Copertina
Autore Sa Shan
Titolo Lo specchio del calligrafo
EdizioneNuovi Equilibri, Viterbo, 2009, Fiabesca 97 , pag. 128, ill., cop.fle., dim. 12x16,7x1,1 cm , Isbn 978-88-6222-076-7
OriginaleLe miroir du calligraphe
EdizioneAlbin Michel, Paris, 2002
TraduttoreIlaria Vitali
LettoreSara Allodi, 2009
Classe narrativa cinese , scrittura-lettura , poesia cinese , paesi: Cina , illustrazione , arte
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Indice


          Percorsi


     5    In principio

    35    Ispirazioni

    36    Viaggio
    50    Venezia
    56    Pechino
    58    I colori
    61    Gli odori
    64    I rumori
    66    Il bestiario
    71    La felicità
    72    Il mio desiderio
    76    Sulla luna
    80    La sofferenza
    83    Il ponte degli Inferi
    92    Un autunno stregato
    96    Il romanzo


    99    Lo specchio del calligrafo


   117    Alla fine


   121    Elenco delle opere riprodotte
   124    Biografia


 

 

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Pagina 7

Eravamo cinque bambini chiusi in una grande aula. Il vecchio Maestro Zhan m'intrigò con la sua barbetta grigia e l'accento del sud. Quando srotolò davanti a noi la carta di riso, la Cina moderna scomparve.

Il primo carattere disegnato: Eternità. A quanto pare la parola contiene tutti i movimenti del pennello: il punto, il tratto orizzontale, verticale, diagonale, verso sinistra, verso destra, l'uncino. Il maestro diceva che Leonardo da Vinci era diventato un grande pittore disegnando instancabilmente un uovo. Dopo aver scritto per centomila volte Eternità, noi saremmo diventati grandi calligrafi.

Eternità... Eternità... Eternità...

la trasmissione del sapere millenario sta in un mormorio, in un incantesimo. I banchi troppo alti ci obbligavano a stare inginocchiati sulla sedia. Avevamo mal di schiena, male alle braccia, crampi all'incavo della mano. All'improvviso spuntava il Maestro Zhan e di sorpresa ci strappava il pennello. Guai a chi non era capace di trattenerlo.

Un tempo, i principi erano anch'essi iniziati alla calligrafia con questo simbolo. Una volta diventati imperatori chiamavano il loro regno "Pace eterna", "Prosperità eterna", "Stabilità eterna", "Gioia eterna". Il supplizio dell'infanzia si trasformava in fiducia e illusione.

Le dinastie sono scomparse ma l'arte dell'ideogramma si perpetua.

La Cina rinasce ogni volta che un bambino diventa calligrafo.

L'eternità è un fruscio.

Al poeta viene lasciato il canto dell'Effimero.


    Il tratto orizzontale, il soffio

    Il tratto verticale, il bambù secolare

    La diagonale scaccia i demoni dell'anima

    L'uncino, lancia dalla punta d'oro



Da bambina preferivo la gioia e la libertà del disegno alla austera e prigioniera di regole ancestrali. La lentezza del movimento mi martirizzava. Spargevo inchiostro dappertutto senza cura e mi attiravo i rimproveri di mia madre.

A otto anni mi esercitavo sui caratteri stampati con l'inchiostro rosso. Il Maestro metteva una croce nera su ogni parola in cui l'inchiostro aveva debordato e un cerchio rosso su ogni segno ben tracciato.

A nove anni ottenni il diritto di studiare le steli antiche. Potevamo riprodurre solo gli inchiostri incisi dagli illustri calligrafi Oyang Xun, Yan Zhenqing, Liu Gongquan, Zhao Menfu. La litografia delle steli, onde bianche su nero uniforme, assomigliava ai volti severi che mi rimproveravano di continuo. Essere discepola di quattro anime rinsecchite e arcigne mi annoiava.

