Copertina
Autore Salvatore Settis
Titolo Italia S.p.A.
SottotitoloL'assalto al patrimonio culturale
EdizioneEinaudi, Torino, 2002, Gli struzzi 554 , pag. 152, dim. 115x195x14 mm , Isbn 978-88-06-16445-4
LettoreRenato di Stefano, 2002
Classe storia contemporanea d'Italia , arte , politica , paesi: Italia: 2000 , musei
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Indice

  3 I.    Talibani a Roma?
  7 II.   «Gioielli di famiglia»
 14 III.  L'Italia e gli altri
 21 IV.   Patrimonio culturale e società civile
 30 V.    L'arte, «petrolio d'Italia»
 41 VI.   Gli allarmati e gli increduli
 49 VII.  Innovare, non copiare
 58 VIII. Educazione all'arte, formazione dei
          quadri
 67 IX.   L'illusione dei beni digitali
 78 X.    Pubblico e privato, gestione e tutela
 91 XI.   L'impresa dei beni culturali
103 XII.  Le mosse della svendita: escalation
          del Privato
115 XIII. Lo Stato suicida: vendite e affitti
131 XIV.  Quel che bolle in pentola

150       Nota ai testi
 

 

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Pagina 3

I.

Talibani a Roma?


«I talibani di Roma»: con questo titolo durissimo il piú importante quotidiano tedesco, la «Frankfurter Allgemeine Zeitung», ha informato i suoi lettori della recente legge italiana che rende possibile l'alienazione del patrimonio dello Stato, ivi compreso il patrimonio culturale. Il sottotitolo non è meno eloquente: «Saldi di fine stagione. L'Italia sta per svendere i propri beni culturali». Prosegue l'articolista (Ute Diehl):

Pochi mesi fa, l'attuale ministro dei Beni culturali, Giuliano Urbani, ha provocato una sollevazione nel mondo dell'arte col suo piano di privatizzazione dei musei, da cui si ripromette cospicui introiti, date le enormi potenzialità dei tesori artistici d'Italia. Ora anche il ministro dell'Economia Tremonti ha riconosciuto queste potenzialità, e ha prodotto le nuove misure tese al veloce reperimento di entrate attraverso la vendita del patrimonio dello Stato, al fine di poter finanziare le infrastrutture promesse dal governo.

Dopo aver riassunto fedelmente i termini della questione, citando le reazioni di Italia Nostra e del Fai (Fondo Ambiente Italiano), l'articolo conclude:

Oggi l'eredità culturale dell'Italia è degradata a mero valore economico, a una risorsa di cui ci si può disfare a piacimento. Ma non c'è nulla che dia la misura dello stato di salute di una società quanto il rapporto che essa riesce ad avere coi propri monumenti e col proprio paesaggio.

Con un quadro cosí nero, si capisce che Urbani e Tremonti vengano assimilati (peraltro riprendendo una dichiarazione di Giulia Maria Crespi, presidente del Fai) ai talibani, accaniti distruttori dei giganteschi Buddha di Bamyian (III-V secolo d.C.) e di buona parte del patrimonio culturale dell'Afghanistan. Ma è davvero cosí? Davvero una cieca barbarie si è impossessata dei nostri ministri, davvero Urbani e Tremonti sono «i talibani di Roma», determinati alla distruzione del nostro patrimonio culturale? A sentir loro, al contrario, i beni culturali non solo non corrono alcun rischio, ma anzi verranno tanto piú valorizzati quanto piú a occuparsene saranno i privati e non lo Stato. E quando a manifestare preoccupazioni per la nuova legge non è un cittadino qualsiasi, ma il Presidente Ciampi, a cui nessuno nega ampiezza di visione istituzionale, alta competenza economica e profonda sensibilità culturale, tutti, da Urbani a Tremonti a Berlusconi, ripetono in coro che con la nuova legge «nulla è mutato» rispetto al patrimonio culturale.

