Autore Georges Simenon
Titolo La fattoria del Coup de Vague
EdizioneAdelphi, Milano, 2021, Biblioteca 716 , pag. 142, cop.fle., dim. 14x22x1,1 cm , Isbn 978-88-459-3561-9
OriginaleLe Coup de Vague [1939]
TraduttoreSimona Mambrini
LettoreAngela Razzini, 2021
Classe narrativa francese












 

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Non aveva il minimo presentimento. Se al risveglio, mentre guardava dalla finestra il cielo ancora imbrattato dei residui della notte, gli avessero detto che quel giorno lo attendeva un evento decisivo, probabilmente, ingenuo com'era, ci avrebbe creduto. Magari, con gli occhi gonfi di sonno fissi a terra, avrebbe pensato:

«Senz'altro un incidente con la moto!».

Aveva una motocicletta nuova da otto cavalli, tutta cromata, con cui si divertiva a smarmittare su e giù per le strade.

Sennò che altro poteva succedere? Un incendio al Coup de Vague? In tal caso, le dirette interessate sarebbero state le sue due zie, e comunque ci sarebbe voluto poco a ricostruire una nuova fattoria.

Forse però avrebbe pensato a una faccenda che a volte lo angustiava prima di addormentarsi: il loro principale acquirente per i mitili era l'Algeria, dove ne spedivano a vagonate. Le cozze venivano imbarcate a Port-Vendres, ma siccome nel tragitto da La Rochelle perdevano peso, le tenevano a mollo due o tre giorni nel Mediterraneo per caricarle d'acqua.

Avrebbero ricevuto brutte notizie dall'Algeria? Gli avrebbero comunicato che le cozze avevano fatto delle vittime?

In realtà Jean non pensava a niente di tutto ciò, per la semplice ragione che niente lasciava presagire che stesse per accadere qualcosa. Come al solito, aveva aperto gli occhi cinque minuti prima che suonasse la sveglia, si era svogliatamente infilato un vecchio paio di pantaloni e due maglioni di lana, poi si era passato le dita tra i capelli e sciacquato la bocca con un po' d'acqua.

Faceva tutto parte di un rito, così come i passi furtivi di zia Hortense per le scale e il pluf del fornello a gas che accendeva per scaldare il caffè. Jean aspettava a scendere perché la zia, per guadagnare tempo, andava in cucina in camicia da notte e tornava poi di corsa in camera a vestirsi in modo sommario.

Un evento decisivo? Magari una vincita alla lotteria? Ma allora avrebbe dovuto trattarsi di una somma bella grossa! In ogni caso, mai e poi mai avrebbe immaginato che la circostanza imprevista potesse avere a che fare con Marthe, quella Marthe Sarlat di cui vedeva la stanza illuminata al primo piano della seconda casa a sinistra, in direzione di Marsilly.

Anche Marthe si stava vestendo, mentre il cielo cominciava a schiarirsi all'orizzonte; e in ogni fattoria, in ogni casa del paese ci si alzava mezzo intontiti.

Jean scese in cucina e calzò gli stivali di gomma che gli arrivavano all'inguine. Poco dopo arrivò zia Hortense, con i pantaloni neri di tela grossa a sbuffo, giacché, a differenza delle altre donne, lei non li portava blu, colore che considerava volgare.

«... 'giorno zia!».

«... 'giorno, Jean!».

Tutto funzionava all'unisono come un meccanismo ben congegnato. La striscia chiara di cielo si allargava e il mare si ritirava lentamente, scoprendo aree sempre più ampie di melma, di sabbia rossastra e di rocce.

I carretti e le voci si facevano più vicini. Pellerin, con i baffi rossicci umidi di rugiada, tirava fuori il cavallo dalla stalla e lo guidava tra le stanghe del carretto.

Era una giornata come tutte le altre, tranne per il fatto che il coefficiente di marea era a centoquindici, e che il mare si sarebbe ritirato di molto, oltre il limite dei vivai di molluschi, riducendosi a un fiume d'acqua corrente tra la costa e 1'Île de Ré.

La mattina a stento si salutavano. Oltrepassata la barriera frangiflutti, i carretti proseguivano sulla spiaggia disseminata di rocce verso i parchi di ostriche o le gabbie dalle grosse sbarre di ferro con dentro le cozze appena raccolte.

«Salve!...».

«Salve, Piene...».

Per lo più il saluto si limitava a un semplice cenno della mano. Faceva freddo. Sulla sabbia c'erano ancora pozze d'acqua. Jean si era portato dietro il barchino a fondo piatto perché voleva approfittare della marea eccezionalmente bassa e piantare altri pali oltre il limite del suo vivaio.

Era come andare nei campi, con la differenza che si trattava di campi di ostriche da una parte e di cozze dall'altra, e di lì a poche ore dove adesso si fermavano i carretti si sarebbe vista solo la distesa uniforme dell'oceano.

Nel grigiore dell'alba Jean scorse il fazzoletto rosso di Marthe, che era l'unica a mettersi in testa un fisciù scarlatto che spiccava da lontano. Marthe lavorava due o trecento metri più in là: anche lei, come zia Hortense, raccoglieva ostriche.

