Copertina
Autore Yaakov Shabtai
Titolo In Fine
EdizioneCargo, Napoli-Roma, 2010, Biblioteca 30 , pag. 318, cop.fle., dim. 13x20x1,7 cm , Isbn 978-88-6005-031-1
OriginaleSof davar
TraduttoreElena Loewenthal
LettoreElisabetta Cavalli, 2011
Classe narrativa israeliana
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Pagina 7

PRIMA PARTE



A quarantadue anni, poco dopo la festa delle Capanne, Meir fu colto dal terrore della morte a seguito della constatazione che essa era parte sostanziale della sua vita la quale, raggiunto il suo apogeo, era ormai in fase calante: la morte si stava rapidamente avvicinando lungo una linea retta e inevitabile, tale che la distanza fra loro due, che solo qualche giorno prima per non parlare dell'estate appena trascorsa gli era parsa come un sogno remoto – quasi infinita –, si era talmente ridotta da poterla agevolmente delimitare, calcolare con il metro della quotidianità, per esempio: quante paia di scarpe si sarebbe ancora comprato o quante volte sarebbe ancora andato al cinema, e con quante donne (senza contare sua moglie) sarebbe ancora andato a letto. Questa consapevolezza, che lo riempiva di sgomento e disperazione, era affiorata nel giro di una settimana dal monotono intruglio della sua vita normale, senza alcuna apparente ragione, come fosse una leggera, dapprima impercettibile fitta che, filtrata chissà come nei tessuti interni, s'era poi propagata e ingrossata sino a diventare una morsa tenace. E così, da quando si svegliava la mattina, ancora con gli occhi chiusi sotto le coperte accanto a sua moglie Aviva, fino a quando la notte non s'addormentava, a parte effimeri momenti di precario sollievo, non faceva altro che stendere il bilancio della propria vita e misurare la distanza che ancora lo separava da quella morte, che a volte si tratteggiava nella sua mente come un giorno di primavera inondato di luce in cui sua moglie, Posner e qualche altro amico – di solito entrava in scena all'improvviso anche quell'altro individuo – passeggiavano in fondo a via Dizengoff in sua assenza, un'assenza perenne, definitiva. Lui si vedeva come un contorno vuoto ritagliato a sua immagine fra di loro nell'aria, a volte anche come il cancello dipinto di rosso minio tutto impolverato e decorato con comuni motivi floreali, infisso nel muro di pietra di un cimitero che aveva visto nei pressi di Nazaret, quando alcuni anni prima verso la fine dell'inverno era andato con Gavrush a osservare gli uccelli, dopo aver di malavoglia ceduto alle sue poco convinte insistenze. Un sentiero dritto come un righello, coperto di ghiaia e di aghi di pino, cinto sui lati da filari di cipressi monumentali e di pini fruscianti nella brezza del giorno, conduceva al portone avvolto in un silenzio assoluto, intriso dell'aroma aspro e indimenticabile degli alberi e della terra umida di cui, insieme al monotono stormire degli alberi in cui esso s'incarnava, qualcosa sentiva a tratti ancora adesso, mentre era oziosamente disteso sulla morbida sabbia con Il triangolo delle Bermude in mano, gli occhi abulici rivolti verso il mare calmo e l'orizzonte e, di tanto in tanto, fingendo di guardare la spiaggia, lanciava speranzoso furtive occhiate alla ragazza lunga distesa non lontano da lui, che s'abbronzava esponendo il volto fisso contro il sole e, senza cambiare posizione, Meir rifletteva sui raggi del sole e sul modo in cui penetravano e dilagavano entro la sua cute, che da anni non esponeva, risvegliando e attivando pigmenti latenti. Percepì quel colore come un sottile strato di glassa calda, e sull'onda di quella sensazione – un alito di vento s'era ora levato dal mare e correva lungo la riva –, constatò immediatamente quanto stava bene lì sulla spiaggia, come aveva fatto bene a venirci, scrollandosi via l'oppressione e il terrore, sarebbe tornato spesso, sì, così decise, per mitigare quell'angoscia, che era tanto interna quanto epidermica, e sentirsi decisamente più in forma. Non aveva alcun dubbio, era il mare a determinare tutto ciò, per questo gli bastava osservare Posner, e immantinente gli venne voglia di essere tutto impregnato di benessere e ovviamente anche di abbronzatura, cose che tanto auspicava, così scostò lo sguardo per guardarsi e rimase deluso dal proprio fisico ancora ricoperto di un imbarazzante candore, niente più che leggermente arrossato, gli dispiaceva d'aver deciso solo ora di andare al mare, alle soglie dell'inverno e in fine stagione. Quel rimpianto lo attanagliava: se ne avesse avuto facoltà, avrebbe mandato indietro il corso del tempo, sino all'inizio dell'estate o magari all'autunno scorso, quando per la prima volta Posner l'aveva invitato ad andare al mare con lui, sì da recuperare quel che aveva perduto, e quanto avrebbe voluto, ora, in quel preciso istante, essere abbronzato come Posner, e intanto lanciò un'occhiata alla ragazza che prendeva la tintarella, era scura come pane fresco, e si disse che aveva ancora tutto davanti a sé, doveva imparare a considerare la vita come un dono, in fondo era nato ma avrebbe anche potuto non nascere, come tanti altri. E sorrise.

Il sole calò sull'orizzonte e nella calura estiva s'avvertirono i primi brividi della sera e la prossimità dell'autunno: Meir misurò ancora una volta a occhio la distanza che separava il sole dalla linea del mare, avrebbe tanto voluto che fosse già tramontato sì da permettergli di raccattare le proprie cose e andarsene, e si sforzò di apprezzare il contatto del corpo caldo e spossato con l'aria e il sole nonché la vista del mare e del sole e l'inazione più totale, il che gli costava lo sforzo maggiore. Invidiava la disinvoltura di Posner quasi quanto la sua tinta, e pensò che effettivamente, se fosse andato al mare ogni giorno e avesse giocato a tennis e bevuto birra e preso l'abitudine di andare spesso al cinema, proprio come Posner, sarebbe sfuggito all'angoscia di cui era prigioniero e che ora gli sembrava già meno opprimente, e così anche lui, proprio come Posner, avrebbe avuto una vita piacevole e spensierata, senza dubbi superflui, accompagnata da un benessere fisico e mentale estemporaneo e non vincolante, perché in fondo, per quel che riusciva a ricordare, ai tempi del liceo e del servizio militare e poi al kibbutz non era tanto diverso da Posner. Provava stima e anche invidia per la levità e il sarcasmo con cui Posner trattava i propri comportamenti per non dire la sua stessa vita, che riusciva in tal modo a rendere gradevole e frizzante e a dotare di una certa misura di onestà e arditezza, perciò lanciò uno sguardo più esplicito alla ragazza che prendeva il sole e per un istante valutò se attaccare discorso approfittando del fatto che si era girata per cambiare posizione, certamente così avrebbe fatto Posner, e invece lui non fece nulla, rimase immobile a guardare il mare scavando inavvertitamente con la mano nella sabbia in attesa del tramonto e poi leggiucchiando senza entusiasmo il suo libro, non senza soffermare ogni tanto lo sguardo sul mare che s'andava coprendo di un'ombra tenue e sul sole sempre più vicino alla linea dell'orizzonte, oltre la quale sarebbe scomparso. Allora, solo allora e non un istante prima di allora, si sarebbe alzato per andare a immergersi nel bagnasciuga, avrebbe messo via le sue cose e se ne sarebbe andato.

