Autore Giuliana Sgrena
Titolo Manifesto per la verità
SottotitoloDonne, guerre, migranti e altre notizie manipolate
Edizioneil Saggiatore, Milano, 2019, La Cultura 1276 , pag. 260, cop.fle., dim. 13,4x19x2 cm , Isbn 978-88-428-2607-1
LettoreFlo Bertelli, 2019
Classe media , femminismo , guerra-pace , paesi: Italia: 2010












 

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Indice


1.  Introduzione                                     11


    PARTE PRIMA

2.  Pornografia mediatica                            17

3.  La cultura dello stupro                          55

4.  Amore assassino                                  81


    PARTE SECONDA

5.  Guerre a colpi di fake news                     109

6.  Giornalismo hollywoodiano                       129

7.  Militarizzare il quarto potere                  155


    PARTE TERZA

8.  Migranti e altri zeri che non fanno numero      173

9.  Scienziati o ciarlatani?                        191

10. La morte dell'informazione ai tempi dei social  211


    Note                                            243


 

 

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Pagina 12

1. Introduzione


Le fake news sono sempre esistite? Si, anche se un tempo le si definiva in altri termini: bufale, pretesti, complotti ecc. Nella ricerca di bufale si può risalire fino ai tempi dei romani, anzi, secondo papa Francesco anche Eva è stata vittima di una fake news uscita dalla bocca del serpente, evidentemente ispirata dal diavolo. Un terreno scivoloso che potrebbe persino portare a una guerra di religione mediatica alimentata da integralisti, di cui già si avvertono i sintomi nell'islamofobia e nell'antisemitismo. Per ora la guerra mediatica - non solo nella versione digitale, ma anche con il supporto della carta stampata - ha altri obiettivi: si accanisce sul corpo delle donne e degli immigrati, bersagli privilegiati della propaganda sessista, misogina e razzista.

È stata l'irruzione delle nuove tecnologie e dei social network a potenziare la diffusione di fake news, che diventano virali e non temono smentite perché «una bugia fa in tempo a viaggiare in mezzo mondo mentre la verità si sta ancora mettendo le scarpe», come diceva Mark Twain. Un dato, questo, confermato dai ricercatori dei nostri giorni.

Internet avrebbe potuto essere una grande opportunità anche per il Sud del mondo, come lo sono stati i telefoni cellulari, che hanno consentito la comunicazione in luoghi dove non era mai arrivato il telefono fisso o in paesi devastati dalla guerra. I social sono anche serviti per eludere la censura: si sono rivelati, infatti, uno strumento indispensabile per la mobilitazione delle rivolte arabe e lo sono ancora oggi per quella algerina.

Mentre alcuni regimi autoritari cercano di impedire l'utilizzo dei social, ci sono politici che comunicano solo via Twitter - da Trump a Putin, da Salvini a Di Maio -, con pensieri espressi in 280 battute che suonano più come diktat che come messaggi e che sostituiscono qualsiasi approfondimento. I cinguettii servono anche per sostenere l'accusa, mossa ai media tradizionali, di diffondere solo false notizie, alle quali si contrapporrebbero «fatti alternativi» (Trump).

Purtroppo, se esistono le fake news vuol dire che esistono anche i lettori fake, quelli che non leggono giornali e si limitano a scorrere il titolo di un post, quanto basta per identificarsi con un like e per aderire a una posizione priva di dubbi: il pensiero unico con un clic. Un'identificazione che ti conferma nelle tue idee proteggendole con una bolla mediatica, al di fuori della quale c'è il diverso, il nemico da combattere. Così aumentano la barbarie e la violenza.

La vittima di questa guerra mediatica è la verità. E se la verità non è più verità, si mette in gioco la sopravvivenza della democrazia. Come diceva Albert Camus , «Là où le mensonge prolifère, la tyrannie s'annonce ou se perpétue» («Dove prolifera la menzogna, si annuncia o si perpetua la tirannia»).

La storia è piena di avvenimenti in cui le opinioni sono prevalse sui fatti.

Già alla fine dell'Ottocento Friedrich Nietzsche sosteneva che non esistono verità assolute ma solo relative, non esistono fatti ma solo interpretazioni - teorie che oggi vengono volgarmente tradotte con: «I fatti non esistono se sono in contrasto o smentiscono il mio modo di pensare e le mie idee; o, se inoppugnabili, sono frutto di un complotto ordito dal mio avversario politico». Nel XX secolo un ruolo rilevante nello smentire i fatti l'hanno avuto l'ideologia e le credenze religiose. Come racconta Harrison E. Salisbury in 1900 giorni. L'epopea dell'assedio di Leningrado, nei primi giorni dopo la fatidica alba del 22 giugno 1941 non ci fu verso di convincere Stalin che quella in corso non era una provocazione dei militari tedeschi contrari all'intesa tedesco-sovietica, bensì l'inizio dell'invasione nazista: il dittatore sovietico non poteva ammettere di aver sbagliato tutte le previsioni. Max Hastings in La guerra segreta. Spie, codici e guerriglieri. 1939-1945, scrive che spesso, fin da allora, venivano prese in considerazione soltanto le informazioni che confermavano il proprio punto di vista o la propria strategia militare; tant'è che gli informatori - che pure rischiavano la vita - per essere pagati e per compiacere i loro referenti preferivano autocensurarsi o raccontare quello che questi ultimi volevano sentirsi dire.

Non è molto diverso da quanto succede oggi. Lo abbiamo visto nella seconda guerra del Golfo: il pretesto per l'invasione dell'Iraq (la presenza di armi chimiche) era evidentemente un fake, una notizia che poteva essere smentita dai fatti (le testimonianze degli ispettori sul campo); ma è prevalsa l'autocensura, e non solo fra i giornalisti embedded che erano al seguito dell'esercito. La scoperta che Saddam non possedeva armi di distruzione di massa non ha suscitato clamore perché il fake aveva già prodotto l'effetto desiderato. Da allora la situazione è degenerata. È senz'altro complicato andare in zone di guerra per verificare i fatti; ma ormai non si sottopone a verifica nemmeno più quello che accade sotto casa: si riempiono i giornali di copia e incolla o di pseudoinformazioni ideologiche. Com'è possibile formare l'opinione pubblica senza una corretta informazione? C'è in gioco la democrazia.

