Autore Georges Simenon
Titolo I clienti di Avrenos
EdizioneAdelphi, Milano, 2014, Biblioteca 624 , pag. 158, cop.fle., dim. 14x22x1,1 cm , Isbn 978-88-459-2884-0
OriginaleLes clients d'Avrenos [1935]
TraduttoreFederica Di Lella, Maria Laura Vanorio
LettoreMargherita Cena, 2014
Classe narrativa francese












 

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Era ancora presto per i clienti, anche se uno studente che andava lì per Sadjidé era già al bancone del bar. Ma non valeva la pena di servirlo, tanto ordinava giusto qualche birra, che poi neppure beveva.

Solo la grassa Lola, bardata di seta rosa e di grosse perle, era alla sua postazione, al primo tavolo, e guardava davanti a sé con il vago sorriso che le sarebbe rimasto stampato sulla faccia per tutta la notte. Anzi no, perché nei pochi minuti del suo numero di danza avrebbe aggrottato la fronte e stretto le labbra, fissandosi i piedi con apprensione. Non aveva mai preteso di saper ballare e lo faceva, come le altre, semplicemente perché, secondo le nuove normative, nei night-club potevano lavorare solo le «artiste». Ce l'aveva scritto perfino sul passaporto!

Sadjidé era ancora di sopra. Era sempre l'ultima a chiudersi nel soppalco che le ragazze del locale avevano adibito a camerino e, con pose da gran diva, scendeva soltanto dopo essersi assicurata, spiando da un buco nel tramezzo, che in sala ci fossero clienti.

Gli uomini la accoglievano con un cenno confidenziale o con un sorriso, cercavano di trattenerla quando passava accanto a loro, le davano una palpatina al sedere, e se qualcuno non lo faceva si poteva star certi che era appena arrivato ad Ankara.

Il giovane studente con i gomiti appoggiati al bancone era innamorato sul serio, e per ingannare il tempo chiedeva notizie a Sonia, la russa, che non ballava, ma cantava romanze in francese e in tedesco.

«Avete chiuso tardi ieri notte? ».

«Come al solito, verso le quattro o le cinque ».

«E Sadjidé?...».

Lo studente lanciava occhiate astiose verso il fondo della sala, dove erano allineate due file di piccoli palchi. Nel resto del locale era permesso bere anche solo birra o gazzosa, ma nei palchi bisognava ordinare champagne turco o cocktail e offrirne all'una o all'altra delle «artiste». In compenso, il palco si poteva chiudere pressoché ermeticamente con una tenda.

Il sassofonista, in attesa dei clienti, fissava annoiato il suo strumento, se lo portava alle labbra, suonava due o tre note a caso e poi tornava a guardarlo, mentre il pianista leggeva un giornale di Istanbul.

Intanto il proprietario, un ebreo minuto, calvo e scattante, preparava le consumazioni per la serata: era in grado di prevedere il numero dei clienti con un'approssimazione quasi perfetta.

La sessione parlamentare volgeva al termine. Di lì a tre o quattro giorni il Gazi avrebbe sciolto l'Assemblea per la pausa estiva e alcuni deputati avevano già lasciato la capitale.

A parte le ambasciate, che cosa sarebbe rimasto? Attorno allo Chat Noir, che si predisponeva con indolenza alla sua vita notturna, non sorgeva una vera e propria città, ma una specie di avamposto, come se ne vedevano in America all'epoca della conquista del West. In pochi anni, per volere di Mustafa Kemal, nel bel mezzo del nulla, su un'arida collina dove andava scomparendo un paesino indigeno, erano stati edificati palazzi e ministeri, tracciate strade asfaltate e costruito un grande albergo.

Ciò nonostante, quando, l'indomani o nei giorni seguenti, Mustafa sarebbe andato in vacanza sul Bosforo, per le strade, nelle case nuove e negli uffici non si sarebbe più vista anima viva.

Quella sera all'Ankara Palas davano una cena di gala. Alcuni belgi e svizzeri, che alloggiavano lì da due mesi, avevano fatto richiesta di una linea elettrica e finalmente l'avevano ottenuta. Per festeggiare avevano invitato un gran numero di funzionari e deputati.

Il proprietario dello Chat Noir prevedeva di vederli approdare nel locale verso le due del mattino e stava già mettendo in fresco una decina di bottiglie di vero champagne.

Una giovane greca di nome Aspasia, che aveva uno sguardo triste da cane bastonato, stava scrivendo una lettera con un inchiostro viola. Il proprietario le gridò:

«Guai a te se macchi la tovaglia...».

Accanto a lei Nouchi, una ragazza ungherese arrivata ad Ankara una settimana prima, si metteva lo smalto sulle unghie.