Lentamente, con un moto quasi impercettibile, il sole glissò fin sul pelo dell'acqua poi s'immerse e affondò e scomparve, lasciandosi dietro una luminescenza ramata che tinse l'acqua e fremette nell'atmosfera e Meir rimase disteso su un fianco seguendo immobile il sole che tramontava e la luce ramata che illividiva scomparendo nell'ombra, inondando il mare e la spiaggia che s'era spopolata senza dargli modo di rendersene conto, e allora si sentì invaso da un senso di sollievo e appagamento, quasi avesse ottemperato a un compito fondamentale e si fosse tolto un peso. Un alito freddo giungeva in leggere folate dal mare, ne increspava la superficie e spazzava via i residui dell'afa, tuttavia Meir rimase disteso a frugare distrattamente nella sabbia, lo sguardo inespressivo fisso sulla ragazza abbronzata, la quale si alzò e con grave lentezza radunò le proprie cose prima di andarsene, e per un istante a lui venne voglia di attaccare discorso o quanto meno fare qualcosa, tossire o alzarsi per attirare l'attenzione di lei e ritardarne la partenza, e invece all'ultimo si trattenne, bloccato da un certo dolore, e rimase a contemplare impassibile il mare e la spiaggia immersi nell'ombra, un poco di luce opaca e lattiginosa ancora depositata sui lembi del cielo, e una quiete indicibilmente soave avvolse tutto, un languore traboccante di felicità, facendogli tanto desiderare che ci fosse Posner, e anche Aviva. Ora sapeva con certezza di essere guarito dalle proprie angosce, o se non altro di essere in via di guarigione, di trovarsi di fronte a un nuovo corso della propria vita per cui tutto dipendeva da lui e dalla sua disponibilità a imboccare questo cammino, tanto era assoluta e intima la sensazione di pace e sollievo, al punto da sentirsi pronto a un bilancio non solo con la morte ma anche con la storia di quell'individuo, perciò depose il libro sopra il mucchio dei vestiti e si trattenne ancora un po', aveva in qualche modo bisogno di restare fino all'ultimo e anche oltre, e poi, dopo un certo tempo, si alzò e si scrollò via la sabbia di dosso, il mare ora sembrava un deserto interminabile del colore del piombo rappreso, e con passo lento entrò nell'acqua sempre più scura e vi rimase dentro per un po', poi uscì, s'asciugò e raccolte le proprie cose attraversò la spiaggia deserta e s'incamminò verso via Frischmann. Percorrendola, attraversò via Sirkin e costeggiò la scuola, e intanto pensò se fosse il caso di proseguire fin da Posner a bere una birra sul suo balcone, se non che qualcosa lo costringeva a tornare a casa, perciò voltò e attraversò lo slargo con i folti alberi di ficus pieni di uccelli cinguettanti, e salì a casa, dove non c'era nessuno, sul tavolo da pranzo trovò un biglietto lasciatogli da Aviva, in cui si diceva che il figlio era andato al cinema con amici mentre lei era a fare spese e a lezione di ginnastica, così a Meir si guastò subito l'umore, cercò ancora di distrarsi, in fondo era appena tornato fresco e rilassato dal mare, e senza accendere la luce chiuse la grande finestra che lasciava entrare un vento freddo e andò in camera da letto a prendere i vestiti, poi si fece una doccia. Mentre era sotto l'acqua, gustando il proprio corpo esposto al sole e sfibrato dal mare, si ripromise di dare subito un colpo di telefono a Drora, per autoinvitarsi da lei. Era una single che lavorava nel loro studio da qualche mese come disegnatrice, sembrava emancipata e vispa, e sin dal primo giorno l'aveva corteggiata con assidua discrezione, con battutine, sorrisi, manifestazioni di affettuosa intimità, a volte le comprava un panino o le portava il caffè quando lo prendeva per sé, tuttavia uscito dalla doccia decise di farsi un caffè prima di chiamare Drora, e mentre sedeva sul balcone a bere sfogliando Il triangolo delle Bermude che gli aveva imprestato Posner, lo colse di nuovo la dolorosa inquietudine che fino a quel momento era riuscito a tenere lontana, in fondo era tutto un parto della sua distorta immaginazione. Quando ebbe terminato il caffè posò il libro sullo scaffale accanto al letto, lavò la tazza e uscì di casa, imboccò via Bugrashov, proseguì lungo viale Ben Zion finché giunse in piazza Ha-Bima dove si fermò un istante indeciso sul da farsi, infine attraversò la strada diretto a un telefono pubblico e fece per comporre il numero di Drora, se non che giunto all'ultima cifra tenne a lungo il dito sospeso nella cavità del quadrante e poi lasciò perdere, riagganciò frettolosamente la cornetta e decise di andare a bere una birra in balcone con Posner o magari da solo in uno dei locali aperti da poco nei quartieri nord della città, e ancora vagando senza una meta precisa si ritrovò a sbucare nella piazza di fronte all'Auditorio.

A quell'ora il luogo pareva deserto, poche e sparute macchine erano parcheggiate qua e là e mentre percorreva la piazza in direzione di viale Rothschild, Meir notò una coppia intenta a parlare dentro una macchina, date la sua prospettiva e l'oscurità non poteva fare altro che indovinarne le fattezze, ma aveva l'impressione che fossero seduti l'uno di faccia all'altro e che la mano dell'uomo fosse posata sullo schienale del sedile accanto, così senza volerlo rallentò il passo e li osservò, poi, allontanandosi un poco, come in preda a un istinto perverso fece marcia indietro, di lì non si vedevano altro che due ombre scure e una macchina avvolta nel buio, che gli parve piuttosto angusta, e la mancanza di spazio unita al disagio accrebbe la sua angoscia, avrebbe dovuto trattarsi di una macchina di lusso, di questo non aveva dubbi. L'angoscia e l'abbattimento lo fecero di nuovo star male, non c'era modo di capire come mai e perché gli era successo, poi si voltò e riprese a camminare come se nulla fosse, ingiungendosi quasi ad alta voce di lasciar perdere, in fondo la cosa era irrimediabile, e comunque non rimediabile nel modo che avrebbe desiderato, e il dolore e l'abbattimento cui sembrava tanto affezionato non erano altro che il frutto di sollecitudini e vizi infantili, mentre sarebbe stato meglio godere della vita fintanto che era possibile e apprezzare il fatto di essere in buona salute, di avere un lavoro interessante e gratificante e anche quella gradevole sera che era davvero gradevole, poiché la sua dolcezza si univa a quella che avvolgeva la strada, e così grazie alle cose che si era detto con tale convincente slancio, sentì dissolversi il dolore e l'abbattimento e si colmò d'allegria. Lo colse allora un profondo, esaltante senso di simpatia nei confronti di Aviva, persino di ammirazione per il coraggio e l'indipendenza che aveva dimostrato, benché tutto ciò lo addolorasse talmente o forse invece proprio per questa ragione, se non che nel preciso momento in cui, avvinto da quell'eccitazione contemplativa, riusciva a debellare l'angoscia che lo tormentava, a creare un'intimità nuova e più profonda e con ciò anche a redimere se stesso, in quel momento sentì che s'insinuava la paura di constatare che anche questo risultato era provvisorio, destinato a venir meno nel giro di qualche tempo, gli era capitato più volte in quegli ultimi mesi, ed effettivamente quando giunse in via Ibn Gabirol, dove trovò un gran traffico di macchine e di gente indaffarata, si sentì di nuovo prendere dall'angoscia e dal disorientamento ormai tanto familiari, e gli venne voglia di fare anche lui quella stessa cosa in quel momento e se possibile nello stesso modo, così decise di chiamare immediatamente Drora. In piazza Ha-Iriya si