Siamo entrati nell'era della postverità? Sicuramente in quella della postinformazione. Eppure l'unico modo per combattere le fake news e salvare i giornali è garantire un giornalismo di qualità, opzione che non viene tenuta in considerazione.

Il giornalismo sta morendo perché ci sono le fake news o le fake news proliferano perché il giornalismo sta morendo?

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La violenza maschile contro le donne negli ultimi mesi - forse addirittura anni - è finita al centro dell'attenzione, anche perché sono aumentate le denunce. Tuttavia sono ancora troppo poche, nonostante l'11,4 per cento delle donne italiane e il 17 per cento di quelle straniere abbiano denunciato di aver subito violenza nel 2014 (secondo i calcoli dell'Istat). Il dato allarmante - sempre fornito dall'Istat - è che una vittima italiana su tre ha dichiarato che il personale sanitario a cui si è rivolta ha quasi ignorato la violenza e solo a una su tre ha consigliato di sporgere denuncia, come è stato invece consigliato al 63 per cento delle straniere. Non si capisce se il motivo di questa condotta sia da ascrivere al fatto che le straniere non hanno una rete di protezione o al fatto che gli stranieri vengono ritenuti più pericolosi. Oppure, forse, si tratta «semplicemente» di tutelare la reputazione dei maschi italiani. Purtroppo, nonostante l'omertà diffusa, sempre secondo il rapporto dell'Istat per l'anno 2014, il 31,5 per cento delle donne ha subito una qualche forma di violenza fisica o sessuale, il 3 per cento ha subito uno stupro (652000 donne) e il 3,5 per cento (746000) un tentato stupro. Più dell'80 per cento degli stupri delle donne italiane è stato commesso da un italiano, mentre i colpevoli stranieri (che non vuol dire automaticamente migranti) sono il 15,1 per cento.

Per quanto riguarda il 2017, il 30 agosto il Viminale ha diffuso i dati relativi ai primi sette mesi dell'anno: 2333 i casi di violenza sessuale denunciati (2345 nello stesso periodo del 2016), ovvero undici stupri al giorno! Gli arresti hanno raggiunto 1534 italiani (contro i 1474 dell'anno prima) e 904 stranieri (contro 909).

Anche se sono coinvolti sia italiani che stranieri, «più che fare una differenza di cittadinanza direi che il problema è che sta passando un messaggio tremendo di impunità, perché gli stupri in Italia sono all'ordine del giorno» ha detto a Adnkronos la presidente di Telefono rosa, Gabriella Moscatelli.

«Siamo di fronte a una impressionante regressione culturale: la radice della violenza sulle donne, matrice di ogni violenza e discriminazione, emerge nuda e visibile a tutti» è invece la reazione contenuta in un comunicato di Di.Re, movimento che conta più di ottanta centri antiviolenza.

L'allarmante situazione non ha tuttavia prodotto una reazione valida a combattere la violenza contro le donne.

Per le istituzioni si tratta di un'emergenza che va affrontata con misure di ordine pubblico: militarizzazione delle strade, limitazione della libertà, soprattutto per le donne. Ma è anche l'occasione per alimentare una campagna xenofoba contro i migranti, i barbari invasori, come se la violenza - consumata in gran parte in famiglia - non fosse un male della nostra società, cui è per così dire connaturata una «cultura dello stupro». Usare lo stupro compiuto da stranieri come forma di propaganda arti-immigrati è sintomo di un cinico, perverso e pericoloso disprezzo per le donne vittime di violenza. Non è certamente cosa nuova la strumentalizzazione politica della violenza sulle donne, che è avvenuta, per esempio, negli Stati Uniti, durante lo scontro razziale tra bianchi e neri che doveva decidere chi dovesse avere il controllo sulla donna bianca.

Lo stupro è anche un'arma da guerra. La più subdola, perché mira a umiliare il nemico annientando una donna, spesso costringendola a mettere al mondo dei «bastardi». La donna «bottino di guerra» dagli antichi greci fino ai nostri giorni. «Lo stupro ha accompagnato le guerre di religione: cavalieri e pellegrini si abbandonarono a violenze carnali mentre marciavano verso Costantinopoli, durante la prima Crociata.» E ancora oggi lo Stato islamico ha fatto scempio del popolo yazida (e non solo) perpetrando un autentico genocidio e sequestrando e schiavizzando le donne, che venivano costrette a soddisfare gli appetiti sessuali dei loro aguzzini. I jihadisti dell'Isis hanno riesumato il termine sabaya (schiava di guerra).

Nadia Murad, vincitrice del premio Nobel per la pace 2018 insieme al ginecologo congolese Denis Mukwege, era diventata una sabaya. Entrambi sono impegnati nella lotta contro la violenza sessuale (Mukwege ha curato circa 50000 vittime di stupro nell'ospedale di Bukavu) e l'uso dello stupro come arma da guerra. Una scelta decisamente apprezzabile quella del Comitato svedese. Lo stupro di guerra è stato dichiarato crimine contro l'umanità da una risoluzione delle Nazioni Unite nel 2008, ma resta tuttora difficile da perseguire.

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Documentatissimo sullo stupro, anche di guerra, è il libro della giornalista femminista Susan Brownmiller, Contro la nostra volontà. Uomini, donne e violenza sessuale. Uscito nel 1975, è uno dei primi libri pubblicati sull'argomento (dai tempi dei babilonesi fino al Vietnam, questo testo, ma ce ne sono stati molti altri in seguito) ed è stata proprio l'autrice a introdurre il concetto di «cultura dello stupro». Brownmiller fornisce anche una precisa definizione della violenza carnale: «Se una donna preferisce non avere rapporti sessuali con un determinato uomo e l'uomo decide di agire contro la sua volontà, si ha un atto criminale di stupro».