Chi ha ragione? Non sarà forse che ogni scusa è buona per attaccare il governo in carica? Non avranno ragione Urbani e Tremonti quando dicono che i loro progetti di «passare la mano», nella gestione e perfino nella proprietà del patrimonio culturale, non sono nient'altro che la prosecuzione di indirizzi di governo inaugurati dal centro-sinistra? Insomma, chiediamocelo, chi protesta contro le recenti misure del governo Berlusconi in quest'ambito fa un discorso «di sinistra»? E chi attaccava misure, tutto sommato non tanto diverse, dei governi D'Alema e Amato, era forse «di destra»?

Per quel che mi riguarda, e dunque per il discorso che sarà qui svolto, questa domanda è irrilevante. Sono convinto che quella in favore del nostro patrimonio culturale non è una battaglia di destra né di sinistra (almeno, non di questa destra né di questa sinistra): è una battaglia di civiltà. Con questo libro, cercherò di dimostrare coi dati e coi fatti che è in gioco qualcosa di molto piú importante delle scaramucce fra partiti. Cercherò di mostrare che quello che intendiamo (che ogni cittadino italiano intende) come «patrimonio culturale» è il fulcro della nostra identità nazionale e della nostra memoria storica, e dunque il massimo contributo che possiamo portare alla costruzione di identità sovranazionali come quella europea. Cercherò di argomentare che la nozione di «patrimonio culturale» corrente nell'Occidente del mondo (e in porzioni crescenti del resto del pianeta) deve moltissimo alla cultura della conservazione sviluppatasi negli antichi Stati preunitari e poi nell'Italia unita; che la nostra cultura della conservazione è stata, e in certa misura è ancora, la piú ricca e avanzata del mondo, e che essa implica una forte, marcata, prioritaria attenzione dello Stato verso il patrimonio culturale, inteso come proprietà di tutti i cittadini. Tenterò di evidenziare che il sistema di gestione e di tutela italiano, fino a pochi decenni fa all'avanguardia, è stato progressivamente delegittimato e smantellato a opera degli stessi ministri a cui era affidato, e che negli ultimi anni i governi, fossero di centro-sinistra o di centro-destra, si sono industriati ad allargare la presenza dei privati a scapito della pubblica amministrazione, fino a prefigurare la totale alienabilità del patrimonio culturale. Proverò a chiedermi quali meccanismi di mutamento culturale (o forse antropologico) hanno governato questo movimento, apparentemente inesorabile, che porta i nostri ministri dei Beni culturali a comportarsi come i peggiori nemici del patrimonio che dovrebbero amministrare.

Si tratta, come spero risulterà evidente, di un profondo mutamento di cultura istituzionale e civile che ha coinvolto ministri «di destra» e «di sinistra», e in particolare gli ultimi tre (Veltroni, Melandri, Urbani), senza sostanziali soluzioni di continuità. Certo, il discorso è andato sempre piú radicalizzandosi, e Urbani (d'intesa con Tremonti) si è spinto molto piú in là di quanto avessero fatto i suoi predecessori. Ma avrebbe potuto farlo tanto facilmente, se i suoi predecessori non gli avessero ampiamente spianato la strada? In ogni caso, da storico, trovo questa continuità e questo sostanziale accordo fra destra e sinistra nello smantellare l'amministrazione dei beni culturali un fatto molto piú interessante da analizzare e da spiegare di quanto non possa esserlo ogni presa di partito per gli uni o per gli altri. Quello che si sta distruggendo, infatti, non è né il Colosseo né un castello valdostano, né il Parco degli Abruzzi né la piú piccola e splendida pieve toscana, ma un monumento ancor piú grande, ancor piú significativo (anche perché è la salvaguardia di tutti gli altri): la secolare cultura della conservazione messa a punto dagli Italiani per generazioni e generazioni, sul piano istituzionale e su quello della coscienza civile. Se è vero che la legge sull'alienabilità del patrimonio culturale e altre misure analoghe sono una specie di «bomba a orologeria», che eroderà piú o meno velocemente la nostra cultura della conservazione, e di conseguenza il nostro patrimonio, allora ha ragione la «Frankfurter Allgemeine»: i talibani, i distruttori della propria memoria storica, governano a Roma. Ma non sono solo Urbani e Tremonti: siamo tutti noi, se non riusciremo a provocare una riflessione istituzionale, un'inversione di tendenza.