diresse a una cabina telefonica e fece di nuovo il numero di Drora, e appena dichiaratosi avvertì un grande imbarazzo e cercò di assumere un tono scherzoso, disse che sperava di non disturbare, ma quel tono complimentoso era un equivoco, in realtà aveva in mente di usarne uno affatto diverso, e Drora disse «No, no. Non fa nulla», aveva sperato di coglierla più alla sprovvista e più disponibile, perciò esitò un momento e le chiese come stava e Drora, che gli parve indifferente e comunque non entusiasta come auspicava, disse «Se ci tieni a saperlo, beh così così», allora lui le chiese cosa voleva dire, e Drora rispose «Penso di essere un po' malandata», e Meir continuò: «È la stagione. Tutti sono malati. Cos'hai?» e Drora rispose «Qualcosa alla gola, e come un peso, e gli occhi un po' infiammati». Meir disse «Ti sei fatta vedere da un medico?» e Drora rispose «Ancora no. Non è una cosa grave», allora Meir, che sperava ancora in un segnale di disponibilità ma dentro di sé stava già cercando una scusa per tirarsi indietro, disse «Non devi trascurarti. Può sorgere ogni genere di complicazioni. Innanzitutto prenditi due aspirine», e Drora disse «Non prendo mai pillole», e Meir disse «E brava», e con lo stesso tono ironico le chiese se per caso era vegetariana, e Drora ghignò ma senza il minimo trasporto, e disse «No, per il momento no. È solo così». A Meir parve di riscontrare nella sua voce una nota non solo di stanchezza ma anche di ritrosia, e disponendosi alla ritirata, mentre parlava di problemi di salute, spinto da una oscura pulsione le chiese se poteva andarla a trovare, al che Drora rispose «Se vuoi, vieni pure. Ma temo di non riuscire a essere molto brillante, oggi», allora, sentitosi in trappola, Meir balbettò qualcosa e alla fine disse «Non vorrei impormi, dato il tuo stato. Rimandiamo a un'altra volta», ora si era proprio pentito di averle telefonato, agganciò la cornetta e attraversò la piazza. Una sgradevole pesantezza s'impadronì del suo corpo, forse era il freddo dell'aria, ora voleva soltanto essere lontano da tutto ciò, procedette lungo il muro del giardino zoologico, che mandava tanfo d'animali, e proseguì per le strade in preda a un invasivo senso di scontento e frustrazione per non essere stato più prepotente, magari anche volgare, quanto avrebbe desiderato quel tipo di brutalità che considerava indice di energia, non aveva il minimo dubbio sul fatto che quell'individuo ne fosse dotato, e fece del suo meglio per rimuoverlo dai propri pensieri solo che costui ci s'infilava dentro, intanto attraversò via Dizengoff e imboccò via Emile Zola. A quel punto, camminando adagio lungo la via buia, quelle strade così familiari avevano un che di sedativo e confortante, a quel punto nutrì di nuovo la certezza che se avesse voltato in via Dov Hoz e attraversato via Gordon, all'angolo con via Smolenskin sarebbe comparsa sua nonna con le pantofole di panno marrone, la vestaglia grigia e lo scialle scuro di lana sulle spalle, gli sarebbe venuta incontro sfoderando sull'amabile faccione un sorriso raggiante pieno di saggezza e benevolenza, e d'un tratto, contemporaneamente se non addirittura prima di quel moto mentale, avvertì il contatto del viso di lei quando lui la abbracciava e la baciava, e di quelle sue mani larghe da falegname e quel suo profumo particolare, maschile, che avvolgeva il suo corpo e la sua stanza tanto da essere una cosa sola con la persona, e in quella stessa frazione di pensiero vide anche un lussureggiante cielo blu, un bel cielo di primavera o d'autunno che si stendeva sopra il terrazzino dov'erano seduti, lui per terra e lei su una sdraio, durante il bombardamento italiano, e i folti cipressi e il fico e l'erba verde intenso in giardino, e senza affrettare il passo, in preda a una lacerante felicità come se tutto ciò fosse avvenuto e poi tornato allo stato primigenio e positivo prima che lei morisse, imboccò via Dov Hoz, attraversò via Gordon e proseguì diretto a casa dei suoi genitori.

Sua madre gli aprì la porta con un sorriso enigmatico stampato in faccia, ultimamente era pallida e sulla sua aria giovanile era calata come un'ombra greve di stanchezza e rinuncia; disse «Sapevo che eri tu, ti ho riconosciuto dal passo», e Meir disse «Ho fatto un salto per vedere come stavate», ed entrò nella grande stanza dove suo padre stava guardando la televisione. Disse «Ciao papà», ma suo padre, che non si era accorto di lui, non reagì, il volume della televisione era altissimo, allora Meir si avvicinò al padre e ripeté «Ciao papà». Suo padre si scosse quasi fosse stato svegliato di soprassalto, e un sorriso affettuoso per quanto inerme – come coperto di ragnatele – marcò il suo viso stanco. Disse «Non ti ho sentito arrivare. Hai fatto bene a venire. Come stai?» e Meir rispose «Non c'è male», e fermo dov'era lanciò un'occhiata al giornale posato sul divano, allora suo padre, senza più un'ombra di sorriso sul viso stanco, domandò «Come stanno Aviva e i bambini?» e Meir rispose «Tutti bene», poi girò con aria indifferente il giornale, mentre il padre tornava alla sua televisione, aggiungendo: «Hai fatto bene a venire. Va' dalla mamma, che ti dà qualcosa da mangiare», ma Meir restò ancora un momento a guardare il giornale e solo allora si diresse verso la cucina, dove la mamma stava scrivendo una lettera a suo fratello che viveva a Toronto e aveva poi in mente di scrivere a sua figlia che abitava a Boston e di rispondere finalmente al questionario sulle ascendenze genealogiche che stava lì già da un mese ed era stato spedito da un ebreo di Houston, Texas, ma quando Meir arrivò, radunò la posta aerea e i fogli del questionario, relegò tutto in fondo al tavolo e gli domandò come stava e se voleva mangiare qualcosa. Aveva atteso con ansia la sera e non desiderava altro che starsene per conto proprio nella linda e tranquilla cucina, perciò s'era tanto augurata che non arrivasse nessuno che, anche soltanto con la sua presenza, la privasse di quel briciolo di pace e fragile libertà appese a un filo, se l'era meritato, in fondo, dopo una sfiancante giornata fatta di corse e interminabili commissioni, e ora che la casa si era svuotata e tutto taceva non le dispiaceva affatto l'idea di dedicarsi a quest'altro dovere, quello di scrivere le lettere, ultima incombenza del giorno, che le pesava sino alla disperazione, al pari di tutte le altre faccende di casa e dei doveri che impone la vita, che comunque eseguiva con una dedizione incommensurabile e uno zelo instancabile, solo che ora cercava di non tradire con alcun gesto o espressione questo suo desiderio e Meir, seduto al suo solito posto, lo stesso di quando era bambino, disse «No, no. Nulla. Lascia stare». Lo disse con enfasi ma senza convinzione, e sua madre a sua volta replicò «Mi è rimasto qualche boccone di pesce ripieno del sabato. Assaggialo», e con un movimento meccanico pulì la superficie del tavolo e Meir disse «No, no. Sta' seduta», ma sua madre gli aveva già messo davanti piatto, coltello e forchetta e stava tirando fuori dal frigorifero la scodella con il pesce e un pentolino con dei peperoni che a lui piacevano tanto. Disse «Ecco, questa volta sono proprio venuti benissimo», e gli mise nel piatto due pezzi di pesce, mentre nel piattino per il contorno versò qualche cucchiaiata del pasticcio di peperoni, poi estrasse dalla scatola una fetta di pane del sabato e disse «L'ho tenuto apposta per te». Meir assaggiò il pesce e disse «È fantastico. Da tempo non mangiavo del pesce così», e