Un giorno, scoprii il maestro ideale nella persona di Chu Suilang, ministro alla corte dei Tang, bandito dalla grande imperatrice Wu. Il movimento aereo, la grazia celeste, il soffio femminile della sua scrittura emozionarono il mio sguardo infantile, stanco dei modelli marziali e moralisti. In segreto, mi accanivo a copiare il suo stile, finché non scoprirono la mia passione. Invece di rimproverarmi, mi spiegarono che lo stile del Maestro Chu era il più perverso. Aveva un'influenza nefasta sui principianti che, ingannati dalla sua apparente fluidità, non capivano nulla del suo rigore interiore. Sarebbe stato meglio ritornare ai maestri Oyang, Yan, Zhao, Liu, che avevano una grammatica, che guidavano da mille anni milioni di mandarini nel cammino della calligrafia.

In effetti la mia scrittura era precipitata nel caos. Convinta di disegnare la grazia e la voluttà, facevo scarabocchi flosci e lascivi. Dimenticai il seduttore solitario e la sua stella spenta.

    Abbandonai la calligrafia.

    Ritrovai il piacere della calligrafia otto anni dopo.



A quindici anni studiavo al liceo annesso all'Università di Pechino, una delle più prestigiose scuole superiori della Cina. Nella nostra classe, occupava il posto di delegato alla salute e all'igiene un ragazzo di nome Salice. Essendo delegata allo sport, me lo feci amico durante le riunioni dei rappresentanti.

Mi piacque per la sua discrezione e la magnifica scrittura. Dopo la lezione scriveva con il gesso, in un angolo della lavagna, il nome degli studenti che dovevano pulire l'aula. Quella calligrafia rimaneva per tutta la giornata successiva. I nomi dei miei compagni di classe, come "Coraggio", "Dolce luna", "Tuffo", "Rosso", costituivano un autentico dizionario dei segni. Quando mi annoiavo durante le lezioni ricopiarli era un piacere.

Quindici anni è un'età travagliata. L'alchimia della vocazione supera la logica scolastica. La porta della calligrafia, chiusa fino all'elezione del delegato alla salute, si riaprì misteriosamente. La mia scrittura si trasformò.

Dopo un riordino di file e di sedie, Salice diventò il mio compagno di banco. Gli rivelai la mia ammirazione e gli chiesi consigli. Arrossendo, tracciava fiero sui miei quaderni caratteri destinati a servirmi da modello. Nel frattempo, io facevo delle ochette di carta che gli infilavo nello zaino. A volte, al riparo da sguardi indagatori, ci scambiavamo un sorriso.

Stranamente quell'intimità svaniva durante l'intervallo. Ritornavo al mio universo, agli amici, fedeli compagni, ragazzi alti e sportivi. Salice era un segreto che mi vergognavo a rivelare. Modesto, timido, apparteneva al mondo vellutato della calligrafia, all'odore d'inchiostro e libri ingialliti. A lui avevo riservato un altro volto facendogli conoscere un'altra me stessa: l'adolescente fragile, dolce, avida di conoscenza. Esiste in me una doppia personalità: l'ingenua e la perversa, la generosa e la crudele. Ignoro perché a volte sono migliore e a volte peggiore.

    Salice fu la mia vittima.





All'inizio delle vacanze d'inverno, gli spedii una semplice cartolina alla quale rispose con due pagine colme della sua grafia accurata. Proponeva di venirmi a prendere per andare alla festa del tempio. La lettera mi incantò. Trasportata da quel sentimento di dolcezza, mi univo ai palpiti del suo cuore. Ma quella debolezza mi nauseò. Mi sentii disarmata. Andare alla festa del tempio con Salice avrebbe voluto dire impegnarsi con lui. Invece a me piacevano le amicizie libere e stravaganti. Salice non aveva né l'irruenza né la forza per farmi innamorare. Non ero pronta a rinunciare alla mia indipendenza. Come avrebbe potuto domarmi un adolescente sentimentale?