Fino agli anni settanta parlare e soprattutto denunciare uno stupro non era affatto facile - del resto non lo è ancora oggi - e lo sforzo della giornalista era diretto proprio a demolire i pregiudizi e a cambiare le leggi.

Mentre gli uomini riuscirono a convincere se stessi e noi che le donne gridano allo stupro con facilità e con gioia, la realtà dello stupro è che le donne vittimizzate sono sempre state riluttanti a denunciare il crimine e a rivolgersi alla giustizia legale - per la vergogna di esporsi pubblicamente - per via di quel complesso doppio standard che fa sentire la donna colpevole, o addirittura responsabile, di un atto di aggressione compiuto contro di lei.

Per la giornalista lo stupro è un atto di potere che serve a controllare il comportamento della donna ed è stato fondamentale per l'affermazione del dominio patriarcale. Fin dai tempi più antichi. Brownmiller risale alla preistoria, alla differenza tra la pratica sessuale degli animali, limitata alla stagione degli amori, determinata biologicamente, e il comportamento degli esseri umani, nel cui ambito «un maschio umano può suscitare l'interesse sessuale di una femmina umana in qualsiasi momento ne avverta il desiderio, e l'impulso psicologico del maschio non dipende minimamente dalla buona disposizione o dalla ricettività della femmina. Tutto questo significa, in breve, che il maschio umano può violentare». E la possibilità di un atto forzato è bastata per determinare la creazione di «un'ideologia maschile dello stupro. [...] La penetrazione violenta dell'uomo nel corpo della donna, nonostante le proteste fisiche e la lotta di questa, diventò il veicolo della vittoriosa conquista della donna da parte dell'uomo, il definitivo banco di prova della sua forza superiore, il trionfo della sua virilità».

Ancora oggi convinta che lo «stupro non è altro che un processo consapevole di intimidazione attraverso il quale tutti gli uomini tengono tutte le donne in uno stato di paura», Susan Brownmiller lamenta che Contro la nostra volontà sarebbe potuto tornare attuale dopo le denunce di #MeToo, ma purtroppo così non è stato. Tuttavia, se anche le giovani femministe non sono interessate al parere di quelle più anziane, l'atteggiamento di Brownmiller, che non disdegna il movimento #MeToo, è tuttora in grado di impartire una valida lezione.

Ma sono soprattutto il nuovo libro pubblicato da Germaine Greer, On rape, e le sue affermazioni sullo stupro ad aver suscitato clamore. A partire dal chiarimento iniziale: «La parola stupro in questo saggio si riferisce unicamente alla penetrazione nella vagina di una femmina non consenziente di un pene di un maschio». Questo per «definire la categoria stupro». Discutibile. Naomi Wolf, la scrittrice statunitense che è stata violentata dal suo baby-sitter quando aveva sette anni, contesta: «Sono stata costretta a un rapporto orale la prima notte, e penetrata il giorno seguente. La prima notte conta? Posso assicurare a Greer che la prima notte non è stata meno drammatica del giorno dopo». Naomi Wolf è autrice di un altro libro controverso uscito nel settembre 2012 negli Stati Uniti con il titolo Vagina: A New Biography.

In vista dell'uscita del suo libro Germaine Greer, sicura di suscitare molta curiosità, non aveva risparmiato provocazioni. «Lo stupro è sicuramente una sfortuna, ma è come essere investiti da un autobus. Non bisogna interiorizzarlo e guardare tutta la vita da quel punto di vista» ha affermato la scrittrice aggiungendo di aver avuto una «maledetta sfortuna» nell'essere stata violentata da uno sconosciuto. Non si capisce perché, visto che considera «il sesso non consenziente con il partner peggio di un abuso». E azzarda un paragone tra lo stupro e la paura dei ragni pericolosi. Per Germaine Greer «le donne sono sempre incoraggiate a essere terribilmente spaventate e, quasi sempre, dalla cosa sbagliata».

Naturalmente, com'era da aspettarsi, le affermazioni provocatorie di Greer hanno scatenato una rivolta sul Web, uno strumento più adatto alle provocazioni rispetto al ponderoso volume di Brownmiller, precursore del dibattito odierno che vede la partecipazione anche di un'altra autrice statunitense, Alice Sebold, diventata famosa soprattutto per Amabili resti , dove racconta in modo originale lo stupro e l'assassinio di una ragazza, Susie. Questo best seller era stato preceduto da Lucky, il racconto dello stupro subito da Alice. Alice è stata «lucky», fortunata, come le aveva detto il poliziotto che aveva raccolto la sua denuncia, perché non era stata ammazzata. Lucky, uscito negli Stati Uniti nel 1999, racconta lo stupro subito da Alice Sebold nel 1981. A volte serve tempo per elaborare un trauma, prima di riuscire a parlarne. Così l'autrice spiega la motivazione che l'ha indotta a raccontare il suo dramma:

Indicare la parola è un punto di partenza irrinunciabile [...] perché [...] nella parola stupro c'è una minaccia di fondo. Morire o rimanere in vita dopo un simile evento è qualcosa che condiziona la pubblica opinione. Quando una donna viene assassinata, se è stata anche stuprata la sua fine diventa ancora più dolorosa, è come una doppia rapina. Se infatti nel comune sentire essere violate significa perdere la propria purezza, con la morte si espia quella perdita. Quando invece si sopravvive a qualcosa di così enorme non c'è un giudizio netto. Una ragazzina morta fa concentrare sul colpevole. Quando si sopravvive a un'aggressione c'è qualcosa che di contro fa attribuire la colpa ai vivi, che divide spesso ambiguamente questa colpa.