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Pagina 10

[...] Quello del museo è per sua natura uno spazio artificiale, dedicato e separato, nel quale si entra per scelta, in cerca di oggetti specifici, «da museo» per l'appunto. Al contrario, la forza del «modello Italia» è tutta nella presenza diffusa, capillare, viva di un patrimonio solo in piccola parte conservato nei musei, e che incontriamo invece, anche senza volerlo e anche senza pensarci, nelle strade delle nostre città, nei palazzi in cui hanno sede abitazioni, scuole e uffici, nelle chiese aperte al culto; che fa tutt'uno con la nostra lingua, la nostra musica e letteratura, la nostra cultura. E se questa è l'Italia, non lo è per caso né per mero trascinamento inerziale, ma al contrario per una scelta consapevole (e sofferta) dei padri fondatori dell'Italia unita. Si discusse allora accanitamente se il nuovo Regno dovesse puntare su un modello incentrato sui musei didattici, come avrebbe voluto Giancarlo Conestabile (e dunque favorire lo spostamento di opere, per esempio, da Palermo a Torino), o invece privilegiare il radicarsi nel territorio di collezioni e opere secondo le loro sedimentazioni storiche. Fu in particolare Giuseppe Fiorelli, primo direttore generale alle Antichità e belle arti dell'Italia unita (dal 1875), a difendere vittoriosamente questo secondo modello, il solo - scriveva - conforme «all'indirizzo degli studi e ai bisogni della scienza», il solo adatto alla particolare densità del patrimonio archeologico e artistico sul territorio italiano.

Ma è proprio la diffusione capillare del patrimonio sul territorio nazionale e il suo comporsi in insieme coerente, frutto di una cultura istituzionale e civile che risale almeno all'unità politica del Paese, che fa il «carattere» dell'Italia e ne è il massimo fattore di attrazione. Se ne sono bene accorti gli osservatori non italiani: per citare solo un esempio illustre, Ernst Gombrich osservava, in un'intervista di pochi anni fa, che studiare storia dell'arte è piú importante per gli Italiani che per chiunque altro, perché in Italia il patrimonio artistico è presente in modo piú intenso e piú distribuito che altrove; perciò i migliori «guardiani» dell'eredità culturale italiana (continuava Gombrich) devono essere i cittadini, in particolare i piú giovani. Ma questa «funzione di custodia» può continuare nel tempo solo se i cittadini saranno animati dalla coscienza che la storia, la cultura, l'identità dell'Italia e delle piccole patrie che la compongono è intrisa profondamente, irreversibilmente della cultura figurativa che è concresciuta con la lingua, la letteratura, la musica, la storia, il paesaggio, l'immagine delle nostre cento città.

Perdere questa identità sarebbe rinunciare a una parte importante, anzi costitutiva, di noi stessi, di quello che gli Italiani sono, per esserlo diventati nel corso dei secoli. Contiguità e continuità sono qui le parole-chiave: quello che costituisce la nostra identità, la rete che ci avvolge e che ci identifica, è che il nostro patrimonio culturale sono le città nelle quali viviamo, le chiese in cui entriamo, le case e i palazzi in cui abitiamo o che visitiamo, le nostre coste e le nostre montagne. Il nostro patrimonio culturale non è un'entità estranea, calata da fuori, ma qualcosa che abbiamo creato nel tempo e con cui abbiamo convissuto per generazioni e generazioni, per secoli e secoli; non un gruzzolo nel salvadanaio, da spendere se occorre, ma la nostra memoria, la nostra anima. Ed è proprio questo tessuto connettivo che rende il patrimonio italiano nel suo complesso inestimabile anche sul fronte dell'immagine e della valorizzazione del Paese. Il nostro bene culturale piú prezioso è il contesto, il continuum fra i monumenti, le città, i cittadini; e del contesto fanno parte integrante non solo musei e monumenti, ma anche la cultura della conservazione che li ha fatti arrivare fino a noi.

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Pagina 21

IV.

Patrimonio culturale e società civile


Il «modello Italia» di gestione e tutela del patrimonio culturale ha dunque messo a punto nel corso dei secoli alcune caratteristiche essenziali. Riassumiamole:

1) La concezione del patrimonio culturale come un insieme organico (di opere, monumenti, musei, case, paesaggi, città) strettamente legato al territorio che lo ha generato.

