte altre voci, provenienti da ogni parte del pianeta, che arrivano presso altre lingue e culture vicine e lontane, e vi sostano per qualche tempo, a volte senza lasciare traccia. È per questa via che sono giunti in italiano vocaboli provenienti ad esempio dal mondo arabo (kefiah, burka, ayatollah, intifada), dalla Russia (glasnost, perestrojka), dal Sud America (desaparecido, golpe, tupamaro).

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LA "NUOVA SCOPERTA DELL'AMERICA": VITTORINI E PAVESE


Negli anni Trenta, un gruppo di giovani intellettuali giunge a quella che si potrebbe chiamare una "nuova scoperta dell'America", promuovendo un rinnovato interesse per la letteratura statunitense e per i suoi temi, così diversi dallo stile di vita dell'Italia di allora.

Tra i primi a portare l'attenzione della cultura italiana sulle opere della nuova letteratura americana vi sono Carlo Linati, che pubblica il volume Scrittori anglo-americani d'oggi (1931), ed Emilio Cecchi, con la sua raccolta di saggi Scrittori inglesi e americani (1935).

Ma ad avvicinare la narrativa americana alla cultura italiana sono soprattutto Cesare Pavese ed Elio Vittorini , entusiasti traduttori di romanzi americani come Moby Dick di Melville, Luce d'agosto di Faulkner o Pian della Tortilla di Steinbeck.

Nel 1942 Vittorini allestisce, per l'editore Bompiani, l'antologia Americana; una collezione che intende offrire un panorama completo della letteratura americana, attraverso una selezione di racconti tradotti da scrittori italiani, fra cui gli stessi Vittorini e Pavese, Moravia, Montale e Piovene. La narrativa americana, con il suo stile secco e la sua sintassi scarna, influenzerà un importante filone della nostra narrativa, contribuendo all'evoluzione dell'italiano della prosa.

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LA GLOBALIZZAZIONE E L'ITALIANO


È noto che tra le lingue romanze l'italiano di oggi sia una di quelle più permeabili alla voce straniera. Non tanto in termini di quantità (tutte le lingue del mondo, in varia misura, sono esposte all'influsso dell'inglese globale), quanto in termini di qualità.

Innanzitutto, potremmo dire, di adattamento fonetico: un dato che può sorprendere, se si considera una tendenza storica del fiorentino (come ricordava e sosteneva Machiavelli nel Dialogo o discorso intorno alla nostra lingua, i nuovi vocaboli finivano col fare «una medesima consonanza con i vocaboli di quella lingua che trovano, e così diventano suoi; perché, altrimenti, le lingue parrebbono rappezzate e non tornerebbono bene. E così i vocaboli forestieri si convertono in fiorentini»).

La tendenza ad adattare le parole prese in prestito da altri sistemi linguistici fa sentire i suoi effetti fino alla metà del Novecento, quando era ancora comune italianizzare nomi di città (non solo Londra e Parigi, ma anche Nuova York, Ratisbona e Gotemburgo), nomi propri (Guglielmo Shakespeare, Giulio Verne) e addirittura i cognomi (Francesco Bacone).

Questa permeabilità potrebbe essere dovuta alla tardività dell'italiano come lingua parlata nazionale, che è divenuta tale solo nel corso del Novecento e non è stata in grado di assorbire in sé, per la rapidità del fenomeno e per la sua forza, i forestierismi pressanti dall'esterno.

La qualità è però anche e soprattutto scarsa resistenza all'accoglimento dei forestierismi, che appare tanto più preoccupante quando è riscontrata nelle istituzioni, forse perché nei tempi recenti alcune di queste si ritrovano sempre più esposte all'attenzione dell'opinione pubblica (question-time, welfare, jobs act, spending review), a differenza di strati profondi e sedimentati della lingua come quello giuridico e legislativo (dove ad esempio non è nota la voce stalking, pur frequente nei mass media).

In ogni caso, per stabilire se la quota di voci straniere entrate in italiano stia superando la soglia di guardia, sarà bene affidarsi ad indagini quantitative scientificamente accurate, e non al grado di anglicizzazione "percepita" che a volte allarma in modo ingiustificato gli utenti comuni: un parametro che spesso fa mettere l'accento più su tecnicismi o parole di moda (che vengono utilizzate nei mezzi di comunicazione di massa ma che non necessariamente hanno una prospettiva di lunga durata, come smart working).

Notevole l'influsso angloamericano sulle strutture profonde dell'italiano (per esempio in parole di formazione recente come lungodegente o aromaterapia, che risentono dell'ordine dei costituenti della lingua inglese). Va valutato infine se l'apporto di singole lingue straniere riguardi settori specialistici (come il caso dell'inglese nell'informatica o nell'economia) o entri invece nella vita di tutti i giorni.