Risposi al suo invito con una cartolina gentile in una scrittura simile alla sua. Il mattino del nostro incontro soffiava l'aquilone. La temperatura era scesa sotto lo zero. La terra, carcassa leccata dagli avvoltoi, era imbiancata. Nastri di nuvole stavano immobili in un cielo di cristallo. Dalla finestra, con le mani sul termosifone, vidi il mio amico che attraversava in bicicletta il bosco di salici piangenti. Lottava contro il vento e trovai ridicola la sua immagine incurvata dallo sforzo. Una volta arrivato ai piedi del nostro edificio, mi chiamò. Restai muta. Non osando bussare alla porta e affrontare i miei genitori, girò in tondo per un po', poi se ne andò.

Ritrovai il mio gruppo di amici alla festa del tempio. Eravamo belli e insolenti! Al ritorno dalle vacanze d'inverno, non sopportavo più lo sguardo del mio compagno di banco che languiva. Per fargli del male, scambiavo bigliettini e occhiate con i miei complici. Dopo la lezione, mi lanciavo radiosa tra le braccia di uno dei miei uomini.

Salice soffriva in silenzio. Lo ignorai fino alla fine del trimestre. Cominciò un nuovo anno scolastico. Salice andò con gli studenti che preparavano il concorso di matematica. Scomparve. Persi le sue tracce. Diciotto mesi dopo, partii per la Francia.

Di ritorno a Pechino, incontrai Salice ad una cena di vecchi amici. Non ci vedevamo da cinque anni. La sua bellezza mi sorprese. Il giorno dopo, ai giardini del Palazzo d'Estate, di fronte all'immensità del lago Kun Ming, evocammo ricordi lontani. Mi sembrava esotico e seducente e io dovevo fargli lo stesso effetto. Ognuno di noi, a modo suo, era stato emancipato dalla sessualità. Senza difficoltà, ci baciammo su una panchina del giardino dell'Università di Pechino, dove avevano studiato i nostri genitori. Il desiderio, risorto dalle ceneri, mi assalì. Ero stregata dagli occhi a mandorla di Salice, malinconica nostalgia di un'adolescente ormai lontana.

La sera prima di partire per la Francia lo invitai a casa mia. Dopo cena, ci chiudemmo a parlare nella mia stanza. Mi spinse sul letto.

Ero pronta a darmi a lui, quando di colpo si sollevò, negli occhi la rabbia di un uomo determinato a soffocare il piacere.

– No – disse – mi sento responsabile per te.

In Occidente, quando un uomo fa l'amore con una donna, lo fa per il piacere.

In Oriente, l'atto è un impegno.

Quell'uomo mi amava. La sua passione era intensa. Mi commosse.

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Pagina 50

Venezia
    Nei pomeriggi di nebbia
    Le gondole sono ormeggiate al cielo

    Arrivo della pioggia
    Il cielo diventa malva
    Il Canal Grande turchese
    La chiesa di San Giorgio una cicogna bianca

    Appoggiato a una colonna
    Un uomo in costume mi fissa
    Dietro una maschera di donna

Uno spicchio di luna sfiora la cupola di San Marco

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Pagina 56

Pechino



Pechino si alzava alle cinque del mattino, d'estate come d'inverno. Penombra. I passanti apparivano e scomparivano. Nel bosco di cipressi, ai piedi di un tempio, un gruppo di danzatori col ventaglio affrontavano gli amanti del Tai Chi, esercizio marziale dei taoisti, all'instancabile ricerca dell'immortalità.

Alle sei, i venditori ambulanti preparavano i fornelli ai bordi della strada.

Le fiamme schizzavano, si alzavano i vapori, tratti bianchi sul tessuto dell'aurora.

Gli odori si spandevano, crépe, omelette, panini farciti, panini fritti, patate dolci, le grigliate degli dei.

Il profumo della capitale cambiava al ritmo delle stagioni.

Marzo sapeva di viaggio, di fatica. Il vento aveva attraversato il deserto del Gobi e ci portava gli odori della sabbia incandescente e della Grande Muraglia carbonizzata.