La colpa di sopravvivere, che in fondo sembra fornire una giustificazione all'affermazione «Te la sei andata a cercare». E questo non vale solo per lo stupro, ma anche per altri traumi, e si manifesta nella cosiddetta sindrome del sopravvissuto.

Può succedere che qualcuno, dopo un grande trauma, si senta più forte ma temo che perlopiù vi sia l'esigenza di raccontarlo a se stessi. Qualcun altro dice di essere contento che gli o le sia capitato perché altrimenti non sarebbe la persona che è. È un'affermazione comune tra i sopravvissuti. [...] E per molto tempo, l'ho ripetuta anch'io. Ma poi ho smesso, perché se avessi la possibilità di cancellare quanto mi è capitato lo farei senza indugio e in mancanza di una gomma che me lo consenta ho trovato, con grande fatica, una strada possibile solo nella scrittura.


In effetti la scrittura può essere terapeutica, dopo un trauma. Ma non abbastanza per Alice Sebold, che oltre allo stupro ha vissuto il trauma del riconoscimento del suo stupratore, il che non è stato facile. Lucky è stato ripubblicato nel 2017 con una prefazione aggiornata che contestualizza il fenomeno della violenza nella nuova situazione americana, dopo l'elezione a quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti di un «molestatore seriale nonché palpeggiatore di figa».

Le testimonianze attraverso la letteratura sono importanti perché raccontano, con le parole della vittima, come ha vissuto il dramma e come ha reagito, ma soprattutto perché le reazioni possono essere molto diverse. I media sono importanti per denunciare le violenze. Ma non sempre i media sono all'altezza della situazione, come abbiamo già riportato sopra.

Spesso si indugia eccessivamente nella descrizione della vittima, dei suoi comportamenti, del suo aspetto fisico, come se questo in qualche modo avesse a che vedere con la violenza; si finisce per colpevolizzarla come se non fosse il maschio a sfogare il suo senso di onnipotenza (o frustrazione) su una donna usata e umiliata. E questo avviene persino nel caso di donne di settant'anni.

Non sono solo i media a conferire un'importanza abnorme all'aspetto della vittima: la Corte d'appello di Ancona ha assolto due ragazzi nel processo di secondo grado per stupro perché la ragazza era troppo «mascolina» e a uno degli imputati «neppure piaceva», tanto che ne aveva registrato il numero di cellulare con il nominativo «Vikingo». Se è brutta non può essere stuprata è stata la conclusione delle tre magistrate, che evidentemente ignorano il fatto che chi commette una violenza punta a sottomettere e umiliare la donna, indipendentemente dall'eventuale attrazione fisica che proverebbe per lei. La sentenza, che è stata annullata in Cassazione, aveva suscitato, ovviamente, l'indignazione generale. Inoltre non è accettabile l'idea, molto diffusa anche tra le donne, che siano la maggior libertà e autonomia del sesso femminile a far sentire il maschio inadeguato e a innescarne, di conseguenza, le reazioni violente!

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Il mese di marzo 2019 ha visto le aule dei tribunali particolarmente indulgenti nei confronti degli autori di femminicidi: il 2 la Corte di Bologna ha quasi dimezzato la pena per l'assassino di Olga Matei perché l'uomo avrebbe agito in preda a «una tempesta emotiva». Il 13 a Genova l'uomo che aveva ucciso la sua compagna Jenny Angela Coello Reyes è stato condannato a sedici anni grazie al riconoscimento come circostanza attenuante del fatto che la donna lo aveva «illuso e disilluso» allo stesso tempo. Sentenze che hanno fatto parlare di un ritorno al «delitto d'onore» (abolito nel 1981).

Quando si parla di femminicidi - una strage infinita: una donna uccisa ogni sessanta ore -, l'attenzione è spesso rivolta più alle motivazioni del carnefice che alla vittima. Anche se la motivazione è sempre la stessa: il maschio non accetta che una donna - moglie, fidanzata, amante o ex (queste sono le categorie contemplate) - possa decidere di lasciarlo o semplicemente di respingere il suo corteggiamento. La donna è ancora considerata un oggetto di proprietà dell'uomo: padre, marito o fidanzato. Che però nelle descrizioni è sempre un bravo ragazzo, un uomo tranquillo. Finché non arriva ad accoltellare la moglie davanti ai figli, a sfigurarle il viso con l'acido, ad assassinarla o a rovinarle la vita. Fino a togliersi la vita lui stesso. Diventando così doppiamente vittima. La donna viene in genere definita dal suo status: moglie, fidanzata, ex moglie, amante, giovane, bella, «senza grilli per la testa»! Spesso si utilizzano fotografie caricate su Facebook, un social dal quale, dato che ci si pubblica quello che si vuole, non dovrebbe essere permesso scaricare indiscriminatamente del materiale allo scopo di pubblicarlo sui giornali. Naturalmente si scelgono quelle più a effetto. Un esempio: le fotografie di Maria Tanina Momilia, assassinata a Fiumicino l'8 ottobre 2018 dal suo personal trainer, pubblicate da tutti i giornali e mostrate in televisione. Immagini provocanti, quasi ad avvalorare le voci di una «relazione clandestina» tra la vittima e l'ex poliziotto. Tutto serve ad alimentare la morbosità del lettore, senza alcun rispetto per i figli, i parenti e il pubblico. Come se il fatto di essere una donna esuberante e piena di vita fosse una colpa. Sembra ancora prevalere una cultura bigotta che impedisce alle donne di essere libere. Mentre il maschio che ammazza è sempre in preda a un raptus, a un momento di follia, pazzo o accecato dalla gelosia. È un modo per sottrarsi alle responsabilità e soprattutto per ridurre la pena. Sconvolgente è l'assenza di pentimento anche negli assassini che hanno scontato la propria pena in carcere.

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7. Militarizzare il quarto potere


Markus Matzel, fotografo tedesco, era sulla torretta del primo carro armato americano entrato nella piazza Firdaus di Baghdad il 9 aprile 2003. Una posizione privilegiata per riprendere il completamento dell'occupazione della capitale irachena, compresa la photo opportunity dell'abbattimento della statua di Saddam.