sua madre osservò «L'ha detto anche papà che questa volta mi è venuto davvero speciale», poi gli domandò se voleva un pezzo di carne, avanzo dell'arrosto del giorno prima, e Meir rispose «No. Per oggi hai già faticato abbastanza. Sta' seduta». Vedendo sua madre dirigersi verso il frigo, aggiunse, «I peperoni sono straordinari», e sua madre disse «Non voglio mica forzarti», posò sul tavolo una scodella di vetro con la carne di cui gli servì una bella porzione, in un piatto a parte, poi rimise la scodella in frigo e infine gli ammannì una ciotola piena di composta di mele fatta da lei, e come per inciso disse che quella sera aveva in mente di scrivere a Rivka, e intanto gettò un'occhiata alle lettere lasciate a un angolo del tavolo, e senza una precisa ragione gli accostò il piatto della carne; poi, con una prudenza carica di tensione osò domandargli se per caso lui le aveva già scritto, e Meir rispose che aveva avuto una settimana molto piena ma sperava di riuscire a farlo la prossima, e sua madre chinò vagamente il capo e disse «Metto su l'acqua per il tè», riempì il bollitore e accese il gas, dicendo: «Scrivile, scrivile, è importante». Lo disse con un ritegno commovente: dai gesti e dal tono di voce si capiva che s'era pentita di quella frase, ma che ci teneva tanto che ciò s'avverasse, e intanto gli tolse via il piatto del pesce e sfoderò una scatola di plastica blu con i suoi biscotti al burro, e con un sorriso vagamente colpevolizzante disse «Se potessi scriverei io al posto tuo», prese una manciata di biscotti e gliela mise nel piatto, e Meir disse «Va bene», e sua madre: «Comunque, non rimandare oltre», poi andò a preparare il tè rendendosi ben conto di quanto fossero superflui e irritanti quei suoi ammonimenti, lo sapeva già prima di aprire bocca, così sorrise piena di imbarazzo e aggiunse che neanche a lei piaceva scrivere lettere e tanto meno riceverne, ma non si poteva farne a meno, poi posò le tazze di tè sul tavolo e gli domandò se voleva ancora qualcosa, al che Meir rispose «Dài, siediti. Basta andare su e giù», lei si sedette al suo posto e gli domandò di nuovo come stava, Meir rispose che ultimamente il lavoro lo stremava, sua madre si spezzò mezzo biscotto e lo pregò di riguardarsi, poi disse «Sembri un po' rauco», e Meir replicò «Devo avere qualcosa alla gola», e le raccontò che quel giorno era andato al mare, al che fattasi seria sua madre disse «Non è stagione questa per andare al mare. Siamo già in inverno. L'aria è fredda», e Meir disse «Eppure era gradevolissimo», e sua madre «Dopo la festa delle Capanne non si fa più il bagno in mare», e lo pregò di andarsi a far vedere la gola da un medico, al che Meir disse «Aspetto ancora un giorno o due», e sua madre disse «Con la salute non si scherza», e gli raccontò di un loro lontano conoscente e compaesano, probabilmente, il quale si era preso un leggero raffreddore con qualche linea di febbre che a forza di essere trascurato era degenerato in una malattia cardiaca, e Meir disse «Non preoccuparti, ci vado», poi avvicinò a sé i fogli del questionario e le chiese di cosa si trattasse. Sua madre prese il materiale e disse che era un questionario genealogico che aveva ricevuto qualche settimana prima con allegata la cortese lettera di un ebreo di Houston, Texas, sicuramente un pensionato che non sapeva cosa fare tutto il giorno, il cui cognome era lo stesso di sua nonna da nubile, costui aveva deciso di ricostruire il proprio albero genealogico e perciò aveva inviato questionari a mezzo mondo, c'erano domande dettagliate sui membri della famiglia e annessi e sui luoghi in cui avevano abitato, date di nascita e morte; questo tizio prometteva che, una volta finita la ricerca, avrebbe inviato a tutti i parenti l'albero genealogico al completo. Dopo una breve pausa, sua madre aggiunse che a giudicare dal cognome originario la loro famiglia doveva avere origine scandinava, nientepopodimeno, così almeno sosteneva quell'ebreo di Houston, Texas, nella lettera allegata al questionario, e poteva anche darsi che fossero imparentati con qualche casata della nobiltà svedese o danese. Questo lo aggiunse lei di suo con un sorrisetto ironico mentre gli serviva la tazza di tè e il piatto con i biscotti. Meir disse «Ne sono felice», si prese un biscotto, mise un cucchiaino di zucchero nel tè e rimestò; sua madre allora disse «Anch'io», gli tolse il piatto di carne ormai vuoto, con sopra coltello e forchetta, e aggiunse «Dimmi tu come passa il tempo la gente», poi si alzò e mise le stoviglie nell'acquaio e tutto d'un tratto, come rivolta allo spazio vuoto, disse che ne aveva abbastanza dei lavori di casa e degli ospiti e di tutto quel daffare che non finiva mai e che avrebbe voluto mollare tutto e fuggire in capo al mondo a vivere da sola, libera, le sarebbe bastato un cantuccio e un po' di pane secco, della marmellata e un pugno di olive, non aveva bisogno d'altro. Uno spettro di stanchezza e di amara disfatta le calò sul viso, Meir prese ancora un biscotto e disse «Perché non fai un viaggetto?». Andava matto per i friabili biscotti al burro che faceva sua madre e per quanto cercasse di imporsi un limite non riusciva a resistere alla tentazione. Sua madre domandò: «E dove?» e Meir rispose «Va' a Gerusalemme. È una città magnifica», poi prese ancora un biscotto e sua madre disse «Da sola?» e Meir rispose «Sì. Perché no?», e sua madre che per un attimo parve stupita o forse imbarazzata, rispose «Mi piace stare da sola», allora Meir non poté fare a meno di prendere un altro biscotto e dire «Perché qualche volta non te ne vai al cinema o a sederti in un caffè?», e prendendo istintivamente un cucchiaino di composta sua madre rispose che non ci riusciva mai perché una volta doveva occuparsi della cena di papà, un'altra arrivava qualcuno in casa, un'altra ancora c'era da fare qualche commissione in banca o alla mutua, e con un tono rassegnato non privo di una sfumatura d'ironia aggiunse «Più si vive, più ci sono commissioni da fare», e Meir disse «Già. Hai ragione», si avvicinò la tazza di tè e prese ancora un biscotto con il quale aveva a lungo mentalmente lottato. Disse «Il cibo era magnifico», e sua madre: «Era quel che avevo in casa». Ora trame impalpabili ma vischiose di affetto e comunione avvolsero i due seduti insieme nella linda cucina, come se stessero al riparo dentro un placido cerchio di luce giallina, calda, vicini fra loro e divisi dal resto del mondo. Sua madre disse «Però cammino molto. A volte vado dai Weiss, a volte dalla signora Krantz, a volte sino a vicolo Biniamin o dall'ottico», raccolse con le dita alcune briciole dei biscotti sparpagliate sul tavolo, se le mise in bocca e disse ancora «Lo faccio non per andare da qualche parte, ma per non andare da qualche parte», e un sorriso dolce e pieno le illuminò il viso, Meir sorrise anche lui e disse «Già, capisco», prese ancora un biscotto, l'ultimo, e intanto s'udirono i passi strascicati delle pantofole di suo padre che Meir accolse di malavoglia, con un'insofferenza repressa. Dopo un istante apparve sulla porta della cucina, con un sorriso largo spalmato sul viso. Dichiarò: «Partiamo per Gibilterra» e brandì trionfalmente il pugno, infrangendo di colpo, benché inavvertitamente, la gradevole intimità che dimorava in cucina e avvolgeva Meir e sua madre. Meir nutrì allora un risentimento trattenuto, colmo di rabbia e ribellione, che intuì condividere con sua madre, senza, peraltro, doversi scambiare né una parola né un cenno. Ora lei