Aprile, il disgelo. La terra nera, macerata nel ghiaccio, esaltava il sentore di un sogno che finisce. Al mattino presto, l'acqua trasudava, gocciolava, scrosciava. Stagione di metamorfosi, la muffa dei fiori precoci. Tornavano le rondini. Chi piangeva di gioia ascoltando il loro grido d'angoscia?

Maggio, l'allegria delle acacie, dei lillà. I pioppi preparavano una fioritura cupa per rimpiazzare i fiori di pesco, i cui petali erano calpestati dai piedi, annegati nei ruscelli, trasportati dal vento.

Tutto fuggiva, la felicità, la prosperità, il dolore, la disperazione, rimaneva solo la mia città millenaria, rovina delle rovine, ricordo dei ricordi. D'estate, ci offriva una tazza di the bollente su un vassoio laccato. Gli intenditori cercavano una fila di salici piangenti, uno sgabello di pietra, il profumo amaro di uno stagno coperto di fiori di loto, un sentiero ombroso dove stavano accovacciati i venditori di angurie. Apprezzavano il calore, la vertigine, la sete, lo stordimento. L'estate, il desiderio, l'ossessione sparivano davanti all'autunno, la profondità, l'attesa.

Nei boschi, i giardinieri davano fuoco ai mucchi di foglie morte e di rami secchi, raccolti al mattino dalla loro scopa di bambù.

In sogno, l'amante mi offre un profumo chiamato fuoco. Ha per nota di testa la malinconia delle ceneri, per bouquet la fenditura delle fiamme. Mi chiede di metterlo sui polsi, manette d'acciaio, ricordi brucianti di un amore naufragato.

Che torni l'inverno! Che la neve rinfreschi la sofferenza. Che l'aquilone dissolva la nostalgia, veleno della memoria.

Dormirò nella bianca chioma della mia città che non è più. L'eternità è un sogno che saprà circondare cantieri, grattacieli, autostrade, ponti sospesi.

La modernità ignora il rimpianto.

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Pagina 102

A quattro anni, Zhong He fu iniziato dal padre all'arte della calligrafia. Ogni anno, il mandarino riempiva d'acqua l'orcio alto dieci piedi e ordinava al figlio di utilizzarlo fino all'ultima goccia per preparare l'inchiostro. Il bambino lavorava tutto il giorno. Mentre si esercitava, solo Ling Long, la sua vicina, poteva tenergli compagnia. La ragazzina non si separava mai dal suo pechinese nano. Ridendo, arrossiva.

Quando compì l'età di sedici anni, i genitori di Zhong He decisero che quell'amicizia poteva turbare la sua concentrazione sull'arte del nero e del vuoto. Pretesero la rottura. L'adolescente gli obbedì e da quel momento rifiutò di vedere la ragazza.

Ling Long pianse. Bruciò tutti i rotoli di calligrafie che le aveva regalato l'amico. Scappò di casa ed errò per la città.

Il suo dolore spaventò la famiglia, che decise di farla sposare. Un anno dopo, in abito vermiglio e velo di seta porpora, Ling Long salì su un battello. Dietro la tenda, lanciò un ultimo sguardo al suo paese natale e scorse tra la folla dei convitati Zhong He.

Il ragazzo non si accorse che la giovane donna lo contemplava con disperazione. Il vento gonfiò le vele e il battello si allontanò. Lui rabbrividì, si incurvò, infilò le mani nelle maniche e si allontanò. Nel cielo, le oche selvatiche si diressero verso sud gridando.

— Arrica l'autunno — mormorò Zhong He.


Qualche anno dopo, il bambino prodigio divenne il calligrafo più celebre dell'impero. I suoi inchiostri erano apprezzati dall'Imperatore e dalle sue concubine. In cambio di un segno del maestro, i ministri di corte e i dignitari di provincia facevano a gara ad offrire mucchi di monete d'oro, manciate di perle rare.

Ma Zhong He era tormentato.

La via della bellezza assomigliava a un lungo corridoio senza luce in cui avanzava disperato e rabbioso. Ingannava se stesso ubriacandosi. L'ebbrezza, la perdizione, gli davano la sensazione di penetrare il mondo dei morti e di colpo gli permettevano di lanciarsi in una calligrafia libera e aerea.