Con le truppe americane sono arrivate in Iraq centinaia di giornalisti embedded. Scendevano dai mezzi militari in abiti color cachi ed era difficile distinguerli dai militari.

Si definiscono embedded i giornalisti aggregati o incorporati nell'esercito. Questa pratica è stata introdotta dal dipartimento della Difesa degli Stati Uniti durante la seconda guerra del Golfo (2003), in risposta alle critiche sulla scarsa possibilità di accesso per i giornalisti alle zone di guerra nella prima guerra del Golfo (1991) e all'inizio di quella in Afghanistan. I corrispondenti di guerra hanno operato spesso al seguito degli eserciti, mantenendo però, finché possibile, una relativa autonomia di movimento e di opinione. Poi gli Stati Uniti, convinti che i giornalisti con le loro cronache avessero contribuito alla sconfitta nel Vietnam, avevano chiuso ogni spazio. Con la guerra in Iraq il giornalismo embedded è stato «istituzionalizzato» ma sottoposto a regole «di ingaggio».

Come dicevo, i giornalisti embedded scendevano dai mezzi militari in abiti color cachi ed era difficile distinguerli dai militari. Il badge plastificato, Made in Us, era riservato a loro, noi ci siamo tenuti i nostri cartoncini gialli, l'accredito del ministero dell'Informazione iracheno.

Ma quando passavo i controlli americani, anche solo per attraversare piazza Firdaus, mi sentivo orgogliosa di mostrare quel cartoncino un po' sgualcito e guardato con disprezzo.

Si è sempre mantenuto un certo distacco tra noi giornalisti unilateral (come vengono definiti coloro che non sono embedded, chissà poi perché, dato che non sono certo loro quelli unilaterali) e i colleghi al seguito dei militari, quasi fossimo schierati su fronti opposti. E forse in qualche modo lo eravamo se, come afferma Danny Schechter in un'intervista a Znet Magazine del 23 novembre 2003, «Quello che una volta era chiamato il "quarto potere" è diventato il "quarto fronte"». L'atteggiamento era sicuramente diverso, era come se tra embedded e militari si fosse instaurato un certo cameratismo.

Quando è iniziata la guerra in Iraq il Pentagono ha deciso di permettere ai giornalisti di vivere, viaggiare e lavorare con i militari. Alcuni osservatori avevano espresso il timore che una simile prossimità con i militari avrebbe influito sull'obiettività dei giornalisti e in più c'era il problema della censura.

Per lavorare al seguito delle truppe - non solo americane - occorre superare un corso di addestramento, essere giudicati idonei, sottoscrivere un accordo che prevede anche la censura e/o l'autocensura. Sono infatti i militari a decidere che cosa può essere ripreso o raccontato. Certo, può essere un'esperienza, ma la realtà è vista da una sola prospettiva, quella militare. I giornalisti più onesti hanno aggiunto «embedded» alla firma dei loro articoli, lasciando intendere i condizionamenti a cui sono stati sottoposti, ma molti altri non l'hanno fatto e non lo fanno (e gli italiani sono tra questi). Penso che questo atteggiamento non sia corretto nei confronti del lettore.

A partire dalla guerra in Iraq l' embedding è stato istituzionalizzato, il che equivale alla «militarizzazione» dell'informazione.

I difensori dell' embedding motivano la loro scelta con la possibilità di raccontare da luoghi altrimenti inaccessibili, di trovarsi proprio sul campo di battaglia e di vedere meglio tutelata la propria sicurezza.

Questa è la posizione che, fra gli altri, Adrian Van Klaveren, capo della sezione notizie della Bbc, ha espresso in un articolo pubblicato il 25 marzo 2003, a guerra appena iniziata. Nel 2003 l'emittente britannica aveva sedici reporter embedded in Iraq. Paragonando le due guerre del Golfo, Van Klaveren sostiene che nel 1991 i giornalisti, trovandosi lontano dal teatro delle operazioni, non erano in grado di verificare le notizie fornite dai militari. «Per esempio, solo quando la guerra è finita abbiamo scoperto che le armi "intelligenti" erano una minima parte dell'arsenale degli alleati.»

Il problema per il giornalista è la sicurezza: nel 2003 era «troppo rischioso» entrare in Iraq. Van Klaveren dissente da coloro che sostenevano che, affidando la propria sicurezza ai militari, diventava difficile criticarli. «I team di giornalisti sul campo sono abbastanza professionali da mantenere l'indipendenza. Bisogna ammettere però che i giornalisti al seguito non potevano rivelare dettagli sui luoghi e nemmeno sui piani delle unità militari.»

In realtà la sicurezza non sempre è garantita dall'esercito, visto che alcuni giornalisti embedded sono stati uccisi. Il primo caso che ricordo è quello di Julio Anguita Parrado, spagnolo, del quotidiano El Mundo, e di Christian Liebig, tedesco, di Focus, colpiti durante un attacco iracheno il 7 aprile 2003, mentre si trovavano in un accampamento militare americano a sud di Baghdad. Un altro caso che aveva colpito, anche per la notorietà della reporter della Cbs coinvolta, Kimberly Dozier, rimasta gravemente ferita, era accaduto a Baghdad il 29 maggio 2006. Tra le circa cinquanta vittime dell'esplosione di un potente ordigno di fabbricazione artigianale, c'erano anche il cameraman Paul Douglas e il tecnico del suono James Brolan, entrambi con esperienze in diversi teatri di guerra. I tre giornalisti erano embedded nella quarta brigata della quarta divisione fanteria, condizione che non li aveva certo favoriti in quanto l'automobile che conteneva l'esplosivo era stata fatta saltare all'arrivo del convoglio militare in piazza Tahariyat, nella parte meridionale di Baghdad, dove la troupe voleva realizzare un reportage.