chinò leggermente il capo verso suo padre in segno di approvazione, ma al di là della debole parvenza di gioia, il suo viso esprimeva contegno, fors'anche ostilità. Il padre agitò nuovamente il pugno e disse: «Quest'estate. Deciso. Andiamo a divertirci – costi quel che costi. Prendiamo l'aereo per Londra, e da Londra diretto. Main Road. Scottish Corner. Africa Point. La Rocca. King's Yard Lane numero nove. Mangiamo, beviamo, andiamo alla Rocca. Poi qualche giretto – La Linea, Algeciras, Cadice, Siviglia. Siviglia è incomparabile». Mentre teneva la sua concione con un entusiasmo allegro e scanzonato, pieno di voglia di mettere di buon umore sua moglie che peraltro rimase sulle sue, suonò il campanello. Con una certa apprensione andò ad aprire, e subito lo si udì esclamare «Welcome, Mister Gorman!», mentre la voce beffarda di Bill replicò «Sholem Aleichem» e Meir disse «È Bill», si prese ancora un biscotto, l'ultimo, prima di andare, e sua madre chinò il capo con un'aria infastidita, non perché non fosse affezionata a Bill, anzi, gli voleva molto bene, ma perché la sua comparsa significava che per quella sera la sua libertà era irrimediabilmente sfumata. In effetti, Bill apparve quasi subito sulla porta della cucina insieme al padre di Meir, i due sorridevano amabilmente e con il suo forte accento americano Bill disse «Hallo. How are you, lady?», e strinse la mano a sua madre, sfoderando l'immancabile sorriso infantile sul viso rubizzo, e allora sua madre disse «I am fine. And you?» e Bill rispose «Benissimo», poi rivolto a Meir disse «Hallo Meir», Meir sorrise cordialmente e disse «Hallo Bill» e Bill disse «How is your business?» e Meir rispose «Fine. And yours?» e Bill rispose «Pessimo», e scoppiò in una roca risata, allora sua madre sorrise e disse: «Bist a millianer, was winstu? Ganz Amerike is deines!» e su sua proposta passarono tutti in salotto, tutti a eccezione di Meir che rimase al suo posto a finire il tè e a prendere ancora un biscotto, in fondo al piatto ne restavano ancora due, e quando sua madre tornò in cucina a preparare un frugale pasto per Bill, Meir salutò tutti e se ne andò a casa.

Un fresco più pungente di quanto non immaginasse dimorava nell'aria e gli dava i brividi, mentre tornava pigramente a casa lungo le strade deserte, con addosso un senso di peso e di stanchezza, soprattutto nelle gambe; nel momento in cui aprì la porta di casa si rese conto che Aviva era già andata a dormire e fu colto da una cocente delusione, avrebbe tanto desiderato che venisse ad accoglierlo e si prendesse cura di lui, mentre in effetti era già a letto sotto le coperte con accanto Alla ricerca del meraviglioso e la lampadina accesa sopra il capo, che le illuminava il volto sprofondato nel sonno, ma quando lui si accostò al letto socchiuse gli occhi con un certo sforzo e disse: «Ho avuto una giornata faticosa. Ti ho aspettato sino a un quarto d'ora fa». Pronunciò questa frase con un tono lievemente di scusa e chiuse gli occhi, allora trattenendo la rabbia e la delusione Meir disse «Va bene. Dormi, dormi», Aviva si avvolse nelle coperte e disse «Hanno telefonato dal negozio pregandoci di andare domani a ritirare la credenza», e Meir disse «Ne parliamo domattina. Dormi», poi uscì dalla stanza da letto e andò in cucina, fece una distratta incursione in frigorifero, avvertendo chiaramente come il senso di peso e spossatezza s'andava diffondendo nel suo corpo, dalla camera del figlio proveniva luce, per un attimo valutò se entrare, poi aprì l'armadio e prese il flacone delle medicine, da cui tirò fuori una pasticca che mandò giù con un sorso d'acqua, infine tornò in camera e cominciò a spogliarsi; mentre si levava i vestiti in preda a un devastante senso di peso e spossatezza, gli venne voglia di fare l'amore con Aviva e per un attimo pensò persino di svegliarla, ma la delusione e la rabbia perché lei non l'aveva aspettato presero il sopravvento e quindi rinunciò, accese la sua lampadina e irritato e depresso si cacciò a letto, prese Il triangolo delle Bermude e si disse che scopava troppo di rado con lei, molto meno della media, per lo meno secondo quel che gli risultava dal rapporto di Jerys e Geoffrey Kate, non ricordava i dati che figuravano sulle tabelle ma soltanto la netta impressione che ne aveva ricevuto dopo averci dato un'occhiata, riassunta nella formula che campeggiava nel rapporto, quella se la ricordava sì, «Sesso mediocre», allora le lanciò un'occhiata, dormiva placidamente con un gradevole rossore soffuso sul viso, si disse a fior di labbra «Sesso mediocre», tirò la coperta fin sopra le spalle e si rannicchiò, fitte sorde si propagavano dentro di lui fin nelle ossa succhiandogli tutta l'energia, aprì Il triangolo delle Bermude nel punto in cui l'aveva lasciato e pensò alle varie donne con cui era stato a letto, poi cercò una posizione comoda e si mise a contarle, guardando vagamente il viso di Aviva addormentata. Sebbene fosse ormai passato un anno, non si capacitava di come una donna casalinga e onesta come lei avesse potuto fare una cosa del genere, che l'aveva stupito al punto da sentire che andava in pezzi non soltanto la sua fiducia, ma anche la sua stessa vita, senza contare la dolorosa umiliazione e la cocente gelosia che da allora avevano accompagnato la sua esistenza come un'ombra e che non erano affatto diminuite malgrado fosse ormai passato un anno, undici mesi a essere precisi, e malgrado gli sforzi che aveva fatto per dimenticare e i tentativi di autoconvincersi che quanto era successo non avesse importanza. Provò di nuovo a contare tutte le donne con cui era stato a letto, consolazione questa che faceva solo male, e questa volta cercò di lavorare metodicamente incominciando dalla prima e procedendo per ordine, attingendo all'uopo dai meandri della memoria tutte le ragazze ormai cadute nel dimenticatoio, se non che il risultato raggiunto era piuttosto deprimente, ben misero in confronto al numero di donne sicuramente possedute da Posner – non che lo conoscesse di preciso ma poteva comunque supporlo –, certamente maggiore rispetto a quello di Gavrush, magra consolazione in ogni modo, da anni Gavrush era monogamo, tuttavia la cosa lo fece sentire meglio e pensò che se ce la metteva tutta forse riusciva anche a raggiungere Posner, o se non altro a reggere il confronto. Per un momento si tranquillizzò, si distese su un fianco e con gli occhi che cascavano lesse: «Ciò che caratterizza il Mar dei Sargassi non è soltanto una onnipresente vegetazione, ma anche la sua terrificante calma, fenomeno che è probabilmente all'origine della leggenda tanto spaventosa quanto suggestiva del "mare delle navi perdute"». A quel punto gli tornò in mente senza volerlo un'intervista a Simenon, pubblicata anni prima su un giornale e rimastagli impressa nella memoria, in cui lo scrittore rivelava di essere stato a letto con circa diecimila donne, questa era l'unica cosa che ricordava di tutta l'intervista e il motivo per cui gli era rimasta incisa come una spina nella memoria, e allora lo colse di nuovo un senso di disfatta mediocrità, non avrebbe mai potuto raggiungere una cifra simile, e con ancora il libro aperto davanti agli occhi pensò a Raya, la propria reticenza di allora a seguire l'istinto gli guastò l'umore e divenne ai suoi occhi non solo qualcosa di ridicolmente ingenuo, ma peggio ancora – un'occasione sprecata che rovinava la vita stessa, indice di scarsa energia vitale. Già, lei aveva così tanta voglia di lui ed era pronta ad