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GIUDIZI E IMPRESSIONI SULL'ITALIANO


Un luogo comune circolante in Europa a quest'epoca vuole che l'italiano sia una lingua particolarmente adatta alla conversazione mondana ed elegante, alla seduzione e alla poesia. Gli stranieri la studiano soprattutto su libri di poesia e libretti di melodramma; giunti in Italia, un fenomeno come quello degli improvvisatori di poesia sembra fatto apposta per rafforzare quel luogo comune. Osserva Pierre-Augustin Guys, nel suo Voyage en Italie, 1776: «quest'eloquenza naturale, quest'abbondanza, questa fecondità che la lingua italiana asseconda così bene; infine questa vena poetica che sembra scorrere a comando, stupiscono tutti gli stranieri. È quello che più mi ha meravigliato in Italia».

Gli osservatori più attenti si accorgono che in Italia esiste una lingua letteraria distinta da quella parlata. Eppure, il gesuita spagnolo Lorenzo Hervás, nel 1784, ammette che «non ostante il gran divario fra il Toscano, ed i presenti dialetti volgari le prediche sacre, e gli ordini de' Superiori si fanno in Toscano, che da tutti suoi essere inteso». Anzi, secondo l'inglese Patrick Brydone, persino i montanari che vivono alle pendici dell'Etna e parlano di solito «nel loro gergo montanaro, che è incomprensibile persino agli italiani», sono capaci di parlare italiano per farsi capire (A Tour through Sicily and Malta, 1792).

Insomma: se non è parlato da tutti, il toscano – cioè l'italiano – è però compreso da tutti, se ne ha almeno quella che tecnicamente si chiama la "competenza passiva". Tanto che si può ritenere valida, per viaggiare in tutta Italia, «da Sesto Calende ad Agrigento», questa spiritosa ricetta linguistica esposta da Franz von Gaudy, nei suoi Quadretti italiani, scritti durante il suo viaggio in Italia tra il 1835 e 1838:

«È sufficiente conoscere tre espressioni: Sicuro!, Domandate troppo! e Aeh!, un' interiezione che è come una chiave maestra che va bene ad ogni serratura.

Chi non vuole o non sa rispondere ad una domanda, non ha che da mandar fuori dalla gola un Aeh! trillato e ondulante [...]. Se poi vorrà aggiungere a questa lista la parolina dunque, si potrà spacciare francamente per un compaesano».

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GIUDIZI E IMPRESSIONI SUI DIALETTI


La molteplicità dei dialetti desta, nei viaggiatori stranieri, grande curiosità e stimola le loro osservazioni, quasi sempre ispirate ad astratti criteri estetici e determinate da impressioni soggettive.

Critici i giudizi sul fiorentino, specialmente sulla gorgia: Stendhal lo paragona all'arabo e sulla stessa linea si trovano il poeta statunitense Henry Wadsworth Longfellow: «detesto il suono della pronuncia toscana» (1828); e Charles de Brosses, nelle Lettres familiéres écrites d'Italie en 1739 et 1740: «i fiorentini pronunciano in modo così spiacevole, non dalla gola, ma dallo stomaco, che ho dovuto faticare cento volte di più per capire loro che non i veneziani». Il genovese è considerato dallo storico inglese Edward Gibbon «il peggiore dialetto d'Italia»; il torinese è, per il commediografo spagnolo Leandro Fernández de Moratin, «un misto di toscano e francese» (Viaje de Italia) e per il letterato inglese William Hazlitt una «cattiva imitazione del francese» (1815).

Secondo Jacques-Augustin Galiffe, «il dialetto milanese non assomiglia a quello che noi chiamiamo italiano più di una qualsiasi altra lingua europea»; per George Byron, «la naiveté del dialetto veneziano è sempre piacevole in bocca a una donna», mentre per Moratín «è un toscano corrotto per la pronuncia, con alcune parole provinciali e un tonetto grazioso che è tipico del paese». Sul napoletano, le opinioni si dividono: per Charles de Brosses è «il più detestabile gergo di cui si abbia notizia dalla fondazione della torre di Babele»; per Galiffe, è preferibile ascoltarlo piuttosto che leggerlo: «il napoletano è molto più sgradevole all'occhio che all'orecchio».

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LATINO, LINGUE MODERNE ED EUROPEISMI


Il viaggio illustrato intrapreso con questo volume attraverso la storia dell'italiano non poteva non aprirsi con il latino. Giunti in epoca moderna e contemporanea, è ancora questa lingua a poterlo chiudere.