Tuttavia non c'è dubbio che solo i giornalisti embedded abbiano la possibilità di seguire attacchi militari in zone interdette ai civili. È successo con l'attacco più devastante mai sferrato dall'esercito degli Stati Uniti, nel novembre 2004, contro Falluja, la città dove era nata la resistenza contro l'occupazione americana. La zona era stata blindata dalle truppe statunitensi, nessuno poteva entrare, nemmeno gli iracheni. L'attacco è stato feroce: il simbolo della resistenza all'occupazione doveva essere annientato prima delle elezioni previste per gennaio 2005. E per farlo sono state usate anche armi al fosforo bianco. I militari dicevano che quella nuvola bianca che si sprigionava nell'aria era solo un illuminante. Perché non crederci, se quella era l'unica fonte di informazione?

Però sentendo i racconti dei profughi di Falluja, che avevano lasciato la loro città cosparsa di scheletri vestiti - il fosforo aggredisce i tessuti organici, arrivando a volte fino alle ossa -, era chiaro che si trattava di fosforo. Uno dei fuggiaschi mi aveva raccontato che, quando era tornato a casa sua con la moglie, aveva trovato l'intero appartamento ricoperto di una polverina bianca, che gli stessi militari lo avevano avvisato di rimuovere con uno speciale detersivo prima di tornare ad abitarci. Ma quando avevano cominciato a pulire, le mani sanguinavano come se le vene scoppiassero.

All'inizio il Pentagono aveva negato l'uso di armi di questo tipo ma poi la conferma è venuta dalle interviste rilasciate a RaiNews 24 e al manifesto da soldati americani impegnati sul campo di battaglia.

Di conseguenza, anche il Pentagono ha dovuto ammetterlo.

Eppure i giornalisti embedded non avevano visto, sentito, raccontato. E non solo quelli americani, ma anche l'inviato di una stimata emittente come la Bbc. Infatti Paul Wood, inviato embedded a Falluja per la Bbc, non ha dimostrato la professionalità e l'indipendenza di cui parlava Adrian Van Klaveren.

«Noi siamo vincolati a un giornalismo che si basa sulle prove. Non siamo stati in grado di stabilire se gli Stati Uniti hanno usato armi chimiche proibite e commesso altre atrocità contro i civili di Falluja lo scorso novembre. Inchieste sul campo effettuate allora e in seguito indicano che è improbabile che il loro utilizzo sia avvenuto» scriveva Helen Boaden, direttrice di Bbc News, in un'email inviata a Media Lens, il sito che si occupa di analisi dei media, il 13 luglio 2005. Anche dopo l'ammissione da parte del Pentagono di cui si è detto, Wood, rispondendo a Jeremy Paxman, conduttore del programma Newsnight della Bbc, si ostinava nel sostenere che «queste sostanze mortali erano sparate direttamente contro trincee piene di insorti» ma non venivano impiegate ai danni della popolazione civile. Nella stessa intervista Wood affermava: «Molti nei paesi arabi, alcuni qui [in Gran Bretagna], che hanno fatto campagna contro la guerra in Iraq, credono che a Falluja ci sia stato un massacro di civili. Io non ho trovato alcuna prova di questo. In estate, a Falluja, ho parlato con i medici dell'ospedale, che hanno minimizzato queste accuse». Eppure testimonianze su quanto era avvenuto ne sono state pubblicate. Irinnews.org, l'agenzia di informazione dell'Onu sulle questioni umanitarie aveva intervistato il dottor Rafa'ah al Iyssaue, direttore del maggiore ospedale di Falluja, che aveva raccontato che il suo team aveva recuperato circa settecento cadaveri tra le macerie di quelli che un tempo erano stati case e negozi. «È veramente doloroso scovare cadaveri tra le macerie delle case. [...] Più di 500 erano donne e bambini. Gli uomini erano pochi e la maggior parte vecchi.»

Ed erano solo i primi dati sulle vittime dei bombardamenti di Falluja, il bilancio si sarebbe aggravato fino a raggiungere le migliaia di morti, in seguito alla scoperta di fosse comuni.

[...]

Il 9 aprile, quando Baghdad è stata occupata (per alcuni), o liberata (per altri), anche i giornalisti si sono divisi. Arrivati a questo punto non c'è più spazio per la neutralità. La photo opportunity ha convinto i più, compresi coloro che hanno contribuito a fabbricarla. La «militarizzazione» ha vinto. Anche l'Italia si è adeguata: tra i corsi di formazione per giornalisti vi è anche quello per operatori embedded. Addestrare i giornalisti non solo a seguire i militari nelle loro attività ma anche ad accettare la censura militare è veramente paradossale. Dal 2002 fino all'inizio del 2017 i giornalisti embedded con l'esercito italiano erano 2305, la maggior parte in Afghanistan, a Herat, dove - mi ha raccontato una collega che vi era stata - era loro proibito uscire dalla base. Stando così le cose, non si può certo dire che abbiano visto l'Afghanistan.

Ai giornalisti che hanno partecipato a un corso di «addestramento» all'Aquila con il nono reggimento alpini della brigata alpina Taurinense nel giugno 2015 «è stato infine chiesto di realizzare un servizio su una pattuglia militare impegnata nell'incontro con il capo di un villaggio afghano per discutere la realizzazione di un progetto di assistenza: tutti i figuranti sono stati impersonati da militari del reggimento abruzzese, vestiti secondo gli usi locali e scelti per la loro conoscenza di lingue rare, in modo da testare anche l'uso corretto degli interpreti».

Mi ha ricordato quando, in Iraq, i militari della base di Nassiriya mostravano ai giornalisti sempre la stessa scuola che avevano ripristinato, con le stesse persone che lodavano l'operato degli italiani.

Con il giornalismo embedded la prima vittima è la verità.