In verità accadde qualcosa che era sì insolito, ma non ancora allarmante: mentre tutti camminavano come in sogno, senza far caso agli altri, Marthe deviò verso Jean e gli disse:

«Devo parlarti».

E subito si allontanò. A lui era sembrato che avesse una brutta faccia sotto il fazzoletto rosso, ma nessuno appariva bello a quell'ora, con quel freddo, in quella luce grigia, con il viso non lavato e le palpebre ancora incollate dal sonno.

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Per tre volte di seguito, nella stessa settimana, si verificò uno scontro, o un diverbio, e ogni volta per Jean fu come se certe cose fino a quel momento inanimate, neutre o amichevoli si rivelassero improvvisamente ostili. Un po' come se, in un incubo, i muri avessero cominciato ad avanzare e a stringerglisi addosso.

Prima ci fu il pranzo dopo la trebbiatura. Dato che avevano finito di trebbiare a mezzogiorno, non c'era motivo di offrire la cena, ci avrebbe pensato il proprietario del campo vicino, dove stavano già trasportando la macchina.

Il menù prevedeva coniglio e brasato di manzo. Jean aveva fatto notare che sarebbe stata la quinta volta che mangiavano coniglio, ma zia Emilie aveva ribattuto che le altre volte non la riguardavano e quelli a cui non piaceva il coniglio se ne andassero a pranzare a casa loro.

Tutto sommato, non andò peggio dei giorni precedenti. C'era da mangiare in abbondanza e sulla tavola apparecchiata in cortile, all'ombra del camion, non mancavano bottiglie di vino bianco e rosso.

Non andò peggio, ma l'atmosfera era diversa. Alla Richardière, al Moulin-Neuf e in tutti gli altri posti c'era un'aria di baldoria generale a cui partecipavano le donne, le ragazze e persino le vecchie, che venivano ad ascoltare le chiacchiere postprandiali. Ci si alzava da tavola con il piatto in mano per andare a sedersi sotto un albero e se qualcuno aveva un bisogno impellente si allontanava di qualche metro senza neanche interrompere la conversazione.

Le zie invece erano inappuntabili. Con un grembiule a quadretti azzurri sul vestito nero, stavano in piedi accanto al tavolo, vicino alla cucina, a badare che non mancasse niente e a servire i commensali.

Persino Marthe, senza volerlo, contribuiva a dare l'impressione che i braccianti venissero ricevuti dai feudatari del luogo in occasione di un compleanno o un evento importante.

Aveva cercato di fare del suo meglio per dare una mano. Si era messa un vestito assai grazioso, un abitino leggero che, abbinato a un cappello di paglia a tesa larga, le dava un'aria da signora elegante in tenuta da passeggio.

Le zie non avevano detto niente e nemmeno Jean aveva fatto commenti. Non aveva importanza. D'altronde, prima che il pranzo terminasse, Jean aveva notato che Marthe aveva due solchi sottili ai lati del naso, e poco dopo era rientrata precipitosamente in casa. Tempo qualche minuto zia Hortense la seguì e si sentì un trambusto nella camera al piano di sopra. Forse era normale, ma a Jean sembrò di avvertire per un istante un leggero sentore di etere. Quando ridiscese, la zia gli fece segno di non preoccuparsi.

La bisboccia durava ormai da una settimana e non c'era più bisogno di bere molto perché la conversazione assumesse un tono allegrotto. A cominciare fu il vecchio, lo stesso che qualche giorno prima si era lasciato andare a confidenze sul boschetto della Richardière. Raccontò in dialetto una storiella che Jean non conosceva, una storiella oscena, più che spinta, di un cattivo gusto imbarazzante.

A quel punto Hortense, che era presente, intervenne con la calma e la freddezza che rendevano i suoi commenti così sgradevoli:

«Non si vergogna, alla sua età?».

Ci fu un attimo di smarrimento tra i commensali, e il vecchio chinò la testa sul piatto, ma subito dopo la rialzò, con un luccichio malizioso negli occhi.

«Senti un po', ragazza mia...».

Nella sua voce, in tutto il suo atteggiamento, non c'era il minimo imbarazzo. Anzi, ostentava una condiscendenza ironica ed era sconcertante vedere zia Hortense, alta e solida come una torre, che veniva trattata come una ragazzina.

«... non credi che certa gente farebbe meglio a starsene zitta?».

Al che, contro ogni aspettativa, Hortense non reagì e nemmeno Émilie, che ascoltava con le mani intrecciate sul ventre.

«Piuttosto, vai a prendermi un cicchetto, va'!» concluse il vecchio.

Poco prima qualcun altro aveva chiesto un grappino e Hortense gli aveva risposto in tono categorico che non era uso servirne a pranzo e che il vino bastava e avanzava.

Ciononostante andò in casa a prendere una bottiglia di acquavite e un bicchiere con il fondo spesso e servì da bere al vecchio, che disse tirando su con il naso:

«Alla tua salute, ragazza mia!».