Avevano ancora una mezz'ora buona... O almeno...

Squillò il telefono. Il proprietario sollevò la cornetta, fece segno al sassofonista di smettere di suonare e prese un atteggiamento servile, che non appena ebbe riagganciato lasciò il posto a un'espressione sicura e compiaciuta.

«Sadjidé!... Aspasial... Lolal...».

Sembrava perfino più elettrizzato di quando capitava lì un ambasciatore che, passando dalla porta sul retro, andava a sistemarsi in uno dei palchi.

«Sadjidé!...» ripeté guardando il soffitto.

Si sentirono dei passi strascicati. Poi apparve Sadjidé, senza trucco, seminuda sotto una vestaglia macchiata di belletto.

«Forza, preparatevi! E filate alla Fattoria!».

Sadjidé non batté ciglio, ci era abituata. Lola si precipitò nel camerino. La russa chiese:

«Anch'io?».

«No. Qualcuno deve restare qui. E poi a quelli non gli importa niente delle canzoni!».

«E io?» chiese Nouchi, l'ungherese.

Era la più giovane. Probabilmente non arrivava ai diciott'anni e aveva lineamenti irregolari, un naso aguzzo, due occhi penetranti come punte di spillo.

«Ma sì, proviamo!».

Per un quarto d'ora nessuno si preoccupò più dello Chat Noir. Le ragazze correvano su per le scale che portavano al soppalco. Si mettevano il rossetto o la cipria, si accalcavano davanti a un pezzo di specchio.

«Sadjidé!» sospirò lo studente vedendola dirigersi verso un taxi.

«Che c'è?».

«Mi prometti di...?».

Lei scoppiò a ridere, gli diede un bacio sulla guancia e si serrò nella macchina insieme alle altre. Nella sala era rimasta solo Sonia, ma uno dei musicisti era già stato mandato a chiamare due ragazze che lavoravano allo Chat Noir solo saltuariamente, perché non erano ballerine.

Il proprietario tornò a occuparsi delle bottiglie tutto sorridente. Sapeva che il taxi stava attraversando la città, forse scortato da due motociclisti della guardia del Gazi.

La Fattoria, che si trovava alle porte di Ankara, era una costruzione semplice, a un solo piano, circondata da campi coltivati, in cui Mustafa passava più tempo che nel suo palazzo.

Probabilmente si stava godendo un'abbondante cena, attorniato da amici e ministri, quando uno degli ospiti aveva detto:

«E se facessimo venire le ballerine?».

Allo Chat Noir il giovane, che non era ancora stato servito, ne approfittò per andarsene senza aspettare né pagare la birra che aveva chiesto.

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Da mezzanotte Jonsac avvertiva un dolore alle tempie e quel che è peggio aveva la sensazione, a lui ben nota, di girare a vuoto in un universo inconsistente. Aveva già percorso almeno dieci volte il tratto dalla terrazza al pianterreno alla terrazza del primo piano, gettando occhiate furtive in tutte le stanze. Ora si accingeva a ricominciare...

Stolberg aveva ragione: era una tipica serata sul Bosforo, con la sua atmosfera languida, il suo sfarzo e le sue miserie, i suoi profumi e il suo sentore di marcio. La poesia, come nei paesaggi di Istanbul, era in gran parte artificiosa, ma c'era anche qualche raro momento che non dipendeva dalla volontà dell'uomo.

Lo yali dello svedese, di legno come tutti gli yali antichi, sorgeva proprio in riva allo stretto, e gli ospiti, che arrivavano in caicco, sbarcavano direttamente sulla soglia dell'atrio. L'acqua era profonda, ma così limpida e calma che si vedevano gli scogli sul fondo, tra i quali sgusciavano pesci indolenti.

Il posto aveva molto impressionato Nouchi, soprattutto per le dimensioni della casa. Quando si erano avvicinati, avevano scorto Stolberg in piedi sull'ampia soglia che fungeva da imbarcadero. Indossava un completo grigio a doppio petto e, aureolato dalla luce soffusa del tramonto, sembrava più biondo, più distante e più aristocratico che mai.

Che cos'era successo dopo? Jonsac faticava a mettere ordine fra i ricordi, perché era stanco e sovreccitato, forse pure un po' ubriaco, non al punto però di non essere in grado di pensare.

Avevano guardato il sole tramontare... Gli ospiti si erano radunati sulla terrazza... Per dare un tocco di colore locale, Stolberg non aveva offerto ai suoi invitati delle poltrone, ma si era limitato a spargere dei cuscini sul pavimento di marmo...