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8. Migranti e altri zeri che non fanno numero


Quando si tratta di numeri gli zeri sembrano non contare: leggendo i giornali si trovano spesso milioni confusi con miliardi e viceversa. L'uso superficiale e disinvolto dei numeri è particolarmente grave quando si parla di vite umane, che sovente non hanno un viso né un nome.

Non parliamo poi delle tabelle, che invece di illustrare o completare un articolo - questo dovrebbe essere l'obiettivo -, riescono solamente ad aumentare la confusione del lettore, perché incomprensibili. Le cause: errori, disattenzione, scarsa dimestichezza con i numeri, ma perché ciò dovrebbe destare sorpresa in un paese come il nostro, dove non capire nulla di matematica è diventato motivo di vanto?

«Sparare» cifre è diventato un vizio diffuso, dovere del giornalista sarebbe quello di non limitarsi a registrarle, soprattutto quando sono fornite dai politici, il cui intento è chiaramente propagandistico, ma di verificarne l'esattezza.

Se si tratta di numeri è facile ingannare l'opinione pubblica poiché la percezione della gente è spesso lontana dalla realtà. Un tema su cui negli ultimi anni si sono dati i numeri (in tutti i sensi) è l'immigrazione. Oltre a essere stato uno dei punti centrali nella scorsa campagna elettorale, il problema dei migranti ha mantenuto la sua urgenza anche dopo la formazione del governo Conte (1° giugno 2018), dato che continua a essere la bandiera o, se si preferisce, la minaccia agitata dal ministro dell'Interno Matteo Salvini.

Il punto è che il messaggio che arriva all'opinione pubblica è spesso distorto a uso e consumo dei vari partiti. Ma quanto pesa questa distorsione nel caso italiano, soprattutto alla luce del confronto con gli altri paesi europei? Per rispondere a questo interrogativo, l'Istituto Cattaneo ha analizzato i dati forniti dall'Eurobarometro a proposito del numero di immigrati stimato dai cittadini in ciascuno degli Stati membri dell'Unione europea. La domanda rivolta agli intervistati era la seguente: «Per quanto ne sa, qual è la percentuale di immigrati (nati fuori dall'Ue) rispetto alla popolazione complessiva del suo paese?». Se tra i cittadini europei regna una confusione generalizzata che porta gli intervistati a ritenere che gli immigrati siano il 16,7 per cento invece dell'effettivo 7,2, sono tuttavia gli italiani a mostrare il maggiore distacco dalla realtà: il dato reale è pari al 7 per cento mentre quello percepito è del 25, che corrisponderebbe a 15 milioni di immigrati extra-Ue contro i 4 reali. Anche considerando gli immigrati irregolari (stimati in numero di circa 600 000), il dato reale sarebbe comunque di molto inferiore a quello rilevato negli altri paesi europei: Germania 8,8; Francia 8,9; Spagna 8,8 e Grecia 8,4 per cento.

Come si vede, non è l'Italia il paese con il maggior numero di immigrati dai paesi extra-Ue. Anche limitandoci all'ultimo anno i dati dimostrano il contrario di quanto è stato sostenuto dai nostri governanti. Gli arrivi dal Mediterraneo nel 2018 sono stati 116 294, ai quali vanno aggiunti 22 235 individui arrivati in Spagna via terra, per un totale di 138 529 persone. Il totale dei migranti è stato così suddiviso: 65 383 sono stati accolti in Spagna, 47 918 in Grecia, 23 370 in Italia, 1182 a Malta e 676 a Cipro.

Secondo l'Unhcr (Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati) i dispersi in mare sarebbero stati 2269, in aumento percentuale rispetto agli anni scorsi, mentre i morti durante la traversata del deserto per raggiungere la costa ammonterebbero probabilmente, stando alle stime Onu, al doppio del totale delle vittime del Mediterraneo. Non c'è da meravigliarsi vista la politica di totale boicottaggio delle navi delle Ong, e persino delle imbarcazioni della guardia costiera (la motonave Diciotti), impegnate nel salvataggio dei profughi nel Mediterraneo.

E poco si sa delle vittime del patto scellerato tra Italia e Libia per evitare ulteriori partenze. Esiste però il rapporto dei Medici per i diritti umani (Medu) che si basa su oltre 2600 testimonianze dirette di migranti transitati dalla Libia nell'arco di quattro anni (dal 2014 al 2017), più della metà delle quali sono state raccolte nel solo 2017.

L'Italia non può sostenere di essere il paese più «accogliente» dei profughi arrivati dal Mediterraneo, nemmeno considerando l'Ue nel suo insieme. Malta, che nel 2O18 ha accolto 2,5 profughi ogni 1000 abitanti contro gli 0,3 dell'Italia, ha fatto di gran lunga meglio di noi: infatti, è come se l'Italia avesse dato ospitalità a 155 000 migranti. L'unico primato che il nostro paese può legittimamente rivendicare, stabilito con la chiusura dei porti, è quello della mancanza di umanità e dello spregio del diritto internazionale.

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9. Scienziati o ciarlatani?


Se finora ho analizzato le responsabilità, le difficoltà e le reticenze del giornalismo nel presentare le notizie o nel cercare le verità in ambiti sociopolitici o di costume, ben più problematico e denso di conseguenze appare il rapporto tra il giornalismo e l'informazione medico-scientifica, poiché riguarda non tanto le opinioni ma la vita e la salute delle persone.

Nel nostro paese in particolare, a causa del perdurare di atteggiamenti di sospetto nei confronti del progresso scientifico che affondano le proprie radici nel passato, il contesto con cui ha a che fare la divulgazione scientifica, soprattutto in campo medico, è preoccupante: in questi anni assistiamo infatti a un crescente svilimento della ricerca scientifica e dei suoi risultati, accompagnato al ricorso sempre più diffuso a metodi di cura alternativi, come le terapie anticancro non verificate scientificamente.

Alla certezza dei dati sperimentali si sostituiscono spesso preconcetti privi di qualsivoglia ragionevolezza, che si esprimono come diritto alla speranza contro ogni evidenza, sostenuto da una diffusa diffidenza nei confronti della scienza che trae a sua volta alimento dalla più completa ignoranza del metodo scientifico.