assecondare ogni sua voglia, ed erano soli, nessuno che potesse disturbarli, né Aviva né Bentz e nessun altro, in quella squallida stanza stretta e lunga con il soffitto alto e le pareti di un beige sporco, se solo avesse potuto riportare le cose a quel punto, e la tristezza per quell'occasione sprecata si unì al fastidioso senso di peso e fiacca o forse ne trasse alimento; ricordò che era talmente scosso da avere persino evitato di guardare e vedere il corpo di lei nudo, chiuse gli occhi e vide loro due in quella orrenda stanza stretta e lunga, appena entrati si erano lasciati alle spalle l'aroma dei pini e della resina insieme alla luce abbacinante del sole – quei muri alti color beige sporco mettevano angoscia, e la finestra con la grata che dava sul cortile, qualche pino impolverato, e le brutte tende e il copriletto ruvido di lana grezza con disgustosi motivi verdastri, ogni volta che si stendeva gli veniva da vomitare, ancora in piedi cominciavano a baciarsi e intanto si spogliavano, così avrebbe voluto che succedesse, e continuavano in piedi, se solo avesse potuto riportare le cose a quel punto – così, proprio così, le avrebbe fatte andare: poi si staccavano e lui si distendeva sul lettone mentre lei rimaneva in piedi, si toglieva le forcine dai capelli e le posava sul tavolo, lui scrutava compiaciuto quel corpo e poi, mentre lei era in piedi accanto al letto le accarezzava lentamente le cosce e il ventre, fino al pube, le chiedeva di girarsi volgendogli la schiena, e una tensione e un piacere incommensurabile si diffusero nelle sue membra, insinuandosi nella malattia latente, e lei lo faceva, in fondo erano soli ed entrambi eccitati e disposti a godere senza inibizioni, e una volta di schiena lui le chiedeva di piegarsi un po', lei lo faceva appoggiando le mani sul tavolo, poi lui la toccava indicandole di divaricare un po' le gambe, al che inclinava leggermente il capo e guardava, allungava la mano e adagio adagio, carezzando con delicatezza ma anche con decisione, la introduceva fra le gambe, e lei rimaneva immobile, al che fu colto da tale convulsa eccitazione, gli sembrava emanasse da lui in forma di onde che facevano vibrare l'aria nella stanza, perciò nel timore che Aviva, placidamente addormentata, se ne accorgesse, si alzò di soppiatto e andò in bagno, si mise davanti alla vasca e mentre tutto il suo essere era concentrato in quell'atto di piacere lasciato allora sfumare, si scaricò poi si ricompose e tornò a letto dando la schiena ad Aviva, prese Il triangolo delle Bermude, e nuovamente saturo di quel senso di malattia latente che pareva dissolto, con gli occhi che cascavano lesse: «Ciò che caratterizza il Mar dei Sargassi non è soltanto una onnipresente vegetazione, ma anche la sua terrificante calma, fenomeno che è probabilmente all'origine della leggenda tanto spaventosa quanto suggestiva del "mare delle navi perdute", "cimitero delle navi perdute" e "mare del terrore". La leggenda narrava di un immenso cimitero atlantico, contenente vascelli di pirati d'ogni generazione rimasti intrappolati nelle distese di alghe, gradatamente marciti eppure ancora popolati di equipaggi scheletrici o per meglio dire di scheletri d'equipaggi, composti dai disgraziati che non erano riusciti a fuggire, che facevano la stessa fine delle loro navi». Facendo sforzi tremendi per tenere gli occhi aperti lesse ancora «In questa regione di morte è possibile trovare navi da carico e da crociera, baleniere, vascelli di pirati, galeoni spagnoli, feluche arabe, triremi fenici con ancore d'argento e persino navi di Atlantide con la prua placcata d'oro», chiuse il libro e lo posò sul comodino, spense la luce da notte, si girò e si addormentò.

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All'angolo con viale Nordau si fermò un istante e valutò se non fosse il caso di voltare in direzione del mare e poi ritornare su via ha-Yarqon, dal mare un vento freddo sferzava la strada, ma dopo una breve esitazione continuò lungo via Dizengoff, era deserta e assai buia, allora pensò che doveva tener duro e respingere fermamente quegli inutili pensieri sul passato, e i timori del presente, quello per la sua salute e altri ancora e tutti i dubbi e le esitazioni, per cominciare a vivere con slancio e divertirsi il più possibile, già, un giorno trascorso senza divertimento è un giorno sprecato, foss'anche soltanto un'ora, e con quello slancio mentale passò una rapida occhiata sul mondo e realizzò che era pieno, traboccante di piaceri per lui ancora da gustare, per un attimo fu in preda a una vertigine di frenesia e smarrimento, al punto che gli dispiacque per ogni minuto perso, intenzionato dunque a cominciare lì su due piedi a spassarsela e, ancora tutto preso da un'esaltazione positiva, decise di concedersi della pasticceria orientale che aveva notato infinite volte in vari posti della città ma che non aveva mai assaggiato e che proprio in quel momento, Dio solo sa perché, si risolse di comprare avviando con ciò una nuova vita, attiva e godereccia, e mentre accelerava il passo in direzione del cinema Peer si convinse che se non avesse trovato lì quelle delicatezze sarebbe arrivato anche sino a piazza Dizengoff se non fino a Giaffa.

Davanti al cinema, in un piccolo chiosco, trovò i dolci che cercava, disposti su vassoi e divisi per qualità: dopo aver a lungo valutato, ne scelse due uno diverso dall'altro e decise che sarebbe tornato ogni giorno a comprarne due diversi fino ad assaggiarne tutte le qualità, non voleva rinunciare a niente. Il venditore glieli porse avvolti in un pezzo di carta, grondavano grasso, Meir pagò e gli chiese come si chiamavano, li aveva sempre chiamati tutti soltanto baklava, e invece si rendeva conto che la conoscenza esatta dei nomi era parte integrante della gratificazione, ma dopo appena pochi passi faceva già confusione con quei nomi, e ancora prima di arrivare in via Ben Yehudah essi erano ormai una poltiglia di sillabe frammentarie e prive di senso. I dolci poi erano talmente dolci da far venire la nausea, pensò quasi di buttarli, ma poi si disse che doveva assaggiarli tutti, e continuò a mangiarli sino all'ultima briciola, infine si sputò sulle mani appiccicose e si pulì con delle foglie strappate a una pianta e proseguì lungo via Ben Yehudah con la bocca impastata di una sgradevole dolcezza, ma con la sensazione entusiasmante di aver veramente intrapreso la via per una nuova vita, finché nei pressi di via Arlozorov non ce la fece più e comprò una bottiglia di succo di pompelmo che bevette con qualche leggero gargarismo per scacciare via di bocca il gusto nauseabondo che fino a quel momento aveva preferito ignorare. Si rimise in cammino in dubbio se tornare direttamente a casa, qualcosa di doloroso lo spingeva più che mai a trovarsi in intimità con Aviva, oppure, in ragione del medesimo dolore, telefonare a Drora e cercare di farsi invitare da lei per andarci a letto, questa franchezza o per meglio dire volgarità gli sembrava più promettente e più adatta allo stile di vita cui aspirava e che quella sera stessa aveva adottato. Quando passò davanti al caffè dove lui e Gavrush si trovavano spesso verso sera, lo chiamavano "Caffè del babbo" a causa dell'aspetto del padrone e di sua moglie, che parevano due pionieri dei vecchi tempi che Dio solo sapeva come mai fossero finiti a gestire un bar, si fermò a scrutare il posto, che aveva cambiato proprietario e ora era buio perché vi stavano facendo dei lavori; quante ore vi avevano trascorso, per