Quell'episodio fece una strana impressione a Jean. Provava un senso di umiliazione per le zie, per l'intera casa, perché, pur essendosi trattato di un fugace battibecco, Hortense aveva ceduto su tutta la linea, davanti a tutti, anche sulla questione del cicchetto.

E come mai, poco dopo, la zia si era chiusa nel suo ufficio in compagnia del vecchio? Mentre gli ospiti cominciavano ad andarsene, Jean, attraverso i vetri della finestra, vide zia Hortense che muoveva le labbra scuotendo la testa, ma non riuscì a sentire cosa diceva.

Come aveva detto il vecchio?

«... certa gente farebbe meglio a starsene zitta...».

Jean si ripeté quella frase quattro o cinque volte nel corso del pomeriggio, e ogni volta gli tornava alla mente zia Hortense che batteva in ritirata davanti a tutti.

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Chissà perché gli era tornata in mente quella storia. A tormentarlo, in realtà, era l'espressione ripetuta con insistenza da Sarlat:

«... le due megere...».

E a ben vedere non era tanto l'espressione in sé a metterlo a disagio, ma qualcosa di più sottile, l'atteggiamento di Justin e dell'intera combriccola del Café de la Poste.

Il fatto è che aveva percepito, da parte di quella gente, un disprezzo particolare che non riusciva a spiegarsi esattamente, ma di cui gli sembrava, a sprazzi, di intuire le cause. Eppure, se cercava di capirci qualcosa tutto diventava ancora più confuso.

Sarlat picchiava la moglie, la povera Adélaïde che l'intero paese compativa. Da anni ormai viveva alle sue spalle e aveva finito per rovinarla. E quando era venuto a sapere di Jean e sua figlia si era precipitato alla fattoria per approfittarne.

Perché allora Jean non nutriva disprezzo nei suoi confronti? Perché poco prima gli aveva fatto piacere starsene seduto al bar e osservare il paese da quella postazione?

Un po' come quando, da piccolo, le zie gli dicevano:

«Ti proibisco di andare a giocare per la strada...».

Oppure:

«Non vedi che sono dei teppistelli? Non vorrai mica comportarti come loro?».

L'avevano mandato a studiare a La Rochelle. Non aveva mai frequentato la scuola del paese.

Forse per questo si stupiva che tutti, uomini e donne, compresi i vecchi, si trattassero con familiarità e alludessero a fatti che lui ignorava.

Lui si limitava a giocare a biliardo, ed era uno dei più bravi. Quando andava a ballare, le ragazze sussurravano:

«È arrivato Jean!».

Ma se la sua presenza suscitava tanta emozione era appunto perché lui era diverso dagli altri!

Finanche nel trasporto delle cozze, che i mitilicoltori di Marsilly affidavano a un camionista di La Rochelle, mentre le zie erano le uniche ad avere un camion di proprietà!

Jean era insofferente, si sentiva a disagio. L'avevano sbattuto fuori dal Café de la Poste, dov'era un intruso, e adesso se ne tornava alla fattoria per sentire zia Hortense che sospirava:

«È stata tanto male anche oggi, mio povero Jean!».

Tutti i giorni la stessa storia: le zie che lo compativano, lo circondavano di mille premure, e Marthe, a letto, che ostentava coraggio, sorrideva e sosteneva di non stare poi così male, che entro la primavera si sarebbe completamente ristabilita!

Quel giorno, chissà perché, passando dal piccolo ufficio che veniva usato soprattutto da zia Hortense, Jean si fermò davanti ai ritratti appesi alla parete nelle loro cornici ovali: due ingrandimenti fotografici dei genitori delle zie.

Quello del padre doveva essere stato ricavato da una foto di cattiva qualità, perché l'uomo era pallido, come sbiadito. Un viso lungo, troppo lungo e troppo stretto, che sembrava essere stato modellato in una materia molle, sul quale spiccava come unico segno caratteristico un paio di baffi spioventi e, sulla sommità della fronte, un ciuffo di capelli fini.

Era Laclau, Hector Laclau. Jean sapeva vagamente che era morto a quarantanove anni di una piccola ferita che si era infettata.

La moglie, con il collo chiuso in un davantino di pizzo nero, un medaglione appuntato sul petto e i capelli raccolti in uno stretto chignon in cima alla testa, aveva gli zigomi sporgenti di zia Hortense, le narici affilate e il piglio di chi comanda uno stuolo di domestici.

«Stai poco bene?» chiese Emilie quando il nipote si accomodò al suo posto, vicino alla finestra che sarebbe rimasta aperta ancora per un mese, fino ai primi freddi.

Jean guardò prima l'una poi l'altra e fu lì lì per chiedere:

«Perché mi avete detto che sono il figlio di Léon?».

E se non era il figlio di Léon, che cosa ci faceva in quella casa?

«Marthe vuole sempre farsi operare» gli annunciò zia Hortense passandogli un piatto di passere di mare.

«E il dottore?».

«Non si sbilancia. Ma ci ha fatto capire che è rischioso. La figlia di Bertrand è stata operata di appendicite ed è morta una settimana dopo. E lei era una ragazza robusta!».

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