Erano lì, tutti insieme, Selim bey che recitava versi, Ousoun che andò a sedersi ai piedi di Nouchi, Mufti accompagnato da Lelia, lo scultore con suo fratello, che aveva una faccia da calmucco, Tefik bey, e altri due o tre giovani che Jonsac non conosceva.

Di fronte, Costantinopoli allargava contro il cielo purpureo il ventaglio dei suoi minareti e delle sue cupole.

I due musicisti portati da Jonsac cominciarono a suonare una nenia con le loro strane chitarre, e il motivo, ripetuto più e più volte, si fondeva a poco a poco con il fremito dell'aria.

Qualche barca a vela scivolava sul Bosforo. Davanti al porto erano ancorate delle navi, e nella luce del tramonto i loro scafi verniciati col minio si accendevano di rosso sangue. Stolberg serviva personalmente il raki, che andava bevuto d'un fiato fra l'uno e l'altro dei piccantissimi antipasti.

Di quella prima fase della serata Jonsac non ricordava altro. Un'impressione di magnificenza. Nouchi l'aveva avvertita più di chiunque altro e si era avvicinata a Stolberg.

La seconda fase si era svolta in sala da pranzo, dove avevano cenato alla luce delle candele. Ce n'erano un centinaio, che con le loro pigre fiammelle illuminavano il tavolo e i volti dei commensali. Nouchi si era seduta di sua iniziativa accanto a Stolberg, lontano da Jonsac, che invece era capitato vicino a Lelia.

Il tavolo era lungo. Solo di tanto in tanto Jonsac riusciva a scorgere il viso eccitato della ballerina o la sentiva ridere, mentre di fianco a lui Selim bey recitava una poesia a Lelia.

Un'altra cosa gli era rimasta impressa di quella parte della serata: ogni volta che echeggiava la risata di Nouchi, la ragazza vestita di bianco si girava a guardare incuriosita non lei ma Jonsac.

Cosa le avevano detto? Che erano amanti? Che erano amici?

Il grasso Selim bey continuava a farla bere, e lei non si tirava indietro.

«La sua amica è davvero affascinante» disse a Jonsac. «Ieri abbiamo fatto una passeggiata insieme, e mi sono divertita come non mi accadeva da tempo».

Erano le sole due donne in mezzo a tutti quegli uomini, due donne molto diverse. Lelia era l'unica figlia di un ricco commerciante, la cui famiglia viveva a Pera da tre generazioni. Si mostrava ancora più libera e disinvolta di Nouchi, ma in lei tutto, dall'aspetto ai gesti più banali, tradiva le origini alto borghesi.

Chi aveva versato da bere a Jonsac? Quando si alzarono da tavola aveva la testa pesante e si sentiva esausto. Nell'atrio i musicisti avevano ripreso a suonare, e una vecchia turca dalla voce acuta, che uno degli invitati aveva pescato chissà dove, cantò per un'ora delle canzoni tradizionali.

Alcuni ascoltavano, altri chiacchieravano in disparte. Tutta la casa era poco illuminata. Qua e là brillavano i cerchi di luce rossastra delle candele, che lasciavano in ombra ampie zone in cui si intravedevano i volti e le mani.

Mentre la donna cantava, Nouchi era scomparsa insieme a Stolberg e molto più tardi, quando Jonsac l'aveva ritrovata, aveva detto indicando il padrone di casa:

«Mi ha fatto visitare lo yali... È fantastico, ed è pieno di cose belle...».

Stolberg sorrideva; Jonsac tentò di sorridere a sua volta.

«E adesso» continuò lei «si fuma!».

Fumarono, infatti, e bevvero. La festa non aveva più un centro. Alcuni erano rimasti nell'atrio, dove Selim bey, sprofondato in una poltrona, raccontava ai musicisti vecchie storie turche. Per un bel po' Jonsac perse le tracce di Lelia, poi la rivide in un boudoir tappezzato di stoffe scure, dove, stesa su un divano, fumava le pipe di hashish che Ousoun le preparava.

In quel momento avrebbe voluto fermare tutto. Sentiva che qualcosa non andava. Non era a suo agio da nessuna parte e non si univa a nessun gruppo.

Fu allora che cominciò a fare su e giù per le scale, perché alcuni invitati si erano sistemati sulla terrazza del primo piano, mentre gli altri erano rimasti di sotto.

«Insomma, l'intera festa ruota intorno a due donne» diceva fra sé.

A due donne e a parecchie bottiglie! Vide passare, per esempio, il tizio con la faccia da calmucco, che aveva scovato una fiaschetta di whisky e se la spartiva con il fratello. Erano entrambi ubriachi. Non sapevano che fare e, come Jonsac, girovagavano per la casa, spostandosi senza tregua dall'ombra alla luce delle candele e poi al buio azzurrino delle terrazze.

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