2) L'idea che questo patrimonio nel suo complesso costituisce un elemento portante, irrinunciabile, della società civile e dell'identità civica, prima dei cittadini degli antichi Stati e poi dei cittadini italiani.

3) Di conseguenza, la centralità del patrimonio artistico nelle strategie di gestione dello Stato, e l'impegno dello Stato a proteggerlo o assicurandosene la proprietà o stabilendo norme di tutela applicatili anche a quanto resta in mani private.

Che cos'è, dunque, il «patrimonio culturale»? E come è nato il «modello Italia» a cui facciamo riferimento?

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Pagina 39

L'insistenza sul valore venale del patrimonio (a scapito dei suo significato istituzionale e civile) ha insomma prodotto nel tempo effetti perversi, opposti a quelli previsti all'inizio. Questa deriva graduale, questo progressivo allontanarsi dalla cultura istituzionale che tanto a lungo aveva governato il discorso politico sul patrimonio culturale, non ebbe né un autore né un regista, ma avvenne e avviene a pezzi e bocconi, un po' come capita, per sommatoria di provvedimenti staccati o per mancanza di iniziative in contrario. Ma essa ha finito col produrre un drammatico capovolgimento dei termini del problema: il valore venale del patrimonio culturale, anziché essere un argomento per attirare sulla sua gestione e tutela nuovi e maggiori investimenti, è diventato esso stesso qualcosa da investire per altri fini. I beni culturali, da patrimonio su cui investire, sono gradualmente diventati una risorsa da spremere e da sfruttare per altri scopi (per esempio, per ricavare denaro per nuove opere pubbliche). In questo senso, dagli ormai antichi «giacimenti culturali» del 1986 alle misure volute da Tremonti nel 2002 corre una linea di sviluppo ben riconoscibile. Si è in tal modo perpetuata e radicata la metafora stracciona dell'arte «petrolio d'Italia», degna solo di un Paese che davvero altre risorse non ha, è sull'orlo della bancarotta, ha il fiato corto, gratta il fondo della pentola, va in giro con le pezze sul sedere (infatti fu inventata negli anni lontani di un'Italia povera); e questo anche se al tempo stesso non si perde occasione di sbandierare che l'Italia è «il quinto Paese industriale del mondo», si esige un seggio permanente al Consiglio di sicurezza dell'Onu, si sostiene di trattare alla pari con Russia e Stati Uniti.

Come quella dei «gioielli di famiglia», anche la metafora dei «giacimenti culturali» si è rivoltata contro il proprio oggetto. Trasmette una visione dei beni culturali come una risorsa di per sé passiva, anziché viva e pulsante parte della storia e dell'identità nazionale; come qualcosa che (proprio come un giacimento petrolifero) va «sfruttato» e spremuto fino all'osso; come una «riserva» di cui prevale il valore monetario; che non è fatta di uomini e di idee, ma di oggetti, ognuno col suo cartellino del prezzo. La secolare stratificazione di valori civili, culturali, istituzionali che aveva fatto del patrimonio culturale uno dei pilastri portanti di ciò che è l'Italia e che sono gli Italiani rischia cosí di essere sacrificata sull'altare del denaro (anche se ministri e governi continuano a richiamarsi, a parole, ad alti ideali). Il valore venale brucia e disperde il valore simbolico e metaforico accumulatosi nella memoria e nella storia.