Un giorno, dopo aver passato la notte da una cortigiana, rientrava vacillando a casa sua, ubriaco.

Si ricordò che anni addietro, in un giorno di maggio dolce e delizioso, Ling Long, vestita di un abito di seta verde salice stretto da una cintura di cotone giallo giunco, era entrata nel suo atelier. I suoi capelli, sparsi sulla fronte, emanavano il profumo dei fiori che aveva sfiorato attraversando il giardino. Si era seduta accanto a lui e lo aveva guardato scrivere. Seduta su una sedia di sandalo scolpito, gli tagliava la carta di riso. La sua testa era leggermente abbassata. Una ciocca di capelli le sfiorava la spalla sinistra. Attraverso il vestito leggero, si intuiva il nascere dei seni. Uno dopo l'altro, piegava dei pezzi di carta che prendevano la forma di oche selvatiche.

Zhong He trasalì. L'oca selvatica, uccello migratore, presagio di una partenza precipitosa verso un paese lontano. Perché non era riuscito ad apprezzare i momenti felici?


Gli anni passarono. I genitori di Ling Long morirono.

La loro casa cadde in rovina.

Ma lei non è mai ritornata.

Una sera bevve più del solito, tanto che non riuscì a salire in sella senza aiuto, tra le risa di tutte le cortigiane. Il cavallo si mise subito al galoppo.

Il vento gli fischiava nelle orecchie. Vedeva alberi e case passare come frecce.

Ebbe voglia di vomitare, disgustato da quella vita dissoluta, dal suo talento incerto, da quel mondo ridicolo. Il cavallo si avviò a tutta velocità in uno stretto sentiero. Di colpo, un enorme ramo lo colpì come una frusta e perse conoscenza.


Quando si risvegliò, era ancora in sella. Il cavallo lo riportava a casa. Curiosamente non gli faceva male la testa. Passò davanti alla dimora di Ling Long e, alla luce della luna crescente, guardò tristemente la scalinata sepolta sotto le erbacce e il portone porpora semiaperto. Un fruscio di seta attirò la sua attenzione.

A qualche passo dal suo cavallo, una donna in abito blu tesoro attraversò la strada. La sua cintura, intrecciata di fili d'oro, scintillava sotto la luce cangiante della lanterna viola che teneva in mano. Salì i gradini, spinse il portone e scomparve.

Stupefatto, Zhong He rientrò a casa.


A mezzanotte passata, non riuscendo a dormire, uscì dalla stanza e passeggiò in giardino. Ossessionato dalla visione di poco prima decise di andare ad esplorare la casa vicina.


La notte era silenziosa. La luna si nascose dietro le nuvole. Le lucciole volteggiavano nell'oscurità. Sembravano tracciare una misteriosa calligrafia.

Trovò una scala e scavalcò il muro. Dopo un cespuglio, scorse un grande giardino rischiarato da migliaia di lanterne fucsia appese agli alberi. Zhong He non era stato a casa di Ling Long da così tanto tempo che non riconobbe nulla. Fece il giro della casa seguendo un sentiero sinuoso piastrellato di mosaici. Boschetti di bambù, pietraie giganti, massicci di peonie spuntavano e scomparivano, per svanire nella penombra.

Il sentiero si fermò nei pressi di uno stagno coperto di ninfee. Un ponte di pietra condusse Zhong He ad una lunga galleria. Da un lato, i ciliegi nani avevano perso i petali rosa, dall'altro, delle camere, di cui solo una era illuminata.


Si levò il sospiro di una donna, appena percettibile:

"I capelli cominciavano a velarmi la fronte

Cogliendo fiori, mi divertivo davanti alla porta

Tu salivi su un cavallo di bambù e venivi

Attorno al pozzo, a giocare con delle prugne verdi...

Quando compii quattordici anni, divenni la tua sposa

Senza mai sorriderti, imbarazzata e timida

Con gli occhi bassi, cercavo l'ombra vicino al muro

Tu mi chiamavi cento volte, ma non mi muovevo...