E proprio per porre un freno a questa deriva antiscientifica uno dei principali compiti della stampa dovrebbe essere quello di informare il cittadino su come si realizza una scoperta scientifica, spiegando che le teorie sono ipotesi giustificate da dati empirici ottenuti a partire da esperimenti ripetibili, i cui risultati sono di conseguenza riproducibili. In questo modo, chiunque può verificare l'esattezza del procedimento e, in caso di esito negativo, contestare la validità dell'ipotesi. Ogni ipotesi scientifica, per essere tale, deve essere verificabile e quindi falsificabile. Solo le ipotesi che reggono alla prova della falsificazione entrano a far parte del patrimonio delle conoscenze scientifiche. E in campo medico si propone una terapia solo quando evidenze sperimentali rigorose ne hanno confermato l'efficacia.

Occorre tuttavia fare attenzione perché certe riviste, come racconta un'inchiesta di alcuni giornalisti del tedesco Süddeutsche Zeitung Magazin riportata da Internazionale del 21 settembre 2018 e intitolata «I predatori della scienza», pubblicano ormai qualsiasi studio pur di far soldi, accettando - a pagamento - articoli assolutamente privi di fondamento dal punto di vista scientifico.

Proprio nel mondo della scienza, che molti considerano uno degli ultimi bastioni della credibilità, si è fatta strada un'industria del raggiro. È un mercato milionario con un modello aziendale semplice: gestori di siti Internet si spacciano per rinomati editori scientifici convincendo i ricercatori a pubblicare sulle loro riviste e a frequentare le loro conferenze, per le quali si paga fino a duemila euro.


Il rispetto delle opinioni altrui è importante, ma occorre distinguere tra affermazioni legittimate da evidenze scientifiche e costruzioni ideologiche: se il 99 per cento degli esperti di un argomento scientifico sostiene una tesi e l'1 per cento no, non si può scrivere che la scienza è divisa, o invitare a un dibattito un esponente del 99 per cento favorevole e un esponente dell'1 per cento contrario, mettendoli in questo modo sullo stesso piano. L'idea del confronto tra opinioni diverse è giusta e produttiva, su questioni etiche, politiche ecc., ma non può funzionare altrettanto bene per argomenti di carattere scientifico provati e documentati, oppure per questioni che la civiltà e la storia hanno assodato da tempo - non si invitano un deportato e un negazionista a un confronto sulla storia del Novecento. Per esempio, chi nega il riscaldamento globale è spesso sicuro di dire la verità anche di fronte a evidenze scientifiche che vanno in senso opposto, visto che quello che conta sono le proprie convinzioni, la propria identità politica o religiosa impermeabile a ogni possibile smentita. Ecco perché è così difficile sconfiggere gli integralismi: troveranno sempre una buona ragione per giustificare una credenza smentita dai fatti.

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Il diffondersi in modo esponenziale di fake news ha indotto la Bbc a installare, il 7 novembre 2017, la statua di George Orwell di fronte alla propria sede centrale di Londra, dopo che, nel 2012, l'allora direttore, Mark Thompson, aveva respinto la proposta perché «Orwell era troppo di sinistra».

Orwell aveva lavorato alla Bbc come giornalista producendo programmi radiofonici durante la Seconda guerra mondiale. Evidentemente dovevano maturare i tempi prima che la frase dell'autore di 1984 incisa sul basamento della sua statua, «If liberty means anything at all it means the right to tell people what they do not want to hear» («Se libertà significa qualcosa, significa il diritto di dire alla gente ciò che non vuole ascoltare»), diventasse di straordinaria attualità.

Con acuta preveggenza Orwell aveva fatto una descrizione esatta degli effetti di Twitter scrivendo: «Ogni anno sempre meno parole e il raggio di consapevolezza sempre minore». Ma il maggior impulso al rilancio di 1984, che in soli quattro giorni negli Stati Uniti ha aumentato le vendite del 9500 per cento arrivando in testa alla classifica dei bestseller, si deve alla consigliera di Trump, Kellyanne Conway. Conway, per difendere le false affermazioni del portavoce del presidente, Sean Spicer, che aveva detto che la folla presente all'insediamento di Trump era senza precedenti, in un'intervista alla Nbc aveva definito la bufala «fatti alternativi». Era il 22 gennaio 2017, data che segnava l'inizio di una presidenza statunitense caratterizzata dalle fake news al potere.

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Ma non occorre andare in guerra per rischiare la vita, basta occuparsi di temi scottanti. Per le loro inchieste sono stati assassinati Daphne Caruana Galizia a Malta e Jàn Kuciok in Slovacchia, e in Italia ventun giornalisti sono costretti a vivere sotto scorta, per di più con la costante minaccia da parte del ministro degli Interni di esserne privati. Quest'ultima è stata agitata per esempio nel giugno 2018 nei confronti di Roberto Saviano, che vive sotto protezione dal 2006 per le minacce di morte ricevute dal clan dei Casalesi e che gode del sostegno di molti intellettuali a livello internazionale. Nel febbraio 2019 solo la mobilitazione di giornalisti e Federazione nazionale della stampa ha indotto Salvini a recedere dalla sua decisione di revocare la scorta a Sandro Ruotolo, anche lui minacciato dalla mafia.

Anche Oltreoceano, nel paese dove il Primo emendamento della Costituzione garantisce la libertà di parola e di stampa, i media sono diventati un obiettivo da colpire. «I giornalisti oggi devono affrontare una serie di nuovi rischi occupazionali: molestie persistenti, arresti di massa, e persino assassinii (nel 2018 sono stati sei i giornalisti uccisi). I quotidiani attacchi del presidente Trump contro i principali media considerati "nemici del popolo" incoraggiano la violenza contro le istituzioni della stampa» ha scritto Michelle Chen su The Nation.

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