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Per ricordare solo un'altra differenza: i musei americani hanno, è vero, un'attiva politica di nuove acquisizioni, ma possono anche vendere le opere di loro proprietà. Per esempio nel 1972 il Metropolitan Museum, per comprare un prezioso vaso greco (il cratere di Eufronio) che era sul mercato per un milione di dollari, vendette la sua intera collezione numismatica; il Getty, dopo aver comprato in blocco una grande collezione di manoscritti medievali, ha deciso alcuni anni dopo di vendere tutti quelli senza miniature. Ci piace immaginare il Museo Nazionale Romano che vende tutte le sue monete per comprare, mettiamo, una statua «piú importante»? La Biblioteca Laurenziana che vende alcuni manoscritti non miniati per comprarne altri da Sotheby's? Ma le monete del Museo Nazionale Romano sono state trovate nel suolo stesso di Roma, i manoscritti della Laurenziana furono per secoli e secoli raccolti e studiati (e in parte scritti) nella stessa Firenze: se il sistema italiano ne vieta (almeno finora) la vendita o lo smembramento, non è per via di norme arcaiche e obsolete, ma perché le nostre collezioni sono riflesso immediato e deposito memoriale della nostra storia. Ma, sebbene queste differenze siano evidenti, l'ossessione del modello americano è tale che buona parte del discorso sulla «modernizzazione» del sistema italiano è puntato sui musei (anzi, sul museo-azienda), dimenticando il territorio in cui essi sono radicati (e le soprintendenze che vi hanno giurisdizione), col rischio gravissimo di spezzare il nesso museo-città-territorio che è il cuore della nostra cultura istituzionale e civile.

C'è un'altra differenza importante fra il nostro patrimonio e quello dei musei americani: la natura privata della grande maggioranza dei musei americani, e il fatto che essi si gestiscono contando sull'investimento di grandi capitali, frutto di donazioni per lo piú private. Questo è proprio il punto su cui si fa leva, da qualche anno in qua, per invocare forme di «privatizzazione» della gestione del patrimonio culturale in Italia: sarà dunque il caso di tornarci fra poco, quando discuteremo quelle proposte, con maggiori dettagli. Il fatto è che il richiamo al modello americano, o piú in generale a «quello che si fa all'estero», di per sé non è affatto negativo (confrontarsi con gli altri è sempre necessario per migliorare), ma fatto in modo superficiale e acritico finisce con l'oscurare del tutto il «modello Italia», quello che esso ha di specifico, di migliore degli altri, non solo da salvare ma da incrementare e da promuovere.

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Pagina 59

Ma qual è l'«unicità italiana» in questo campo? Possiamo indicarne due elementi, le due facce di una stessa medaglia. In primo luogo, la cultura della conservazione integrata e «territoriale», che concepisce come un tutto unico il paesaggio, le città, i villaggi, gli edifici, i quadri, i manoscritti, i musei. Ora, le evoluzioni dell'ultimo mezzo secolo mostrano senza dubbio che è proprio questo il modello vincente sul piano planetario, che si va gradualmente imponendo in ogni continente, a cominciare dall'Europa. Sarebbe dunque logico e lungimirante che l'unicità della tradizione nazionale italiana nella tutela pubblica dei beni culturali, proprio perché mirata non agli oggetti singoli ma al loro tessuto connettivo, diventasse l'asse portante della formazione degli «addetti ai lavori». Il secondo elemento di unicità (l'altra faccia della medaglia) potrebbe e dovrebbe essere la stretta intersezione fra enti pubblici di tutela e università per costruire un'offerta formativa italiana conforme alla nostra tradizione istituzionale e civile di conoscenza e di tutela del patrimonio. In questo campo, infatti, le conoscenze non sono mai fisse, richiedono una continua dialettica fra quello che «si deve sapere» e la ricerca viva e attiva, la quale non può che compiersi, sperimentalmente, sui monumenti e nei musei. Un tal percorso di formazione, un modello d'avanguardia esportabile in Europa e altrove, dovrebbe dunque esser messo a punto in strettissima cooperazione fra università, soprintendenze e musei. Sarebbe lecito aspettarsi un'evoluzione come questa, in un tempo di riforme dei ministeri e delle università.

È quello che sta accadendo? No. Il ministero dei Beni culturali ha alcune scuole di formazione, peraltro di altissima qualificazione (come l'Istituto Centrale per il Restauro, l'Opificio delle Pietre Dure, l'Istituto di Patologia del Libro), ma afflitte da scarsità di fondi, in grado di formare pochissime persone, e per giunta in un quadro istituzionale sempre piú incerto. Le università hanno intanto creato un gran numero di corsi di laurea in Beni culturali (non senza ulteriori, e spesso pretestuose, suddistinzioni interne), che si sono rivelati in genere un triste fallimento, degradandosi rapidamente a facoltà di Lettere «dimezzate».

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