Il latino, estintosi come lingua naturale nel corso dell'alto Medioevo ma sopravvissuto come radice comune nelle moderne lingue neolatine, è ancora perfettamente in uso in tutti gli ambiti della comunicazione colta fino al Cinquecento inoltrato, a fianco dell'italiano e dei tanti volgari d'Italia. È questo il punto più alto della sua parabola. A poco a poco, questi spazi si riducono e il latino viene progressivamente emarginato e poi escluso: dalla comunicazione epistolare, dagli atti amministrativi, dai documenti giuridici, dalla riflessione scientifica, ed emblematicamente dalla grafia, dove molte scrizioni latineggianti (ph, pt, ct, x ecc.) vengono dismesse.

La seconda morte del latino è però anche una seconda rinascita, per giunta doppia: per il volgare e per il latino medesimo.

Quando Galilei , dopo il Sidereus nuncius, sceglie di passare al suo toscano nel Saggiatore e nel Dialogo sopra i massimi sistemi, si troverà a dire in questa lingua cose non dette prima. Il suo italiano toscaneggiante deve dunque potenziarsi: ecco che Galileo accoglie parole nuove (apogeo), accezioni nuove (disco), locuzioni nuove (aurora boreale), parole recuperate dal disuso e rilanciate (infrangibile). L'italiano comincia a consolidarsi anche come lingua della scienza.

Così avviene anche per molte altre lingue europee, e non solo neolatine: anche le lingue germaniche (inglese, tedesco, olandese, danese, svedese, islandese) e slave (russo, polacco, ceco, sloveno, slovacco, serbo-croato, bulgaro) tendono a convergere in epoca moderna verso un lessico intellettuale comune, a base greco-latina. È un fenomeno notevolissimo, avviatosi già con la cristianizzazione d'Europa nei secoli XII e XIII, che non sfuggì a un osservatore attento come Giacomo Leopardi. Quelle parole dell'«uso quotidiano di tutte le lingue, e degli scrittori e parlatori di tutta l'Europa colta» (Zibaldone, 26 giugno 1821) sono chiamate da lui europeismi. Vi appartengono voci relative alle scienze, alla filosofia, alla politica, al vivere civile e alla riflessione intellettuale in generale, che trovano corrispondenze e analogie da una lingua all'altra: analisi, sentimentale, fanatismo (italiano), analyse, sentimental, fanatisme (francese), analysis, sentimental, fanaticism (inglese), Analyse, sentimental, Fanatismus (tedesco), analiza, sentymentalny, fànatyzm (polacco), analízis, szentimentális, fanatizmus (ungherese).

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IL FUTURO DELL'ITALIANO NEL MONDO


I fasti della lingua italiana all'estero non vanno però confinati alle epoche passate. Benché l'italiano non abbia più l'antico prestigio culturale, è pur vero che non sono poche le persone sparse nel mondo che apprendono l'italiano non solo per ragioni strettamente pratiche e contingenti ma anche perché attratte dalla letteratura e dalla cultura che questa lingua veicola e rappresenta.

Come si è visto, ad oggi è indubbio l'interesse che lo studio della lingua italiana suscita nell'Europa occidentale o orientale, dove si ha un buon numero di studenti a livello intermedio e avanzato, e nei discendenti di terza o quarta generazione nei paesi tradizionalmente interessati dai flussi migratori, come gli Stati Uniti, il Canada, l'Australia, l'Argentina o il Brasile.

È un interesse che prende viva forma non solo nei tanti italianismi all'estero (da quelli più noti, come bravo, dolce vita, ai gastronimi di diffusione ormai internazionale, come espresso e pasta, a quelli, descritti in precedenza, appartenenti ai settori tradizionalmente appannaggio dell'italianità) ma anche, forse ancor più, nel fenomeno degli pseudoitalianismi: voci non autenticamente italiane che tuttavia rimandano in qualche modo a questa lingua, come i ben noti nomi di prodotti commerciali (Picanto, Volluto) o tuttifrutti e freddoccino, ma anche il più circoscritto alfresco 'luogo dove mangiare all'aperto in compagnia', evidentemente evocativi del modo di vivere italiano.

Continuerà l'esportazione dell'italiano? Impossibile fare previsioni: non possiamo sapere quanto potrà durare all'estero la diffusione dell'arte, del cinema, della musica, del prodotto italiano. Una parola come ciao, usata al punto che in finlandese, per esempio, ha creato anche dei diminutivi, potrà forse oscurare la persistenza di stereotipi duri a morire come il trio mafia, pizza, spaghetti. Sarà compito degli italiani proporre, per il futuro, nuovi modelli di riferimento.

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