lo più in compagnia di un boccale di birra, bevanda prediletta di Gavrush, che quasi sempre, a volte persino per due giorni consecutivi, riesaminava come spinto da un'impellente necessità il suo cavilloso e prolungato rapporto con una donna sposata, madre di due figli, di nome Nurit, che stando a lui assomigliava a Masha Meril, di cui teneva sempre la foto nel vecchio portafoglio di cuoio, mentre quella della sua amante in carne e ossa chissà perché non se la portava dietro – Meir l'aveva vista soltanto una volta di sfuggita e per puro caso –, e così essa era rimasta incisa nella sua memoria nelle fattezze di Masha Meril, perché Gavrush si era categoricamente rifiutato di presentarli, ciò faceva parte del velo di mistero ambiguo e angosciante che avvolgeva quella relazione, la quale gli procurava poco piacere e molti tormenti, non solo per il dubbio e la gelosia e il senso di inanità, ma anche e altrettanto per problemi di ordine morale, perché andava contro la sua cervellotica e antiquata concezione del mondo, solo che gli mancava la forza di troncare, e Meir ci stava molto male perché voleva bene a Gavrush e malgrado la differenza d'età avvertiva una comunanza di sentimenti. Proseguì lasciandosi alle spalle il caffè oscurato e valutando se era il caso di far sapere a Gavrush che il locale aveva cambiato proprietario e che ci stavano facendo dei lavori dentro, ma pensando al tempo stesso che era buona cosa risparmiargli questa delusione. Mentre attraversava via Frischmann, una folata gelida soffiò dal mare accompagnata da un fragore incessante, pensò all'uccello che Gavrush aveva rincorso durante quelle due piovose giornate d'inverno nelle vicinanze di Cesarea dove era andato per osservare una certa specie volatile e per caso aveva visto quell'uccello – se era davvero quello che pensava, Gavrush non ne era sicuro, gli risultava infatti che fosse impossibile vederlo in Israele – e la distanza e l'aria plumbea annebbiavano la vista, comunque lo braccò nei boschi e nelle piantagioni umide e fredde e fra le vasche per l'itticoltura e nei campi a semina e in quelli di sterpaglia pieni di fango e sferzati da raffiche di vento, s'infangò sino alla disperazione con le scarpe sformate come zampe di palmipede e pesanti come piombo, lungo le pendici del Carmelo sino ad Atlit, dove esso scomparve dentro scrosci di pioggia nel cuore dell'oscurità, quasi si fosse dissolto nell'aria torbida, e malgrado le sue ricerche durate ancora un giorno intero, non lo rivide più. Meir non ricordava più qual era l'uccello che Gavrush sperava che fosse, non ricordava nemmeno più com'era fatto, Gavrush gliel'aveva descritto con molta vividezza, con quell'entusiasmo ormai un po' contratto e non così confacente al suo viso sciupato, rugoso per l'età e la stanchezza, con delle borse flaccide sotto gli occhi, mentre qualche giorno dopo di allora, pioveva ancora, sedevano nella cucina dei genitori di Gavrush, giacché malgrado le gite del movimento giovanile e gli anni passati in attività agricole e malgrado i reiterati tentativi di persuasione da parte di Gavrush a un avvicinamento alla natura, tentativi animati da uno spirito d'ingenuo e discreto predicatore, il rapporto di Meir con la natura era rimasto di ordine generale, alieno da ogni intimità, perciò tutto quello che ricordava delle descrizioni di Gavrush era quell'inseguimento ostinato, sfiancante, nella pioggia e nel fango sotto un cielo torvo, e il fatto che l'uccello fosse speciale – Meir lo chiamava segretamente "colibrì", perché questo era il nome ornitologico più esotico che gli fosse venuto in mente – e che avesse una vistosa macchia rossa, ma non riusciva più assolutamente a ricordare se quella macchia fosse sul petto, cosa che gli sembrava probabile, o sulla testa, o magari sulla coda, e questa cosa lo turbava non poco perché da quando Gavrush era morto anche i particolari più piccoli e insignificanti che lo riguardavano erano divenuti per lui fondamentali, ma in questo caso non c'era nulla da fare. Se solo avesse avuto sentore che Gavrush sarebbe morto meno di due anni dopo, lo avrebbe ascoltato con devoto scrupolo e l'avrebbe interrogato sugli aspetti più irrilevanti e futili in merito alle sue azioni e alle sue idee, sì da inciderseli ben bene nella memoria, solo che Gavrush era morto improvvisamente per emorragia cerebrale, cosa che nessuno avrebbe potuto prevedere, e mentre stava con Aviva in fondo al muto corteo funebre radunatosi intorno alla fossa aperta – Posner non era venuto al funerale sostenendo che non partecipava mai a cerimonie religiose –, mentre cercava invano con lo sguardo quella Masha Meril tentando di identificarla sulla base di come la ricordava nella foto, alzò lo sguardo e vide fra le teste dei presenti la moltitudine di lapidi bianche e oltre la distesa di sabbia dorata ancora deserta, che s'estendeva sino al muro di cinta del cimitero e oltre, verso una distanza di cui s'avvertiva chiaramente che finiva là dove cominciava il mare. Tutto era così diverso e distante da quel cimitero ombreggiato sul costone della montagna, a Nazaret, con le mura di pietra antica cui s'erano appoggiati mezzi seduti a mangiare i panini e la frutta che si erano portati dietro sotto l'ombra dei pini che stormivano spezzando un silenzio profondo, intriso dell'aroma della terra, degli aghi di pino caduti e della resina. In lontananza appariva uno scorcio della vallata e dall'altra parte le montagne blu, e Gavrush, aveva quasi dieci anni più di Meir e faceva il geologo, sbriciolò con la mano un grumo di terra e indicò con il capo il paesaggio di fronte, dicendo «Guarda la vallata, esiste forse qualcosa di più bello?», poi addentò il panino, e Meir allora disse «È magnifico», la vista era davvero magnifica, la valle e le montagne, c'era tutta l'essenza della terra d'Israele in quel momento, nel paesaggio e nel profumo dell'aria e negli alberi e in qualcosa che s'emanava dal suolo rivestito di aghi di pino. La quiete, l'aria tersa erano stupende, intrise di una delizia soporifera, Meir guardò lo spazio blu, vibrante, e provò il desiderio di prendere il volo e di annullarsi nelle infinite distese celesti, Gavrush raccolse un pugno d'aghi di pino e li brancicò, poi disse che le persone che vivono con la natura, ne aveva conosciute alcune nei due anni trascorsi in un villaggio olandese a fare il pescatore, sanno sin da bambini che la morte fa parte della vita, che è intrinseca e insita in essa come il sapore del sale nell'acqua di mare, e la scorgono intorno a sé ogni giorno negli animali e nelle piante, e imparano che la morte non è un incidente o una fatalità che contraddice la vita, e che la vita non è altro che un minuscolo grano in qualcosa cominciato molto prima che loro venissero al mondo e che continuerà all'infinito dopo che saranno morti, divenuti parte della terra che ora pestano, e così si deve essere e per questo malgrado la tristezza e il dolore per la morte loro o dei propri cari, non si dolgono più di tanto e comunque il pensiero che la vita stia per finire non li angustia né annichilisce, e Meir allora disse «Sì», addentò il pomodoro che lasciò colare un po' di succo sulla sua camicia e domandò cosa dovevano fare le persone come lui che non vivevano con la natura, in verità non si sentiva minimamente coinvolto, sapeva infatti che tutti erano destinati a invecchiare e morire, lui compreso ovviamente, tuttavia nella realtà tangibile sentiva la propria vita come perenne, destinata all'eternità.