Solo a quindici anni diventai donna

Volevo che fossimo uniti come polvere e cenere..."



Dalla fessura tra i battenti della porta, vide l'interno della stanza arredata con gusto raffinato. Alle pareti, dei pesci dipinti giocavano tra le alghe. Sul soffitto, un affresco rappresentava un profondo stagno e i suoi abitanti acquatici. Una donna era seduta sul bordo di un letto a baldacchino, sotto le cortine di mussolina blu notte e verde turchese.

Tenendo in mano uno specchio, si contemplava.


– Entrate, Zhong He.

Quella dolce voce fece trasalire il ragazzo. – Entrate, amico mio.

Voi cercate la bellezza. È qui.


Zhong He spinse la porta.

Avvicinandosi, gli sembrò di riconoscere l'amica d'infanzia.

– Sedetevi – gli disse lei. – Tenete, guardate dentro lo specchio.

Zhong Hé scorse il viso rotondo della sua ospite.

– Laggiù, nell'altro mondo, io sono Ling Long – gli disse. – In questo, non sono Ling Long. Capite il perché?

Con un nodo alla gola, Zhong He scosse la testa.

– Perché la Bellezza comincia dove finisce. Circola tra i due mondi come un vento eterno. Quando qui scende il crepuscolo, laggiù si leva l'aurora. La nostra luna contempla il loro sole, la nostra sofferenza fa la loro felicità. Quando qui avete rifiutato, là avete posseduto. Qui, il vostro amore crudele ha fatto morire una donna, laggiù è lei che, indifferente, vi tormenta.

Inquieto, Zhong He si guardò nello specchio.

– Non troverete ispirazione duratura finché non farete a pezzi la vostra anima. Ubriacarsi è inutile.

Sorrise maliziosa:

– I segni s'intrecciano e tendono la rete che separa i due mondi. L'avete capito, questo? Ne avete già attraversato le maglie per tornare indietro?

Sudori freddi coprirono la fronte del calligrafo. Lei li asciugò con un fazzoletto profumato e gli prese la mano destra.

– Che queste dita forti, che questo polso possente, possano scrivere sul mio corpo un incantesimo d'amore.

Trasse a sé Zhong He.


Al primo canto del gallo, la giovane donna svegliò il calligrafo e lo ricondusse alla porta. Quella notte tornò e così fece le sere successive. L'estate fuggì tra gli alberi e l'autunno venne a dipingere le colline di rosso, i canali di verde.

Zhong He non aveva scritto una sola volta. Quel silenzio del gesto, invece di angosciarlo come al solito, gli dava una felicità perfetta. Aveva trovato nel corpo di quella donna che non era Ling Long, un cordone ombelicale invisibile che gli permetteva di scivolare nel ventre del mondo.

Laggiù, come sul fondo di uno stagno, ombre grigie, tratti neri, fusione di colori, scintillii di luci, silenzio, rumore, gioia e collera, tutto era movimento:

fiorire, appassire, accendersi, spegnersi, nascere, morire.


Una sera, andando da lei, la scala che aveva appoggiato al muro si ruppe. Cadde sulla nuca. Si risvegliò nel suo letto e vide la madre al suo capezzale.

Gli dissero allora che dalla caduta a cavallo di tre mesi prima, era immerso in un sonno profondo. Nessun medico era riuscito a risvegliarlo.

Disperati, i suoi genitori avevano preparato i funerali.


Non appena Zhong He riuscì a camminare, penetrò nella casa vicina dove vide soltanto rovine abitate da tassi e volpi, sentieri invasi di rovi e cespugli. Non c'erano né sentieri a mosaico, né stagno, né camera dipinta.

Zhong He si rimise al lavoro. Cercò invano i toni sottili dei grigi e dei neri che aveva contemplato in sogno. Smise di bere. Con una stretta al cuore, guardava le nuvole fuggire nel cielo. La calligrafia è muta. Solo la natura, nella sua lingua incomprensibile, può mormorare il terribile nome della malinconia.

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