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Qualche giorno dopo, alla data stabilita dal dottor Rainer, Meir si presentò al servizio sanitario e fu sottoposto all'elettrocardiogramma, che diede risultati confortanti, dopo di che andò dal dottor Rainer, la quale riscontrò che la sua pressione si era stabilizzata a un livello soddisfacente e restituendogli la ricetta medica non mancò di rammentargli quanto fosse importante continuare a prendere le medicine a tempo debito, e alla fine, come fra parentesi, gli domandò se praticava qualche sport, era un po' meno cordiale rispetto alle visite precedenti, come presa da qualche cosa d'altro, ma forse era solo una sua impressione, in ogni modo lo deluse un po', e disse «Cammino molto, se questo può considerarsi sport», e il dottor Rainer disse che andava benissimo, ma sarebbe stato opportuno dedicarsi a qualcosa d'altro, di un po' più attivo, come il nuoto o la pallacanestro, e Meir disse «Cercherò», l'ansia per la sua salute era ancora come un'ombra distante da cui poter distrarre la mente, ma al tempo stesso anche reale e insistente, le strinse calorosamente la mano, la ringraziò e se ne andò. Era una tiepida giornata autunnale e l'aria limpida e celeste aveva qualcosa di infinitamente amabile, il cielo azzurro era punteggiato di rade e soffici nuvole: una volta per strada, Meir fiutò d'un tratto un debole, inafferrabile effluvio, forse era soltanto il ricordo di un odore che definì odore di gioventù, che veniva a sfiorargli la punta delle narici, era l'odore del mondo che solo i giovani sono in grado di cogliere nel pieno delle sue tonalità, e come un cane alle prese con il suo tartufo, anche lui tentò con tutto se stesso di afferrare di nuovo, di resuscitare quell'odore di giovinezza sbucato all'improvviso attraverso i muri d'aria degli anni, di avvertire l'ebbrezza e la soavità e la dolcezza con il proprio intuito sottile, sensibile a ogni minima sfumatura o movimento, con la flessibilità e la prontezza dell'amore immaturo, proprio immaturo, e soprattutto con quell'impareggiabile sensazione che tutto sia disponibile e possibile, e in quel momento nutrì il desiderio di venir meno a tutti i suoi doveri, di prendersi una vacanza imprevista, arbitraria, e mentre ancora si godeva questa sensazione di fiero uccel di bosco e la vertiginosa prospettiva di tutti i piaceri che lo attendevano, decise di andare allo spettacolo mattutino del cinema Paris, e poi, magari, dopo aver passeggiato un po' per le strade, andare a mangiare al ristorante e intanto, siccome gli restava quasi un'ora prima dell'inizio dello spettacolo, camminò lungo via Ben Yehudah ed entrò in una libreria a informarsi sul nuovo libro di Ken Stevens, Edifici ed edilizia industrializzata.

Il negozio era vuoto, le due commesse sedevano al banco della cassa e chiacchieravano, e Meir poté sfogliare tranquillamente il volume, che aveva trovato in uno scaffale del reparto architettura; finito che ebbe di guardare decise di comprarlo, lo posò di fianco e con la stessa serenità continuò a curiosare fra i libri, estraendone ogni tanto uno dagli scaffali, sfogliandolo un po' e poi rimettendolo a posto, quest'attività gli procurava un senso di raffinatezza intellettuale e di totale evasione dal tran tran della vita, verso qualcosa di più intimo e spirituale. Dopo aver sfogliato alcuni libri di storia, soprattutto relativi alla terra d'Israele, e di architettura e filosofia nonché di cucina e poesia, senza alcuno scopo preciso se non quello di godersi la libertà e l'aspirazione a leggere tutti quei tomi, estrasse dagli scaffali Le gioie del sesso, lo fece con un certo disagio e come distrattamente, e non senza cercare di assumere un'espressione di indifferenza, e pur essendo ben conscio dell'imbarazzo che tradiva quasi stesse compiendo un atto da pervertito, almeno così gli pareva, iniziò a sfogliarlo, all'inizio in modo concitato e poi con maggiore calma, lesse le didascalie di grande formato e i disegni a china apparentemente neutri ma in realtà assai conturbanti in cui venivano esemplificate alcune posizioni d'accoppiamento – quella del loto, a pacchetto, la fessura del bambù, nomi che non aveva mai sentito, e che gli provocarono un senso di angosciata frustrazione, «Una donna in grado di controllare bene i muscoli della vagina può fare meraviglie per il suo uomo, ma per lei questa situazione è eccezionale, perché le garantisce una padronanza assoluta del movimento della profondità e del partner».

Queste parole gli scorsero sotto gli occhi e lo riempirono di tensione, sentì l'eccitazione e l'imbarazzo affiorare sul viso come la pellicola di una glassa calda, nessuno doveva vederlo in quello stato, ora risultava lampante la sua ignoranza in materia di sesso nonché la quantità di cose che si era perduto, «Le pinzette. Reazione sessuale femminile particolarmente auspicabile. La donna deve ridurre e contrarre lo "yoni" finché serra il "lingam" come un dito». Non aveva mai sentito parlare né di "yoni" né di "lingam", e la sua frustrazione ne uscì ancora più potente e profonda, «chiudere e aprire a suo piacere», «una donna benedetta con il dono del cielo della lascivia sarà praticamente sempre una partner sublime», «il talento sta nel "suonare" il proprio partner come uno "strumento", alternando la spinta e il "ritorno"». Mentre sfogliava il libro, pensò per un attimo che avrebbe fatto bene a comprarlo e portarselo a casa perché lui e Aviva se ne servissero al fine di perfezionare la propria vita sessuale, che dopo quella carrellata gli sembrava squallida e monotona, ma poi lo rimise a posto e tirò fuori Dietro il mito del maschio di Antonio Peitrofino – il cui nome gli suonò come una storpiatura di una pubblicità o una battuta di spirito – e Jacqueline Simonar, che leggiucchiò senza interesse, soffermandosi di tanto in tanto su qualche frase, ma soprattutto consultando le tabelle statistiche che lo colpirono più di tutto il resto, frutto di una ricerca condotta su quattromila uomini cui era stato chiesto di rispondere anonimamente a un questionario, e leggendo si sentiva coinvolto anche lui dalle domande proposte a quegli sconosciuti – qual è la cosa che le fa più piacere durante il gioco amoroso?, cosa può fare la sua partner per aumentare il vostro piacere? Essere più attiva durante il rapporto sessuale 34,4 percento; praticare più spesso il coito orale 24,3 percento; toccarmi il membro... Come vede l'idea di una relazione con una donna più vecchia?, qual è la frequenza dei suoi rapporti?, a questo punto compariva un dettagliato confronto fra i dati forniti dal rapporto Kinsey e quelli del rapporto Hunt, che Meir non aveva mai sentito nominare, insieme a una colonnina a parte in cui era indicato il numero di volte (a settimana) ideale in rapporto a ogni età, e fu questa la cosa che lo interessò di più dato che ultimamente gli era venuta paura di diventare impotente a causa delle medicine che prendeva per l'ipertensione, gli sembrava già di riscontrare i primi segni di una caduta della libido e di una flessione della potenza, e se in quel momento una delle commesse non si fosse alzata per far qualcosa presso uno scaffale, avrebbe di certo continuato a sfogliare il libro, malgrado l'imbarazzo che ciò gli provocava, invece rimise a posto Dietro il mito del maschio, prese il libro di Ken Stevens e con un'espressione la più serafica possibile andò alla cassa a pagare, e poi uscì all'aria aperta e fresca e si diresse al cinema Paris. Finito il film una pioggerella gradevole scendeva adagio inzuppando l'aria e i marciapiedi, perciò decise di rinunciare al ristorante, la cosa gli pareva un po' eccessiva, e andò a mangiare da sua madre.

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